Il nulla del pedagogismo. Il coraggio di affermarlo chiaramente

di Giovanni Carosotti

Per introdurre l’importante pubblicazione di Gigi Monello [La Fuffoscuola. Lessico fuori dai denti di un insegnante a fine carriera, Scepsi & Mattana Editori, Cagliari 2019] conviene partire da una citazione di Giulio Ferroni contenuta in questo volumetto, di sorprendente attualità, che anche a me è capitato di citare più volte, pure recentemente, e che ho con soddisfazione ritrovato tra i riferimenti di Monello: «Il linguaggio della pedagogia associa spesso in frullati turbinosi materiali letterari, tecniche desunte dalle più varie scienze, gerghi massmediatici, anglismi di vario tipo desunti da trattati di pedagogia e di psicologia , formule politico-burocratiche: i termini più diversi assumono nell’argomentazione pedagogica un’aura tecnico-scientifica che spesso copre ed esalta riferimenti in realtà piuttosto semplici e banali. Ecco ad esempio un gran parlare di ottimizzazione dell’apprendimento e un vario schierarsi di funzioni quali amplificazione, implementazione, distanziamento, globalizzazione, individualizzazione. A leggere molti testi di questo tipo si ha proprio l’impressione di essere presi nella rete di un’ovvietà che si presenta come complessità».

Il testo di Monello parte proprio da qui, da una volontà dissacrante nei confronti di questa neolingua, di chiaro sapore orwelliano, che ormai domina in modo incontrastato tra i tecnici del MIUR, indipendentemente dal colore dei governi che in questi anni si sono succeduti, e che viene imposta con violenza normativa alle scuole, in modo così pervasivo da essere stata interiorizzata, per stanchezza o arrendevolezza, da molti docenti (usiamo il termine violenza perché tali documenti, avendo la pretesa di fondarsi su presupposti scientifici non discutibili, si impongono quali necessità epocali, senza confrontarsi con l’autorevole letteratura critica e i dati falsificanti). Mostrare con raro senso dell’umorismo che il «re è nudo», che dietro tale linguaggio c’è solo cialtroneria concettuale e aberrazione linguistica, è l’intento di Monello. Il quale, e vedremo perché è bene tenerlo presente, ha al suo attivo alcune interessantissime pubblicazioni di ordine storico di grande profondità analitica e filologica, che meriterebbero ben altra diffusione [Accadde a Famagosta. L’assedio di una fortezza veneziana, Cagliari 2006; Il principe e il suo sicario, come Cesare Borgia tolse dal mondo Astore Manfredi, Cagliari 2007; e, di carattere letterario, La luce nel fosso, tre racconti su Leopardi e Napoli Cagliari 2014]. Per non parlare di alcune attività di approfondimento didattico con i suoi studenti, di argomento meritevolmente disciplinare, a testimonianza di come, per coinvolgere gli alunni, non sia necessario mascherare i contenuti disciplinari con apparenze falsamente attualizzanti e strategie ludico-distraenti.

Tale precisazione sul carattere erudito delle conoscenze di Monello è essenziale. Innanzitutto per interpretare in modo adeguato il titolo, La Fuffoscuola, che potrebbe suonare come una boutade, uno sguardo sì ironico sul linguaggio diffuso presso il MIUR, ma sostanzialmente pregiudiziale. L’espressione intende invece denunciare, in modo rigoroso, il carattere di pseudoscienza dell’impostazione teorica che, da Luigi Berlinguer in avanti, è stata fondamento di tutta la politica riformatrice verso la scuola. E che pseudoscienza resta, nonostante la continuità con cui è stata perseguita e il sostanziale accordo tra tutte le forze politiche nel volerla realizzare. L’inizio del testo è fulminante, mostrando l’uso improprio di metafore utilizzato dai fautori della cosiddetta «didattica inclusiva», nella volontà di corroborare il carattere innovativo della loro azione (“canotti”, “salvagenti” e “trampolini”, con questi ultimi che nulla c’entrano con l’accostamento «nuotare»-«apprendere» che si vorrebbe sostenere). Una tale argomentazione viene subito definita quale «stronzata», nel senso però dell’importante saggio di Harry Franfurt (Bullshit), pubblicato nel 1986: «la stronzata, a differenza della menzogna, è un comportamento linguistico che non si pone tanto in rapporto con la verità, quanto con l’affettività; risponde cioè al bisogno, vivo in chi la profferisce, di stupire e venire ammirato». Un termine utilizzato dunque non nella sua valenza quotidiana, il che avrebbe portato a un atteggiamento di carattere moralistico, ma in senso «analitico», come l’Autore ci tiene a precisare. In questo senso anche l’espressione «fuffa» va intesa in questo pregnante desiderio di approfondimento linguistico. Dopo avere analizzato l’origine del termine, e avere registrato –con le inevitabili variazioni- la sua presenza in diversi dizionari della lingua italiana, Monello così conclude in nota: «Nel vocabolo pare si fondano due sensi: l’inconsistenza/pochezza e la –compensatrice- apparenza complicata/intricata. Insomma, un’apparenza ingannevole di ingarbugli seriosi, che nasconde la paccottiglia sostanziale». Una precisazione di ordine linguistico che diventa anche, nella nostra interpretazione, un chiaro indirizzo politico; gli insegnanti dovranno anche rassegnarsi alla sconfitta, rispetto a una volontà di affermazione di procedure didattiche che si sono loro imposte secondo una logica totalitaria (proprio perché autocelebrantisi senza alcun confronto contraddittorio, nonostante l’autorevole letteratura che ne provava l’inconsistenza, sistematicamente ignorata), ma non devono fare propria questa “paccottiglia”, ovvero devono continuare a denunciarne l’inconsistenza culturale, l’effetto di devastazione culturale che è destinata a produrre (e di cui i documenti più volte citati nel testo ne sono una chiara espressione), già ormai in stato di deciso avanzamento, anche perché appoggiata e diffusa dai media. Gli insegnanti, memori della figura e del prestigio intellettuale che rappresentano, devono comunque produrre una resistenza culturale e, se proprio non possono evitare di scendere a compromessi con tali pseudo pratiche, devono in ogni caso cercare di limitare i danni, di reggere sul piano dei contenuti, nell’interesse autentico dei loro studenti. Di conseguenza, l’atteggiamento ironico-dissacrante scelto dall’autore, al di là della valenza impressionistica che sembrerebbe possedere un termine come «fuffa», rimane l’unico atteggiamento rigoroso per decodificare il senso del linguaggio dei riformatori.

Sulla base di queste premesse, dopo un’introduzione che riporta, con il consueto tono irriverente di Monello, l’origine della degenerazione della scuola, a partire dagli sciagurati provvedimenti di Bassanini e Berlinguer, il testo si struttura nella modalità del Glossario; in venti voci svela la vacuità impressionate e inquietante del lessico proprio della riforma. Un intento, quindi, di decostruzione linguistica, che rinuncia all’idea di proporre all’interlocutore un confronto alla pari, inutile visto che non c’è mai stata risposta da parte del mondo pedagogistico; bensì mostrando il senso del ridicolo, tanto più evidente quanto più la prosa ministeriale si atteggia a linguaggio di pseudo scienza, si prende sul serio e continuamente si auto celebra in nome dell’innovazione.

Alcune voci scelte, proposte in ordine alfabetico, sono di carattere storico (Autonomia, Dirigente scolastico), altre di irrisione con intenti però di riflessione metodologica (Fuffa, Marasma, Onanismo pedagogico), altre ancora riguardano i concetti centrali della pseudo-innovazione, ridicolizzati con un tono ironico ma nello stesso tempo con rigore analitico veramente ammirevoli (Competenza, Griglia, Includere, Progetto, Respingere, Successo formativo, UDA, Viaggio di istruzione); cui aggiungiamo quelle che fanno riferimento a una quotidianità docente sempre più umiliata e sempre più privata del tempo che le occorre per raggiungere gli obiettivi formativi (Quotidianità, Allegro sperpero del tempo).

Ognuna delle voci è preceduta da un breve, esilarante, commento; tutti a mio parere memorabili per la maestria già ricordata, grazie alla quale l’Autore coglie con puntualità quella che potremmo definire una totale mancanza di “buona educazione intellettuale” da parte di chi quei provvedimenti li elabora. Possiamo aggiungere che Monello si prende una giusta vendetta –e la fa prendere a tutti noi docenti- ripagando il nostro interlocutore legislativo con la stessa moneta, ma attraverso una scelta linguistica più efficace, che ne smaschera l’inconsistenza sul piano teorico; ovvero, se i documenti ministeriali sprezzantemente ignorano le critiche giustificate all’impostazione didattica da essi sostenuta, con un tono serioso e pseudoscientifico francamente imbarazzante, Monello non li gratifica prendendoli sul serio, ma ne deride proprio questa ingiustificata presunzione, rivelando l’inconsistenza del falso sapere pedagogico. Meritano a proposito di essere riportati tre brevi esempi (scelti arbitrariamente da chi scrive) che, confidiamo, una volta letti indurranno al desiderio di conoscerli tutti. Per quanto riguarda la voce “Competenza”: «Possente architrave speculativa, nonché primo mistero grandioso della religione dell’Autonomia. Dicesi “mistero”, poiché il concetto è vago, come vaga ha da essere ogni forza divina che si rispetti. Circa la competenza sarà possibile, al massimo, citarla, immaginarla, recitarla, adorarla, genuflettersi, invocarla, benedirla; mai spiegarla: la sminuireste, portandola nell’ambito del definibile. […]». A cui possiamo aggiungere le ultime quattro righe dell’introduzione alla voce “Onanismo pedagogico”: «Nel caso di specie, il pedagogista sceglie –a un dipresso del dermatologo tra le mediche specialità- il più abbordabile, popolare e rotocalcabile tra gli impegni intellettuali possibili, cioè quello di insegnare a insegnare». In ultimo l’introduzione alla voce “Griglia” «Manufatto idolatrico immancabilmente sbucante fuori ogniqualvolta sia necessario assegnare un qualsivoglia punteggio al virgulto – alias alunno. Nato dalla smania quantificatrice della setta dei costrutto-competenzialisti e divenuto oggetto di sacralità circonfuso, la griglia è oggi insostituibile attrezzo del mestiere docente. Ben nota la sua azione: agendo sui centri nervosi, favorisce rilascio di endorfine, procurando stato di benessere psico-fisico e sensazione di controllo sul mondo. Impagabile risorsa, soprattutto in tempo di esami e scrutini, quando forte è l’ansia da irruzione ispettoriale o ricorso genitoriale (“Se tutte le carte sono a posto – usa ripetere lo scaltrissimo presidente – col cavolo che lo vincono il ricorso”)». Ebbene, a queste voci seguono delle analisi  che mantengono lo stesso giusto tono di scherno, ma che sono assolutamente precise nel citare i documenti appropriati, nel fare i corretti riferimenti normativi e bibliografici. Tanto che, a fine lettura, è possibile avere un quadro storico-analitico estremamente rigoroso sulla più che ventennale devastazione culturale a cui è stata soggetto la scuola pubblica italiana. Come dare torto  all’Autore, quando si leggono citazioni come la seguente di Giuseppe Bertagna, una tra le tante riportate nello studio: «proprio perché non sono soltanto sapere e saper fare, ma anche, allo stesso tempo, emozione, sentimento, volontà, motricità, socialità, espressività, apprezzamento estetico, azione, intuito che accompagnano, in un intreccio personale indistinguibile, tale sapere e saper fare nel risolvere un reale problema dato, si possono solo testimoniare». Dove si notano contemporaneamente –scrive giustamente Monello- sia la vaghezza concettuale sia un «tono mistico e oracolare […] nella prospettiva dell’attesa e dell’avvento» che non merita in effetti un commento se non nel tono della derisione. Aggiungerei che, in questa citazione, però, al di là della vaghezza, si nota anche qualcos’altro di importante, senza comprendere il quale non è possibile capire come tale inconsistenza teoretica abbia finito alla fine per imporsi: ovvero chi ha scritto quelle riflessioni aveva ben chiaro un obiettivo pratico, politico e ideologico insieme, ovvero quello di condurre lo studente non a una comprensione di ampi orizzonti culturali del proprio presente attraverso una conoscenza olistica e attenta dei diversi contributi disciplinari, bensì metterlo in condizioni di «risolvere un reale problema dato», ovvero rispondere operativamente a un compito assegnato, senza che ne comprenda necessariamente il contesto sistemico in cui esso trova giustificazione. Una logica puramente aziendalista, estranea alle finalità di emancipazione intellettuale e civile che dovrebbe avere la scuola pubblica, e che sfrutta banali argomentazioni psicologistiche per produrre soggettività sostanzialmente subordinate (si veda, ad esempio, il recente documento sulle soft skills, pubblicato sul “Corriere della Sera” il 14 agosto scorso, e che dovrebbe dare origine a un nuovo, evanescente curricolo trasversale).

Al di là dello smascheramento di tale mistificazione linguistica, nel libro di Monello appaiono tutti  gli stereotipi della nuova pedagogia, entrati ormai a far parte del vissuto quotidiano di ogni docente, spesso ormai applicati con rassegnazione, senza più mettere in atto un doveroso lavoro di opposizione critico-intellettuale, che invece la Fuffoscuola ci invita a elaborare. Dal nuovo ruolo dirigenziale-burocratico assunto dai Dirigenti scolastici, all’abuso del termine «educazione», declinato in modo dispersivo in tante settorialità, alla ricerca non della maturazione formativa, bensì dell’«evento show», che non favorisce la concentrazione, ma la dispersione ludica; dal carattere demagogico del nuovo curricolo di ”Educazione Civica”, al falso progressismo con cui viene giustificata la deriva tecnocratica in ambito didattico e la burocrazia sempre più invadente ed inutile che coinvolge il lavoro quotidiano dei docenti.  L’«organico di potenziamento» viene giustamente interpretato nella sua reale funzione ricattatoria verso gli insegnanti. Non mancano nemmeno riflessioni sull’uso ridicolo e ridondante degli anglicismi nella letteratura pedagogistica, né sul modo demagogico in cui viene inseguito l’obiettivo del “successo formativo”, e quello strumentale con cui si burocratizza, con ben altri fini che quelli della reale solidarietà, la didattica inclusiva.

Un testo importante, che speriamo possa di nuovo favorire una presa di coscienza critica dei docenti contro la mediocrità intellettuale di chi si è imposto il compito di cambiare i connotati del loro alto profilo professionale e intellettuale. Di modo che essi sappiano riconquistare gli spazi decisionali che spettano loro negli organi collegiali; opporsi con solidarietà a tutti gli episodi di mobbing con cui si cerca di forzare la libertà di insegnamento ancora garantita dall’articolo 33 della Costituzione, per costringerli ad aderire alle nuove, inefficaci e insensate, (pseudo)innovazioni didattiche; saper reagire con il giusto sdegno quando si trovano di fronte i nuovi formatori (gli «scienziati della didattica», ha avuto l’ardire di definirli un documento ministeriale di qualche tempo fa), in modo da affrontarli a muso duro, e metterli di fronte alla loro ignoranza e inconsistenza, in genere tanto più ampia quanto più viene esposta con arroganza. In nome dell’emancipazione  civile e politica delle nuove generazioni.

 

 

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8 Commenti

  1. Grazie. Erano anni che speravo di incontrare qualcuno che la pensasse come me – pubblicamente (perchè nei corridoi questa voce è per fortuna ancora presente). Un abbraccio

    • eccellente.
      Sarebbe anche utile capire perché le grandi rivoluzioni della didattica invocate da tutti agli inizi del novecento non ebbero mai luogo
      effeffe

  2. Un articolo acuto. Per chi (come me) non ha letto il libro di Monello, si rivela (l’articolo!) un suggerimento di lettura formidabile. Ho apprezzato in particolar modo l’analisi che scaturisce dall’osservazione sulla vaghezza del discorso di Bertagna. Un articolo che riesce a mettere chiaramente in risalto le scelte stilistiche dell’autore (Monello), giustificandole all’interno di un contesto narrativo. Sottolinea i punti chiave del testo e si addentra in osservazioni non banali, permettendo di cogliere, concettualmente, più piccioni con una fava (…l’articolo!) :)

    Un grazie, e un caro saluto

  3. Interessante la presentazione di Carosotti del libro di Monello in quanto ne coglie l’essenza con mirabile sintesi. Riformatori incapaci di tenere il polso della situazione della scuola italiana che si nascondono dietro una terminologia tanto fumosa quanto supponente. Un frullato di definizioni vaghe che annuncia una didattica riformatrice sorretta dall’ipertrofismo della certificazione di competenze fasulle a danno della conoscenza. L’unico risultato tangibile che i Riformatori della Scuola-Azienda hanno ottenuto è uno sbriciolamento dell’apprendimento che ammicca con il nozionismo e con le pratiche formative dell’esibizione-spettacolo. Ma quello che sorprende di più nel degrado che sta attraversando la scuola pubblica è l’assenza di indignazione e reazione della classe docente, a parte le singole proteste, che fino adesso si è dimostrata così frastornata e inibita da sembrare collaborativa dello scempio che sta avvenendo. Lo stesso Monello denuncia l’ossequio servile all’autorità costituita presente nel comportamento dei docenti, i quali si adagiano alle riforme demenziali senza reagire. Per questo motivo penso che la conclusione di Carosotti che auspica una reazione degli insegnanti sia destinata a rimanere una speranza inattuabile. Chiediamoci anche perché la classe docente è diventata così conformista.

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