La natura urbana

di Gianni Biondillo

Perdonate se faccio una lunga digressione storica. La cultura europea occidentale è una cultura solidamente urbana, vede nella città una promessa e un destino. Spesso ha avuto periodi di antiurbanesimo ma le forme che ha elaborato sul territorio sono la testimonianza fisica dell’idea di identità che oggi chiamiamo europea. La storia spesso si muove come una sinusoide. Dopo il crollo dell’impero romano, si impose un antiurbanesimo cristiano che frantumò i territori, distrusse la rete viaria, dimenticò le città, spesso sovra dimensionate, per una vita agricola. Eppure non bastarono 500 anni di cultura antiurbana: le città risorsero attorno all’anno mille. I Comuni del medioevo, cercando autonomia dall’imperatore, e dinamismo economico, crearono una maglia di realtà urbane. La città diventa così l’habitat naturale dell’uomo. La città rende liberi mentre la natura spaventa, deve essere addomesticata, col lavoro dei campi, oppure tenuta fuori dallo sguardo. È il luogo del selvaggio, delle leggende, il bosco delle fiabe, che non deve essere attraversato se non si vuole essere mangiati dal lupo. La nostra è una estetica urbana che da sempre cerca di esorcizzare il paesaggio selvatico, il paesaggio della paura.

È nel Settecento che nasce il mito del ritorno alla natura come madre generosa e buona. Perché proprio in questo periodo cambia la nostra idea di paesaggio naturale? Perché stavano cambiando le città, in modo repentino e massivo; è il passaggio epocale prodotto dall’illuminismo e dalla rivoluzione industriale. Nasce la città moderna. Una nuova urbanità, mai vista prima. Il XX secolo è stato il secolo della civiltà delle automobili, e le infrastrutture viabilistiche ne sono l’unica vera eredità. Infrastrutture che omologano il linguaggio delle forme creando città sempre più simili. La città è vista come meccanismo non come organismo, dove occorre regolare i flussi di traffico. La città del Novecento conosce via via sempre più la dispersione e lo sprawl. La città ormai non ha più un disegno unitario riconoscibile. Oggi questo paesaggio antropizzato – che per millenni ha saputo trovare un equilibrio fra le esigenze di chi lo abitava e il rispetto per il ciclo delle stagioni – ha subito nell’ultimo secolo troppi shock, troppi strappi sulla tela.

Siamo di fronte a un bivio che non permette più ripensamenti. Non sarà la pandemia a farci tornare indietro. Fra dieci anni due terzi della popolazione mondiale vivrà in un contesto metropolitano che, già oggi senza tregua continua a rubare terreno, impoverire il suolo, abbattere il patrimonio arboreo, aumentare a dismisura la produzione di CO2. Il cambiamento climatico già in atto da decenni ne è la prova inconfutabile. Ecco il bivio: le città da problema devono diventare una soluzione. Quindi energia sostenibile, riciclo, cubatura zero, mobilità condivisa, e su tutto, forestazione urbana.

Trovare, insomma un nuovo rapporto fra artificiale e naturale fin nel cuore delle nostre metropoli. Una nuova narrazione che veda nella Natura né una madre generosa né una nemica spaventosa. Gli esempi non mancano. Il più famoso, addirittura paradigmatico non solo in Italia, è stato l’esperienza del Bosco Verticale. Boeri, Barreca e La Varra (i tre progettisti) in fondo non hanno fatto altro che, con raffinato gusto filologico, riproporre architetture per nulla nuove a Milano (penso a un capolavoro come quello di via Quadronno degli architetti Mangiarotti e Morassutti). Ma se l’esperienza si fosse fermata lì avremmo solo due edifici a disposizione di ricchi abitanti meneghini. Il Bosco Verticale, nei fatti, è invece un manifesto. Ha una forza simbolica che supera quella estetica. Le città possono convivere con la natura. Anzi: la natura deve diventare, per la pura e semplice sopravvivenza della specie, elemento centrale di ogni progettazione urbana.

Si apre così un nuovo modo di concepire l’urbanistica: restituire permeabilità al suolo (ci sono esperimenti già in atto di de-asfaltizzazione delle strade parigine), progettare la mobilità dolce attraverso corridoi verdi che collegano parchi e giardini esistenti. Idearne di nuovi: parchi che non hanno solo la funzione di luoghi di svago, ma, come propugno da anni, che siano spazi di produzione alimentare a chilometro zero (parchi edibili). Abbattere le isole di calore urbane rendendo i tetti coltivabili e trasformando le barriere infrastrutturali in facciate verdi. E su tutto impiantare milioni di alberi. Milioni, sì. Non più parchi ma foreste. Che dovranno essere gestite così come si gestivano nel medioevo (quindi anche capaci di essere produttive in termini di materie prime), ma anche luoghi dove la biodiversità possa esprimersi, mitigando la dannosa presenza umana e qualificando la resilienza dell’ecosistema.

Un programma di ridefinizione del paesaggio che deve coinvolgere l’umanità ad ogni scala della catena decisionale. Il cambiamento climatico porta con sé carestie, povertà, migrazioni bibliche. Non basta riforestare le ricche metropoli occidentali, occorre interrompere la desertificazione inesorabile che sta colpendo come un maglio i paesi più poveri della terra. E dobbiamo farlo noi. E subito. Molto egoisticamente perché ci conviene, pena la nostra stessa estinzione.

(precedentemente pubblicato su L’Ordine del 22 novembre 2020. Le pessime fotografie sono del sottoscritto)

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2 Commenti

  1. La tua è una prospettiva urbanocentrica, del resto avvalorata da tutte le statistiche pre-pandemia. Forse però, proprio nella pandemia, possono esser venuti avanti processi d’altro tipo. Il decisivo salto in un mondo totalmente informatizzato (cioè smaterializzato) potrebbe cominciare ad attenuare quell’urbanocentrismo che ha dominato la società industriale (c’è anche un urbanesimo precedente, umanistico come giustamente ricordi tu, ma ormai è ridotto ad un fenomeno turistico). Naturalmente oltre e non in contrapposizione al “nuovo rapporto fra artificiale e naturale” di cui parli tu per le aree urbane. L’inizio di una diffusione massiccia di fenomeni come lo smartworking, la didattica a distanza, l’e-commerce, possono voler dire una attenuazione della netta separazione fra città sede della modernità e dello sviluppo e campagna agricolo-residuale, una cosa che vada oltre allo sprawl, più di sostanza. Questo naturalmente per il nord ricco del mondo. Per il sud non c’è da dir altro da quello che dici tu: dobbiamo farlo noi, ed in fretta. “Farlo” vuol dire attenuare – qui – l’elitismo, il dominio incontrastato dell’1%. Vuol dire riscoprire, a livello mondiale, la Politica come principio diverso dalla pura e semplice volontà dell’1%. Cascherebbero le braccia, se non avessimo visto l’Europa passare, sotto i colpi della pandemia, dal RRRigore al Recovery fund. Il principio ispiratore della Storia non è l’Ideale (ideologico) ma la Necessità. Speriamo bene …

    • Sì, Roberto, hai ragione. D’altronde non credo che la pandemia cambierà l’inurbamento globale in atto. Dimenticheremo in fretta tutto questo. E ci ricascheremo alla prossima emergenza.

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gianni biondillo
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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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