Nei giorni ultimi negli ultimi tempi. Matteo Meschiari: Finisterre

 

Per la Nino Aragno Editore, nella collana I domani (curata da Maria Grazia Calandrone, Andrea Cortellessa e Laura Pugno), è uscito recentemente Finisterre, poema epico di Matteo Meschiari «composto oralmente e poi trascritto».

Annota Laura Pugno nell’introduzione al volume: «Ragionare, finché dura, sull’Antropocene è il compito che Meschiari si è prefisso in opera, e che pratica anche qui, un “pensare attraverso la terra”, con l’augurio “che il terreno sia complessità della mente”, e che davvero si possa “dire il non detto di ghiaccio”, dove il ghiaccio è rovescio del fuoco del clima, ustione mortale.» 

In Finisterre il poema diventa il lampeggio di terraferma già fratello alla valanga, la conca dove le parole inverdiscono al di fuori dell’uomo. Si scrive, suggerisce l’autore, in quell’ora cruciale che è l’avanzo di ogni esodo, l’ora dove si torce pure la fiaccola: ora del mondo.

 

 «Era il crepuscolo era l’ora del mondo / era l’ora più blu prima che scenda il buio.» 

 

Per gentile concessione dell’editore, ospito qui alcuni estratti dal libro (in anteprima).

 

 

20

Nel livido spazio in formazione – tra nevi

nel viola secco dei rami le scarpate di nubi

in alto in basso svuotando le rocce calavano

salivano liberando l’inverno. Qualcosa di

interno

scioglieva a grumi il gelo in rivoli scomposti

dall’alto della montagna verso l’acqua del

fondo.

I sotterranei di foglie macere il gocciolio scarico

di pietre

erano il brivido di sotto di pochissima neve –

neve

forata dall’ineguale spinta vegetale. I contro-

fianchi

del granito e il terriccio in flusso d’alga-

corteccia

il latte sfagliato delle betulle e il seme rappreso

dei rami

tutto e poi tutto nel vapore della nube in

formazione

tra larice e mugo e muschio e felce instabile

intrisa

si sciolse in qualcosa una cosa d’inverno –

lievitando.

La luce insolita passava sulla pellicola del

bacino

bianco solo neve – o quasi. E intanto alla morte

carnale

di un corpo più o meno qualunque seguiva la

morte dell’occhio.

I soli innervati nella memoria le luci che lei sola

vide

vita sostituita dalla prole ma unica a vedere

qualcosa

di banale di irripetuto morivano.

Morivano con il corpo i soli della memoria –

sciupati
in un unico corpo ma accaduti con il corpo e

con la stessa energia

senza piste dei qui degli ora. Passava la luce del

pomeriggio

l’unica che io vedevo sulla pellicola bianca del

bacino

ed era un giorno di neve sui graniti viola in

lenta formazione.

 

21

Ma questo veniva dopo. Ancora non morivo.

E nelle conche nelle valli più alte

la neve si accumulò grano dopo grano

e i grani si unirono in ghiaccio.

Un bianco un osso un metallo

incrostava i versanti e lingue tortuose

colavano spostate dal loro peso.

Non era la prima volta del ghiaccio

nello spazio tra i deserti – elitra per solo

granito.

Aveva fecondato la terra di un nuovo

movimento

un presente che avanza nelle valli e le cambia.

Scendeva giù nelle ere senza ossigeno

con nevi di ammoniaca – e scese

nell’età dell’ossigeno con acqua gelata.

Il suo essere da neve – strati impilati

era accedere senza angoscia alle cose.

Lassù non ero più la preda della vita

ma un largo acquietarmi nel bianco

riconoscere nella rete di azzurri

complessità nel cranio parallele di crepacci

movimenti radiali di idee.

E ancor più dello sguardo

era il desiderio di stare di incontrarlo

avanzare nell’incamminabile duro

troppo in là per qualunque biologia.

Deserto – ma anche ampiezza di oceano

per immagine – non a immagine

delle cose. Nemmeno una forma di sapere

un respirare cieco piuttosto

un dover essere evidenza in un mondo che non

chiede.

Né bellezza né cuore – puro essere per.

Era capire qualcosa su di me.

Perché l’indifferenza del ghiaccio

era la non indifferenza per ciò che è

un pensiero inorganico della vita.

Perché mi obbligavo al ghiaccio e trovavo

libertà

mi immergevo lontano dalla vita

ed emergeva l’altro – una specie di volto

partito preso per l’essere per poter essere a.

E poi guardare – ancora – guardare le masse

glaciali

e capire da lì che l’uomo deve ancora venire.

Così guardavo. Con tutte le membra

calmo – senza fuochi da rubare.

 

45

Nei giorni ultimi negli ultimi tempi

nei mesi ultimi negli ultimi tempi

negli anni ultimi negli ultimi tempi

nei giorni ultimi quando non c’erano acque

negli ultimi tempi quando l’aria mancava

quando gli oceani erano arcipelaghi di resti

e i temporali rovesciavano tempeste

quando il mare asciugava la terra

e la terra fu allagata in deserto

e il nome dell’uomo si perse

nelle grandi biblioteche dell’aria

quando le guerre disciolsero la sabbia

e le parole si ridussero a dieci

quando il morbo sbiancò gli occhi ai viventi

e le masse si mangiarono tra loro

quando il drago della morte si distese sul

mondo

adagiato su rovine di tesori

su desolazioni di saperi e culture

allora s’incamminò verso l’alba

la solitaria camminatrice notturna

scelse il sentiero a oriente la piccola figlia dei

ricordi

la cercatrice di storie scelse la pista a est

verso le luci silenziose dell’oltretomba.

[…]

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Giorgiomaria Cornelio (1997) è poeta, regista, curatore, redattore di «Nazione Indiana». Ha co-diretto la "Trilogia dei viandanti" (2016-2020), presentata in festival e spazi espositivi internazionali. Suoi interventi sono apparsi su «Doppiozero», «Il Tascabile», «Antinomie», «L'indiscreto». Ha vinto il Premio Opera Prima con la raccolta "La Promessa Focaia" (Anterem, 2019). Ha pubblicato "La consegna delle braci” (Luca Sossella Editore) e “La Specie storta" ( Edizioni Tlon ). Cura il progetto “Edizioni volatili”, e la festa della poesia "I fumi della fornace".
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