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Ti s’è svegliato il cuore! Allergia, di Massimo Ferretti

 

 

Una volta ancora, la casa editrice Giometti e Antonello di Macerata ha fatto insorgere un’opera fondamentale da quella cupa fangaia dove vengono gettati gli autori di cui non si è potuto fare un calco preciso. In questo caso si tratta di Allergia, breviario dell’inappartenenza composto dal poeta Massimo Ferretti e stampato per Garzanti nel 1963: «Nella mia vita il viaggio resta il segno / di ciò che doveva essere la vita / se l’avessi capita troppo tardi. / Ma ho capito tutto troppo presto / e ogni viaggio è uno spostamento / da una solitudine a un silenzio». Lette oggi, queste sue parole imbevute di torto mi appaiono come lividi in rilievo, e in ogni nicchia gelata vi spio una lotta per riportarvi calore.

Nato a Chiaravalle il 13 febbraio del 1935, Ferretti morirà a 39 anni a causa di un problema cardiaco, quell’endocardite reumatica che contribuì a fare della sua esistenza il resoconto di chi del mondo ha visto soprattutto le secche, le stretture, e che nonostante ciò ha sparso un rigo d’inchiostro per ogni fitta: «Il suo sperimentare» scriverà Pasolini «non è altro che il suo attaccarsi alla vita: un solo gesto, cioè, che per valere deve essere sempre diverso.». Certo: Ferretti si tormenta, prende congedo, e sembra tramare uno sciopero ogni volta che va a capo. Eppure è proprio questo tenace adoprarsi per fare del libro un perenne scuotimento che bisogna insistere a chiamare poesia.

Così il verso di Ferretti, proprio quando sembra ripararsi nella soffitta della decadenza, ci esorta piuttosto a stravolgere la rovina, a guastare festosamente qualsiasi sentore di prosciugamento, di siccità. Soprattutto, a reclamare la vita: «[…] Ma resterò. Resterò a rincorrere la vostra perfezione di selvaggi […] Ma sappiate che io non so nuotare: e il coltello dell’odio e dell’amore l’ho sepolto nel mare».

Di seguito, pubblico una selezione di poesie dal volume, per gentile concessione degli editori, che ringrazio.

 

 

Da Ad un giradischi

(Il Donchisciotte della Rabbia)

 

[…]

 

Volevo andare a scuola d’ottimismo

quando mi accorsi d’essere felice.

Come chi dice di fotografie lasciate

allo stato negativo

per confortare di contorni bianchi

il buio delle parti addette all’anima

e un alfabeto d’onomatopee:

rutto / pernacchia / fischio / gargarismo /

e un finale a sorpresa di

risate.

 

È aperto – vi prego – non bussate.

 

***

 

Da I versi urbani

 

Tra il pollice e l’indice è tesa

un’arpa di nichel o d’argento…

 

… colore incontrollabile!:

 

con il lampione lontano

e l’interruttore sul muro

alle spalle della finestra

da cui ti contemplo dormire.

 

Ma in questa minuscola rete

è presa «tutta la storia»:

i tetti del centro

gli alberi del rione

 

la Cupola e l’Antenna

Eliogabalo e Accattone

Catullo e Sandro Penna

i preti i preti i preti

le stelle i culi le mammelle

il muschio dei governanti

i vespasiani i ruderi i fascisti

la libertà del meccanismo

i direttori i redattori i professori

i feti gli aborti i figli –

 

i sette colli della tua leggenda

e i sette giorni della mia settimana…

 

Città-capitale,

io ti guardo dal filtro della sostanza

che ho estratto dai buchi del naso

con l’unghia del dito minore.

 

***

 

Da Deoso

[…]

 

Già sento malfidi tremiti,

ecco che il falbo sole s’assiepa!

Il fluire di rabidi fermenti diviene costante… Ecco strabocca!

Ti s’è svegliato il cuore! Sobbuglia!

Più forte ansima su di me con le tue creste,

squassa, divelgi, sfacela questo corpo

che avvelena l’aria che respira

che agita la sabbia dei deserti

che toglie luce al sole.

Il tuo rabbuffoso fermento,

credimi, non è un tormento.

Arremba su di me una sola minaccia:

che tu ti stenda in quieta bonaccia.

E già grandeggia il rumore del silenzio,

seviziatore e tiranno dei suoni…

Lontani si protendono i monti,

dai bivacchi dei pastori s’alzano sopiti fumi –

qui i fari pascolano con i loro lumi.

O voce, questa notte di cinigia

m’è più dolce d’un’alba bigia.

 

Premessa dell’autore a Deoso. Rappresentazione poetica (1954)

Questo nuovo mito è dedicato a tutti coloro che credono – anche se non con troppa fiducia – in un mondo interminato fatto a strati che ogni età, con la sua civiltà, colma, ma non completa; e che il tempo rende sempre più difficile a riempire la parte nuova, perché il progresso si scrolla di dosso anche delle scorie, inevitabili eredità per chi resta. Come ai figli generati dagli uomini e dalle donne che vissero in una ipotetica età dell’argento – se la vogliamo lontana da noi – o dell’uranio – se la preferiamo più vicina – in cui la paura pesava tutta sulle spalle di un capro espiatorio: Deoso, un infelice bastardo, figlio non riconosciuto della Paura e del Genere Umano.

 

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2 Commenti

  1. Non conosco codesto Poeta ma ne sto iniziando ad intuirne la potenza ideativa, leggerò volentieri il testo della meritoria editrice G.&A., ottima recensione
    r.m.

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Giorgiomaria Cornelio
Giorgiomaria Cornelio (1997) è poeta, regista, curatore, redattore di «Nazione Indiana». Ha co-diretto la "Trilogia dei viandanti" (2016-2020), presentata in festival e spazi espositivi internazionali. Suoi interventi sono apparsi su «Doppiozero», «Il Tascabile», «Antinomie», «L'indiscreto». Ha vinto il Premio Opera Prima con la raccolta "La Promessa Focaia" (Anterem, 2019). Ha pubblicato "La consegna delle braci” (Luca Sossella Editore) e “La Specie storta" ( Edizioni Tlon ). Cura il progetto “Edizioni volatili”, e la festa della poesia "I fumi della fornace".
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