Bisanzio-Costantinopoli-Istanbul

di Romano A. Fiocchi

Ahmet Ümit, Perché Istanbul ricordi, 2020, Ronzani Editore. Traduzione di Anna Valerio.

Prendete una città vecchia di duemilaseicento anni, ambientatevi un poliziesco di 612 pagine, mettete in prima di copertina un toro, vittima sacrificale dei coloni greci di Megara nonché disegno impeccabile di Roberto Abbiati, e vi trovate davanti Perché Istanbul ricordi. Un poliziesco insolito. Primo, perché la voce narrante del commissario turco Nevzat Akman ha tutta l’aria di avere forti connotazioni autobiografiche. Secondo, perché tutto il romanzo è intriso di un amore incondizionato verso la città bimillenaria in cui si muovono i protagonisti, la città dal triplice nome: Bisanzio, Costantinopoli, Istanbul. Il commissario Nevzat la ama proprio in quanto stratificazione di epopee storiche, avvicendarsi di popoli da cui sente di discendere: greci, romani, bizantini, ottomani, turchi. Una città che sopravvive a se stessa nutrendosi di ricordi che vanno dall’epoca mitologica del re Byzas al padre della patria moderna, Atatürk. Ed è proprio sul filo della Storia che viene ricamato l’intreccio del romanzo, con sette delitti legati a coloro che hanno fatto grande la città: il re Byzas, gli imperatori Costantino, Teodosio II, Giustiniano, il sultano Fatih Mehmet, l’architetto Sinan, il sultano Solimano il Magnifico. Quindi i sette monumenti che la simboleggiano: il Tempio di Poseidone (oggi scomparso), la colonna di Costantino, la Porta Aurea, Santa Sofia, Palazzo Topkapi, la Moschea di Fatih, la Moschea di Solimano. Ma poi, per svariati motivi, se ne aggiungono molti altri: la Cisterna Basilica, la Colonna di Marciano, l’obelisco di Teodosio, il Palazzo del Porfirogenito, le Moschee di Sultanahmet, di Beyazit, di Yavuz Selim, la tomba di Selim II, il Palazzo Dolmabahçe, le Segrete di Yedikule, e così via.

La particolarità del testo è proprio questa: il lettore attraversa tutta Istanbul, compresa la vivacità dei suoi quartieri, il traffico caotico, le brutture edilizie, le specialità della cucina, i tè, i caffè turchi, i fiumi di Raki che scorrono in occasione di ogni cena. Sì, perché Istanbul è la meno turca delle città turche, la più occidentale e la più tollerante, dove gli integralisti islamici vivono accanto ai non praticanti, dove ci sono donne che portano il velo e donne che fanno le criminologhe (come Zeynep, l’aiutante del commissario Nevzat) o le direttrici del Museo Topkapi (come il personaggio-chiave di Leyla Barkın). Ed è tramite la figura colta di Leyla che Ahmet Ümit, con coerenza narrativa, riesce ad inserire in un poliziesco l’esaltazione dell’importanza della Storia:

Se non ci fosse stata Santa Sofia non ci sarebbe nemmeno la Moschea Sultanahmet. Se non ci fosse stato il Cristianesimo, non ci sarebbe stato l’Islam, se non ci fosse stato l’Ebraismo non ci sarebbe stato il Cristianesimo. Possiamo metterla così: senza i Sumeri non ci sarebbero stati gli Ittiti, senza gli Ittiti, l’antica Grecia, senza l’antica Grecia non ci sarebbe stato l’Impero romano, e senza l’Impero romano quello ottomano. Queste sono le diverse fasi che hanno portato alla grande civiltà. Se ne togliamo una, si apre un vuoto senza senso, la Storia rimarrebbe incompleta”.

Ma la Storia ha anche un’altra urgenza: non va dimenticata. Ecco che allora Leyla, insieme al compagno Namık Karaman, che è poi uno dei sospettati, si inventa addirittura un Istituto per la salvaguardia di Istanbul ovvero l’ISI – per noi inquietante accostamento fonetico all’ISIS – che si batte, ai limiti della legalità, per una difesa dei reperti storici della città e contro l’edilizia selvaggia. Perché chi guarda Istanbul da fuori, come fa il poeta Yekta, non può non vedere lo scempio: “Guardavamo Istanbul dal mare: Nevzat, Demir e io. La poesia creata dalla natura, le mostruosità create dall’uomo, guardavamo i grattacieli, pugnali di cemento che senza vergogna colpivano il cuore della città; guardavamo i ponti, passatoie attraverso il mare che incatenano la città; guardavamo gli spazi vuoti, che diminuivano ogni ora, ogni minuto, ogni istante”.

Mentre il commissario Nevzat cerca una nesso tra gli omicidi, i luoghi di ritrovamento dei corpi e le monete antiche rinvenute in mano alle vittime, il filo sentimentale della sua vita si dipana tra vicende di amicizia, evocazioni della moglie e della figlia scomparse in un attentato, e una nuova compagna che non riesce ad accettare. Aspetti apparentemente frivoli e secondari nell’economia del romanzo ma che si riveleranno invece perfettamente incastrati nella struttura della trama, come un buon poliziesco che si rispetti.

Nato nel 1960 e tradotto per la prima volta in Italia con il libro Capodanno a Istanbul (Scritturapura, 2018), lo scrittore turco Ahmet Ümit è consigliere culturale della Fondazione Goethe di Istanbul, dove vive e lavora. Membro attivo del Partito Comunista Turco dal 1974 al 1989, ha preso parte al movimento clandestino per la democrazia durante la dittatura militare degli anni Ottanta. Di qui le tematiche politiche e storiche dei suoi libri, le accuse – per quanto romanzate – ai sistemi di corruzione e agli abusi edilizi perpetrati ai danni del patrimonio storico e naturalistico turco, tematiche con cui Perché Istanbul ricordi è in evidente sintonia.

Una nota di cronaca: nel romanzo, uscito in Turchia nel 2010, e pubblicato per la prima volta in Italia dalla Ronzani Editore, Santa Sofia era ancora un museo, dopo essere stata prima Chiesa e poi Moschea. Dal luglio scorso, con un arbitrario decreto del presidente Erdoğan, è tornata ad essere luogo sacro del culto islamico.

 

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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