A ciascuno il suo Camilleri

di Gianni Biondillo

Non l’ho mai conosciuto. Non c’è amico scrittore, soprattutto di genere, che non abbia un aneddoto con Camilleri. Me ne hanno raccontati per anni. Il mio è, banalmente, che non l’ho mai conosciuto. Più di una volta ho vagheggiato un incontro in qualche festival letterario, oppure ho programmato un viaggio a Roma per il solo piacere di parlargli, ma niente da fare. Così oggi ho la certezza che Camilleri resterà quello che è sempre stato per me: un personaggio mitologico, inventato, ultraumano. E il nostro rapporto l’unico possibile, quello corretto, unanime. Da scrittore (lui) a lettore (io).

Il primo romanzo che ho letto di Camilleri non fu un Montalbano e questa, in un certo senso, è stata la mia fortuna di lettore. Lessi Un filo di fumo, libro pubblicato nel 1980 e, all’epoca, perfettamente dimenticato da tutti. Era il secondo romanzo di Camilleri, dove appariva per la prima volta una Vigata storica, di fine Ottocento. Rimasi affascinato, ovviamente, dalla lingua misteriosa: non italiano, non siciliano. Scoprii, così, un autore dotto, di nicchia, capace di raffinatezze linguistiche gaddiane.

Poi l’autore di nicchia divenne autore di culto, così, d’improvviso. Capita, ogni tanto. Capita che un personaggio esploda fra le mani dell’autore e prenda una vita propria. Così fu con Montalbano, chiamato in quel modo in onore di un amico scrittore spagnolo (Manuel Vázquez Montalbán).

Camilleri, da questo punto di vista, aveva frantumato ogni luogo comune del mondo letterario dell’epoca. Non c’era bisogno d’essere un giovane talento per dire qualcosa di nuovo; non era vero che la scrittura dei gialli fosse piatta e senza ricerca; meno che mai che un giallo non potesse – come ipotizzavano Calvino e Savinio – avere scenari domestici. Il Camilleri dotto, il regista teatrale che aveva portato sulle scene per la prima volta in Italia Beckett e Ionesco, il delegato RAI che aveva curato il mitico Maigret con Gino Cervi, il giovane poeta già antologizzato da Ungaretti e Quasimodo, l’amico fraterno di Sciascia e di D’Arrigo, lo sapeva. Ma lo sapeva perché l’aveva compreso frequentando ad Enna, in gioventù, Francesco Cannarozzo, giallista che ambientò in Sicilia, ben prima di Sciascia, le storie del suo commissario. Che poi è la peculiarità del romanzo di genere italiano: non tanto trame intricate come partite di scacchi dove i personaggi sono pedine al servizio del plot, ma la trama come pretesto per scandagliare e raccontare l’umanità mutevole e dolente del nostro paese.

Camilleri è stato determinante in Italia per smantellare i pregiudizi sul genere. Prima di lui, non ostate avessimo già avuto un autore della qualità di Scerbaneco, chi scriveva un giallo veniva trattato come uno scrittore di romanzi pornografici. Roba da malati, robaccia da edicola, da sala d’aspetto. Il fastidio della letteratura colta, quella col lauro in testa, a dover ammettere che si potesse lavorare sull’impasto linguistico e sulla trama contemporaneamente, che si potesse fare intrattenimento di qualità, che si potesse fare letteratura, insomma, anche con la narrativa di genere credo sia diventato rabbia smodata, dolore allo stomaco, ulcera perforata, quando, Camilleri in vita, apparve il primo Meridiano di Montalbano. Follia, vergogna, vituperio! Un giallista al pari dei grandi della letteratura patria! Chissà le risate che si sarà fatto Camilleri.

Che poi ognuno ha il suo, di Camilleri. Ammetto che il mio non contempla la serie di Montalbano. Ne ho letti alcuni, mi hanno divertito, ma il culto attorno al personaggio, scatenato dalla serie televisiva, non mi ha mai particolarmente coinvolto. Il mio Camilleri è – colpa come dicevo del mio primo incontro con lui – quello storico. Quello della Concessione del telefono o, per dire, del Re di Girgenti. Non dimenticherò mai la sensazione di vertigine che ebbi tenendo fra le mani Il birraio di Preston. La certezza che stavo leggendo uno scrittore (all’epoca non ancora conosciuto) che era già naturalmente nell’empireo dei grandi. Già culto per me, già mito letterario.

Tutto quello che è arrivato dopo, la sua fortuna (tradotto in 120 lingue, con una serie televisiva tratta dai suoi romanzi venduta in tutto il mondo), l’ho sempre trovato miracoloso, incomprensibile eppure meritatissimo. Perché fu per tutti noi, lettori prima che scrittori, un esempio di intellettuale sempre in prima fila, schierato, con la schiena dritta. Perché ci ha insegnato che studio, approfondimento, ricerca vanno pari passo con passione, divertimento, leggerezza. Questa la sua eredità, in una riga: essere curiosi e affamati del mondo, della vita. Fino all’ultimo giorno.

(pubblicato anche qui)

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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