Luce del nord – tre disperazioni invisibili
di Domenico Talia
«… secondo me nella vita o sei il primo o sei l’ultimo e non puoi essere tutte e due le cose, […] io sono l’ultimo. Ormai l’ho capito. L’ultimo dei disgraziati. E nessuno vuole essere come me. Perché quando sei vecchio e non ci hai più niente, ti trattano tutti come la merda.» Così inizia a raccontare la sua disperazione Frank, anziano e fallito stuntman che non riesce più a lavorare e ogni cosa gli va male. Ma Frank nella disgrazia non è solo, anche se questo non gli è di alcun aiuto. Sulla sua strada trova altri due “ultimi”, Eva e Cristian. Loro sono più giovani ma non per questo meno disperati di lui.
Purtroppo quando sommi tante disperazioni non ottieni una speranza, non totalizzi una tranquillità. Così è per Eva, Frank e Cristian che sono poveri, senza qualche dente e soprattutto senza un futuro possibile. Attorno a queste tre voci è costruita la narrazione che riempie le pagine della Luce del Nord (Rubbettino, 2020) di Gianluigi Bruni in questo suo primo romanzo segnalato al Premio Calvino e proposto da Antonio Pascale all’ultimo Premio Strega. Tre racconti paralleli che per tristi coincidenze, figlie della povertà e della marginalità quotidiana, si incrociano. Frank è violento, senza un soldo e con la moglie in coma in un letto di ospedale. Cristian è un ragazzo cacciato da casa che non riesce a parlare con la gente. Eva si sente brutta e grassa («75 chili di mestizia»), fondamentalmente “incompleta”, nonostante la sua intelligenza e la sua grande generosità. Ognuno di loro tre racconta le giornate tra case da lasciare, notti passate in stazione, palazzi sporchi e androni puzzolenti.
La lingua che usano i tre personaggi è imperfetta come loro. Dei tre soltanto Eva ama leggere e conosce bene l’italiano, ma la sua scrittura si porta dietro la sua infelicità. Sono tre narrazioni che vivono in simbiosi con le case che abitano. Umide, buie, disordinate. Sono tre invisibili che nessuno vuole vedere se non quando bisogna trattarli male, cacciarli via. Nel resto del tempo che passano tra loro si osservano, parlano, litigano, russano. Per gli altri non esistono, soprattutto non esistono i loro problemi, le loro ansie, i loro sentimenti. Quando Cristian rimane chiuso per molti giorni in un sottoscala fetido, soltanto gli altri due sentono i suoi lamenti e lo salvano. È questo l’evento che li mette insieme, ma tre sfortune non hanno la forza di invertire la sorte, nonostante la loro buona volontà. Frank si mette a scrivere una sceneggiatura improbabile, Eva si impegna a scrivere due libri e Cristian prova a tornare a casa dai suoi. Il potenziale produttore per il film muore, i libri stentano a decollare e i genitori di Cristian lo cacciano nuovamente di casa. Anche la scrittura che per Eva e Frank è la possibilità di ritorno tra i normali, la medicina per curare le loro disgrazie, non trova realizzazione, rimane un “non finito”.
Gianluigi Bruni usa una scrittura sincera e priva di artifici per prendersi cura dei suoi tre personaggi spiantati e affettuosamente umani. Legni storti che nessuno vuole accanto a sé perché sono uomini e donne come noi e nell’esserci simili ci fanno vergognare di noi stessi. Esseri imperfetti che hanno le stesse aspirazioni di tutti: un lavoro, una casa, qualche soldo, una famiglia, gli amici. Cose normali che per le loro deboli gambe sono montagne troppo ripide da scalare. Sono tre anime alla ricerca della luce, quella luce che Eva aveva amato nel diario di Fridtjof Nansen (l’esploratore che denunciò lo sterminio degli armeni da parte dei turchi e che compì molte azioni umanitarie): «Ogni giorno e ogni notte le luci del nord con la loro meraviglia in eterno movimento, fiammeggiano al di là dei cieli». Tre anime alla ricerca della bellezza della vita che a loro non è concessa.
La foto di Massimo Siragusa fa parte della mostra dedicata al suo lavoro sulle periferie romane che rimane aperta al Museo di Roma in Trastevere fino al 10/1/2021.