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Una pellicola montata al contrario: su “Prima di noi” di Giorgio Fontana

 

 

di Daniele Ruini

1. Prima di noi, il maestoso romanzo di Giorgio Fontana uscito per Sellerio a gennaio 2020, rappresenta il tentativo riuscito di dare concretezza narrativa ad un’idea di Walter Benjamin: come ha più volte ricordato lo stesso autore –per esempio in questa bella intervista– l’ispirazione gli è infatti giunta dalla seconda delle Tesi di filosofia della storia, dove il filosofo tedesco scrive: «C’è un’intesa segreta fra le generazioni passate e la nostra. Noi siamo stati attesi sulla terra». Ecco allora che la storia della famiglia Sartori, che Fontana accompagna per quattro generazioni –dalla disfatta di Caporetto attraverso tutto il Novecento e oltre–, risulta finalmente ben altro che non un “romanzo storico” (etichetta che, comprensibilmente, sta stretta allo scrittore); al centro delle vite di quasi tutti i personaggi principali del libro c’è infatti un rapporto tutt’altro che risolto col passato della propria famiglia, una sorta di legame, spesso accolto fastidiosamente ma ineludibile, nei confronti di chi è venuto “prima di noi”.

2. A più riprese vediamo i vari protagonisti provare frustrazione per l’impossibilità di sfuggire all’ordine degli eventi e per il fatto che la Storia sembra andare in una direzione già prestabilita. È quanto accade, per esempio, a due dei figli del patriarca Maurizio Sartori: Renzo («Tutto si ripeteva e ancora una volta sarebbe bastato poco per cambiare la storia»: p. 261) e Gabriele, che di fronte al corpo della moglie morta non vuole accettare di vedere perduti per sempre i giorni vissuti insieme: «non accettava che il destino glieli avesse sottratti anche se era nell’ordine delle cose. In mona l’ordine delle cose!» (p. 741). Ma lo stesso sguardo insoddisfatto verso il destino si ritrova nelle generazioni successive, per esempio in Libero (che, dopo aver subito l’ennesimo pestaggio da parte dei bulli della scuola, «desiderava soltanto sabotare il tempo»: p. 464) e così fino agli ultimi rappresentanti della famiglia Sartori, i cugini Dario e Letizia: se il primo, in procinto di lasciare Dublino per rientrare in Italia, avverte «la sensazione di essere entrato finalmente nel regno della maturità», un regno coincidente con quello «vasto e freddo della nostalgia, delle occasioni cui si è detto addio per sempre; il regno delle cose perdute» (p. 849); la seconda interpreta la soffocante e «costante paura del futuro» –che attanaglia lei e la generazione dei nati negli anni ’80– come la manifestazione di quella sofferenza («regolata da un principio di conservazione») a cui sono state improntate le esistenze dei nonni e dei padri (p. 864). Proprio a Letizia, nel suo disorientamento, si deve forse la riflessione più lucida sul rapporto con la storia famigliare, una dipendenza che assume la forma di una condanna:

Per decenni, per quasi un secolo la famiglia Sartori aveva costruito una nave partendo dal poco legno disponibile: di generazione in generazione era uscita dal fango e dall’oscurità alzando alberi, tessendo vele, rinforzando lo scafo e accumulando cordame. E infine ecco lei, l’ultimo elemento del processo, una decorazione lignea apposta sulla prua, perfettamente modellata ma in fondo inutile – e con gli occhi aperti sullo scoglio contro cui si sarebbe infranta. Possibile, si diceva, che il passato avesse una tale forza sul presente? Il potere di ciò che accade prima di noi è tale da forgiare un destino? O era soltanto colpa sua? (pp. 798-99)

Ma sarà proprio grazie a questa consapevolezza che Letizia saprà trasformare la percezione dolorosa del passato in una prospettiva che assume le sembianze della responsabilità: sarà infatti lei che, alla fine del romanzo, riuscirà in un certo modo a chiudere il cerchio, rafforzando in questo modo «un senso di identità familiare messo alla prova dalla storia e dai destini dei singoli» (come ha precisato Mario Bareghi).

3. Contraltare di questa frustrazione per il procedere del tempo sono alcuni tentativi, simbolici o del tutto immaginari, di bloccare l’ordine delle cose e cercare –per usare le parole di Libero– di «sabotare il tempo» e ipotizzare un destino altro. Ecco per esempio il giovane Domenico, il più fragile dei tre figli di Maurizio Sartori, che rimasto per un momento da solo a casa del signor Olbat (il loro dirimpettaio nella Udine degli anni ’30) ripensa all’umiliazione subita qualche giorno prima dal fratello Renzo, preso a sberle dal padre perché rientrato a casa tardi. E dopo il rimpianto per non essersi potuto sostituire al fratello, si volta verso una gabbia di piccioni e, impietosito da un uccello che «sembrava fissarlo», decide di liberarlo e di farlo volare fuori dalla finestra: «“Non tornare”, disse all’uccello», pur sapendo in cuor suo che probabilmente si trattava di un gesto inutile: «A cosa serviva? Sarebbe tornato subito, addestrato com’era» (p. 110).
Oppure Gabriele che, trasferitosi in provincia di Varese alla fine degli anni ’50, viaggia nei fine settimana tra la Lombardia e il Friuli, dov’è rimasta la famiglia. Nel dormiveglia del suo pendolarismo provava talvolta la sensazione che il treno «avesse invertito la direzione» e procedesse non verso Milano ma verso est, e che lui stesse «per smarrirsi nei meandri del vecchio Impero, solcando i monti su cui aveva combattuto suo padre» (p. 328). E a ciò si accompagnava un «inconfessabile desiderio»: Gabriele immaginava infatti «a volte di scendere alla stazione di qualche cittadina di provincia e allontanarsi, sconosciuto a tutti, per non tornare mai più» (p. 333).
E pensieri analoghi attraversano, anni dopo, la mente del figlio di Gabriele, Davide: impegnato come fotografo nella ex-Jugoslavia delle guerre civili, scrive all’amata Sophie del suo senso di inutilità di fronte alla tragedia che scorre sotto i suoi occhi; e le riferisce per lettera alcuni versi del poeta bosniaco Izet Sarajlić, tra cui questo: e se provassimo a fuggire dalla storia? (p. 698).

4. Tra queste ed altre epifanie che si rincorrono nel romanzo, quella più suggestiva è certamente la scena che ha per protagonista il giovane Renzo mentre assiste ad una delle pellicole proiettate al cineforum organizzato dal fratello Gabriele, l’intellettuale di famiglia. Il film («di scarsa qualità, girato con pochi mezzi»: p. 153) è ambientato in un Medioevo favoloso e racconta del dramma di una principessa che, promessa sposa ad un conte, viene uccisa in una congiura organizzata dalla madre. Renzo inizia la visione con atteggiamento dispettoso («E basta con questi filmacci noiosi!» urla dal fondo della sala); ma dopo aver iniziato «a tirare palle di carta in direzione dello schermo» (p. 152), il film attira tutta la sua attenzione. E subito dopo l’assassinio della principessa, ecco cosa accade (la scena è descritta dal punto di vista di Gabriele):

«Eh, no!», strillò Renzo dal fondo della sala. «Protesto!».
«Sta’ zitto», disse Gabriele.
«No, no, protesto. La principessa non può morire così, dopo neanche venti minuti. Che roba è?».
Suo fratello si era alzato e la sagoma si sbracciava contro le immagini del film: ma la sua voce aveva un tono diverso, come se non si trattasse di uno dei suoi soliti scherzi, bensì di una questione fondamentale.
«Ha ragione», disse Eleonora Zancon. «Ma mica si può tornare indietro».
«La storia va avanti in questo modo», disse Luciano.
«E sai quanto me ne frega?», replicò Renzo trafficando con il proiettore. Luciano zoppicò per fermarlo, ma lui smontò semplicemente la pellicola e la fece ripartire all’incontrario.
Sullo schermo la principessa tornò in vita e le ombre dei congiurati sfumarono via da lei, come assorbite dall’oscurità delle scale: sul campo di battaglia il cavaliere smise di assistere il corpo esanime di un compagno, che si rialzò di scatto: la lancia fu estratta dal suo petto e la battaglia riprese a gesti di marionette. Il sole invertì la sua corsa nella volta celeste. […] Il menestrello cantò la sua canzone al rovescio. Un gomitolo di lana si riavvolse e tornò sul tavolo della regina madre. Il sovrano uscì dalla porta da cui era entrato, camminando all’indietro con un’espressione talmente buffa che Gabriele non riuscì a trattenere una risata. Nel bosco di larici i cavalieri indietreggiarono in modo innaturale.
Qualcosa si stava compiendo, ma nessuno sapeva spiegare perché fosse così importante e pervaso d’incanto. Tacquero fino a quando la pellicola non si esaurì, scattando su se stessa e lasciando solo il bianco – la semplice luce del proiettore.
«Ecco», disse Renzo alle loro spalle. «La principessa è salva». (pp. 153-154)

Che questa scena, apparentemente secondaria nell’economia narrativa, abbia invece un ruolo centrale –che sia, per l’appunto, «una questione fondamentale»– lo capiamo dal fatto che è richiamata ben due volte nel corso del romanzo, e sempre da Gabriele. La prima volta più di venti anni dopo (siamo all’inizio degli anni ’60), in una lettera scritta a Renzo dopo averlo incontrato per caso a Milano durante uno sciopero operaio: Gabriele confessa dapprima al fratello il suo rimpianto per il Friuli (il cui abbandono è definito come «un errore tremendo, di quelli che pagherò con l’infelicità»); e poi, rievocando l’antico gesto di Renzo che aveva voluto salvare la principessa del film, ammette che per loro non sarà invece possibile rimandare la storia all’indietro, e che saranno entrambi costretti a convivere con i loro errori (p. 387). La seconda volta vediamo invece un Gabriele ottantenne (siamo nel 2007), appena rincasato da una gita in montagna in compagnia della nipote Letizia (che ha voluto esaudire una specie di ultimo desiderio del nonno), parlare in questi termini alla ragazza: «Come devo dirtelo? La sola cosa che vorrei è riavere tutto da capo. Così com’era». E, citando per l’ultima volta l’episodio della pellicola mandata all’incontrario dal fratello, così si esprime: «Ecco. Vorrei mandare indietro il tempo e riavere mia mamma e tutto il resto» (p. 827).

5. Intorno ai suoi personaggi Fontana costruisce così una rete di risonanze emotivo-filosofiche che danno alla narrazione una profondità da romanzo “classico”. Come si è visto, al centro c’è la riflessione intorno al tempo e alla storia, in un’oscillazione continua tra passato, presente e futuro, tra quello che si è stati, quello che si è e quello che si sarebbe potuti essere. E un altro contributo in questo senso è dato dal personaggio della figlia di Renzo (e sorella di Libero), la musicista Diana, la quale intitola il suo ultimo disco Il dono della chiaroveggenza e sceglie per copertina la foto di uno scorcio deserto di un paesaggio di campagna; discutendone col suo produttore, secondo cui quell’immagine non sarebbe per niente appropriata, giustifica la scelta dicendo che «anche se potessimo vedere il futuro, resterebbe comunque il problema di cosa fare», ovvero di disporre di un «punto di riferimento» che invece costantemente manca (p. 605). Ecco dunque che il romanzo di Fontana si può leggere anche come un tentativo di rispondere a questa inquietudine, quella per la quale –è sempre Diana che parla– «abbiamo tutti molta paura perché non sappiamo come andranno le cose» (p. 593). In mancanza di un punto di riferimento, cercare umilmente «di riappropriarsi del tempo perduto e accumulato alle nostre spalle, delle vicende di chi ha vissuto e sofferto “prima di noi”» (come dice l’autore) può forse avere un effetto pacificante verso la frustrazione che accomuna gli esseri umani alla perpetua ricerca di un senso; oltre a rappresentare un’opportunità eticamente feconda per recuperare un minimo di apertura e –chissà– magari persino di solidarietà verso gli altri.

 

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ornella tajani
ornella tajani
Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di studi di traduzione e di letteratura francese del XX secolo. È autrice dei libri Tradurre il pastiche (Mucchi, 2018) e Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS, 2021). Ha tradotto, fra vari autori, le Opere di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato i volumi: Il battello ebbro (Mucchi, 2019); L'aquila a due teste di Jean Cocteau (Marchese 2011 - premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012); Tiresia di Marcel Jouhandeau (Marchese 2013). Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
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