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E lui sta quasi, quasi bene

di Umberto Piersanti

(Pubblichiamo una storia da Anime perse di Umberto Piersanti, Marcos y Marcos 2018).

Nell’alto Montefeltro vi sono sei centri di recupero diretti da Ferruccio Giovanetti. Accolgono persone dalla provenienza più diversa, da quelle afflitte da gravi disturbi psichiatrici ad emarginati sociali ad autori di atti delittuosi. Le sei strutture sono diversificate in modo tale da poter dare il massimo risultato in una difficile opera di recupero. Umberto Piersanti conosce e ha frequentato questo mondo. Dall’incontro di Ferruccio Giovanetti e di Umberto Piersanti è nata l’idea di questo libro. Ferruccio Giovanetti ha narrato venti vicende che prendono spunto da episodi e persone reali conosciute all’interno di tali strutture. Umberto Piersanti le ha trascritte e interpretate sempre attenendosi ai dati reali, ma sconfinando apertamente in momenti e situazioni di pura invenzione. Il libro nasce dunque dalla stretta collaborazione dei suoi due autori. L’intento è quello di rendere la complessità di un mondo e di destini che supera qualsiasi forma di fantasia. E tutti questi destini si sono, almeno per un momento, intrecciati dentro uno stesso luogo, nelle alte colline del Montefeltro.

****

Giovanni spazzava con cura quella parte della stanza che riguardava il suo letto, attento a non superare una invisibile linea di confine con la zona che riguardava il letto di Giuseppe. Lui con Giuseppe non parlava mai, non sapeva per quale motivo era finito lì in quel centro di cura. Giuseppe non era né grande né piccolo né grasso né magro, una figura anonima e intercambiabile, un uomo che puoi incontrare ovunque e sempre confondere, senza un minimo segno di riconoscimento.

Scese poi le scale lentamente e si mise ad innaffiare quella grande siepe di bosso che cerchiava la facciata dell’edificio. Era un giorno di prima estate, i rondoni sfrecciavano tra la siepe e i muri e dalle querce lontane gli uccelli facevano un gran concerto coi loro fischi e suoni cosìdifferenti. A Giovanni sarebbe piaciuto poterli distinguere, perché lui amava la precisione, distribuiva l’acqua alle foglie una per una e spazzava ogni fila di mattonelle sempre con lo stesso gesto e lo stesso ritmo, sempre con la stessa esatta misura. Ma il sole stava diventando troppo forte e lui si sedette nella panchina, la panchina dei pensieri come la chiamava. Pensieri, ricordi, fantasie, ma si possono distinguere? Tutto nella sua testa compariva dentro una luce violetta figure e vicende trapassavano veloci l’una nell’altra: lui che amava tanto la dimensione esatta, aveva sempre davanti gli occhi queste immagini confuse che si compenetravano l’una nell’altra come talora succede nei sogni.

La madre cantava sempre alla finestra, sempre davanti a quelle due gobbe del Vesuvio che tutto il mondo diceva lei ci invidia: erano canzoni dove c’entrava sempre il cielo e l’amore, anche i pesci erano innamorati, quasi sempre un po’ malinconiche, gli amori come si sa finiscono quasi sempre male. Ma la voce della madre era forte, intonata e serena: poteva raccontare le cose più terribili, ma era sempre luminosa come quel cielo e quel mare napoletani: almeno lo diceva la madre che a Napoli c’era il più bel azzurro di mare e di cielo di tutto il mondo.

Giovanni usciva poco, rare passeggiate tutt’attorno a quella casupola di periferia che aveva però quella gran vista sul Vesuvio. A vent’anni non gli interessavano né le donne né gli amici: gli piaceva stare dietro la madre al supermercato a tenergli aperta la borsa dove buttava spaghetti e i pomodori. Gli piaceva seguirla per la strada, entrare negli uffici quando pagava le bollette, aspettare seduto tranquillo nella panca. La madre era più del cielo e del mare, quelli esistevano solo perché c’era la madre, forse era la madre ad averli inventati.

Era al supermercato quando la madre cadde in terra senza dire una parola: e lui l’aveva alzata, ma questa era immobile, il volto quello di un manichino, morta, morta completamente in un solo istante e lui non sapeva cosa fare, a chi rivolgersi, con chi parlare; stava lì attonito e sconvolto, senza dire una parola. E quando la misero sul furgone lui la teneva per i piedi e non la voleva lasciar andare, lui non la voleva morta, lui non poteva stare senza la madre.

E’ passato il tempo: Giovanni è sbracato tra i cartoni alla stazione Termini. Tutt’attorno altri come lui, ma pieni di birra e alcol. Lui no, lui quando ha trovato qualcosa da mangiare, magari quello che gli hanno portato i volontari, resta immobile e tranquillo, beve solo l’acqua. Quel giorno i fischi dei treni sono più fitti ed insistenti e i tre compagni attorno più ubriachi e puzzolenti. Sono venuti da poco, non erano barboni abitudinari, raccontano di furti e di rapine, uno ha anche sparato, ma il colpo fortunatamente è andato a vuoto. Loro parlano sempre con Giovanni anche se lui non risponde, gli propongono cose strane, dicono che hanno le pistole, che lì vicino c’è una banca dove le carte sono così fitte che escono persino fuori dai cassetti e i cassieri paurosi e svogliati. Lì basta far vedere una siringa o un temperino e quelli ti riempiono di soldi come fanno i contadini quando mettono l’uva nei canestri. Lì bisogna andare, basta niente per fare i soldi, bere tutta la birra, dormire nei letti bianchi, scopare tutte le puttane del mondo. C’è il paradiso a tre passi e Giovanni non l’ha capito, se continua così resterà sempre tra i cartoni: quella è la sua occasione, non può perderla.

Bruno è il più ubriaco di tutti e rutta e sputacchia da fare schifo: “Vieni con noi Giovanni, ti diamo un taglierino, no una siringa che quelli hanno paura dell’Aids, sono fissati”.

“No, voglio stare qui per conto mio”.

“Domani facciamo il colpo, Franco si è quasi rotto una gamba, il posto è il tuo”.

“Te l’ho detto, non vengo”.

Bruno tira fuori una siringa dalla sua bisaccia: “Questa è la tua, se non vieni ti strozzo”.

E lo afferra nel collo, lo stringe forte, Giovanni si divincola, scalcia, prova a sputargli, ma non riesce, le dita di quell’altro gli serrano la gola. C’è una bottiglia grande, sarà di vino o di qualcos’altro e Giovanni la prende e sferra un colpo sulla nuca di Bruno. Esce un fiotto di sangue, i vetri conficcati nella carne: resta solo un pezzo di vetro in mano a Giovanni e lui lo conficca lì dove c’è il cuore e magari, un po’ più sotto, i budelli.

Gli altri due barboni sono fuggiti: dopo la madre, questa è la seconda volta che Giovanni ha d’innanzi un morto, un morto vero, ma questa volta è lui che l’ha ammazzato e ha fatto bene. Quello ne voleva troppe e poi stava per ammazzarlo e poi lui non vuole fare rapine, lui non vuole il male della gente. Restare disteso tra i cartoni, mangiare il pane con la mortadella dei volontari, guardare la gente e i treni, non conoscere nessuno, non sapere niente, questo è quello che piace a Giovanni. Nel mondo non c’è più la madre, dunque è solo e bisogna continuare a esserlo, non c’è donna o uomo che possa farti da madre.

Dopo sono venute le sbarre alle finestre, il cielo tutto nero, i corpi aggrovigliati dentro una specie di sgabuzzo. Si chiama manicomio criminale, Giovanni non sa se c’è l’inferno dopo la morte, ma quello è l’inferno, non ce ne può essere uno peggio.

Poi lo hanno liberato e hanno chiesto in giro se qualcuno se lo voleva prendere, ma lui nessuno lo voleva. E’ ritornato nelle stazioni, tra i cartoni, quello è il suo destino e non gli dispiace: lì non ci sono sbarre e il cielo, anche se affumicato, non è poi così nero e lì c’è anche qualcuno che canta come la madre. E poi ci sono i ragazzi che si baciano, quelli che corrono con le valigie, altri che si salutano col braccio alzato: no, a lui non interessa nessuno in particolare, non gli importa di sapere dove va e cosa fa, ma ci sono e gli fanno compagnia come le rotaie, i treni e i cartoni. E’ un mondo senza sbarre e questo basta.

Quella è una notte d’inverno, la stazione è piccola, Modena, ma il freddo no, quello è forte, molto più forte che a Roma. I volontari non sono passati, la fame è grossa e nessuno che ti dia uno straccio di coperta, che ti regali una bottiglia d’acqua. Del resto ognuno corre dietro la propria vita e come a lui non interessa chi passa, anche lui non interessa a chi passa. Arriva un altro barbone, è grosso, scuro, parla male, magari non è italiano.

“Lasciami i cartoni”.

Giovanni prova a resistere, ma quello ha un braccio di ferro, l’ha preso per la maglia e l’ha sbattuto via come niente fosse; non basta, adesso lo calcia e ride, ride come uno stronzo, sì, stronzo anche se Giovanni non ama le parolacce, lui non dice parolacce e non bestemmia, lui non si ubriaca e non rutta. Adesso l’altro dorme tranquillo: sì, una volta lui ha ammazzato un altro che lo voleva strozzare, strozzare senza motivo, anzi per fargli fare una rapina che è una cosa cha non bisogna fare e ti mettono anche in galera se ti prendono. Lui, invece, se lo strozza ha ragione: quello l’ha buttato fuori dai cartoni e poi gli ha dato i calci, con tutta la forza glieli ha dati. Bene, non potrà più calciare: lo afferra alla gola e stringe subito con tutta la forza, se l’altro fa a tempo a liberarsi lo massacra, se l’altro s’alza lui è morto. Stringe forte, con gli occhi chiusi e i denti stretti: no, quello non si rialza, quello crepa che non si sa se ancora dorme o si sveglia.

Ma non l’hanno riportato nel carcere, ma in questa casa grande dove c’è la siepe grande e dove puoi guardare i campi giù fino al mare. Qui si sta bene, ti danno da mangiare buono e puoi spazzare e pensare a tua madre come ti pare.

Nella panchina vicina si è seduta una donna, un po’ grassa, adesso c’ha la faccia che ride ma è di quelle che dopo piangono. Gianna ride e canta come la madre e lui la guarda fisso, senza sorridere, ma sta bene. Dopo, quella smette di cantare: “Vieni nella panchina, che gusto ti dà a stare sempre solo e sempre zitto?”.

Giovanni si siede nella panchina e lei gli tocca la mano. No, non è la madre, ma appena appena gli somiglia e lui sta quasi, quasi bene.

****

Nota sul libro
Ero salito nell’alto Montefeltro dove il mio amico Ferruccio Giovanetti dirige il Gruppo Atena, una grande struttura di recupero. Davo una mano alle attività culturali degli ospiti, commentavo le loro fotografie che ritraevano le edicole sacre e i paesaggi cari anche a Tonino Guerra. Sono venuto così a conoscenza di una serie di storie drammatiche e inquiete e mi sono dovuto confrontare con un mondo che conoscevo ben poco. Memorie, natura, amori, certo anche dolori, erano stati gli argomenti delle mie opere. Questa volta era un mondo diverso e lontano col quale mi incontravo. Ferruccio Giovanetti m’ha raccontato lui queste storie e mi ha stimolato a scriverci un libro. Senza i consigli, l’aiuto, l’intervento diretto di Giovanetti queste pagine non sarebbero mai state scritte. A tutti gli effetti il direttore del Gruppo Atena è il coautore di questo libro. Poi ho anche osservato la vita degli ospiti, la loro vicenda quotidiana. Il luogo, Monte Grimano, e gli spazi attorno, è bellissimo. La vista si estende dagli Appennini al mare, dall’Urbino intravista tra i suoi colli al lontano grattacielo di Rimini. Le stanze sono belle, ordinate e pulite. I letti di ferro, ornati con disegni di rose come usava nelle nostre campagne. Il mulino ad acqua ancora funzionante, gli orti coltivati dagli ospiti. Il cibo buono, in gran parte biologico.

Questo scenario, quasi d’idillio, si scontrava però con traumi e dolori quasi impossibili da superare. Il contrasto tra la bellezza della natura e l’opacità del male mi ha coinvolto e commosso. Questo libro di racconti è l’opera più “narrativa” che abbia scritto. Sono più noto come poeta, ma sono l’autore di vari romanzi. In questi ultimi però c’era sempre un protagonista in cui proiettavo me stesso anche se la vicenda era ambientata negli anni della seconda guerra mondiale. Qui mi dovevo confrontare con un’umanità che mi era quasi estranea e sconosciuta. Ho cercato di penetrare nella mente di questi protagonisti delle mie storie, penetrare quasi nelle fibre nelle pulsioni profonde del loro essere. Le storie sono tutte rigorosamente vere: i fatti narrati sono realmente accaduti. Non si tratta però assolutamente di schede psichiatriche: pensieri, reazioni, inquietudini varie le ho dovute immaginare e interpretare. Siamo dunque di fronte a un testo di letteratura, ad un’opera di invenzione anche se basata sul reale, su persone e vicende reali e concrete.

In queste pagine non intendo giudicare e neppure assolvere. Rimane comunque sempre, al di là di ogni crudeltà, di ogni misfatto, la dignità umana che non può scomparire. Homo sum, humani nihil a me alienum puto.

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davide orecchio
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Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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