Uno tra i due

Doppia lettura degli ultimi romanzi di Piperno e Castellitto

 di Valerio Paolo Mosco

Due libri italiani che vanno letti insieme. Il primo è l’ultimo di Piperno, Di chi è la colpa. Un racconto scontato, scritto benissimo. Scontato è il soggetto: il solito romanzo di formazione ebraico così come ce lo ha magistralmente già propinato Philip Roth e lo ha messo più volte sullo schermo fino alla noia Woody Allen. Scontata anche la sottile causticità con cui l’autore descrive i personaggi che si muovono come in preda al loro stesso ruolo. I cliché sono bilanciati da una scrittura affidata ad un italiano compatto e scorrevole, cosparso di aggettivi smerigliati. Si sa, Piperno sa scrivere, ma saper scrivere non basta. Inoltre il suo saper scrivere è dedicato unicamente a persone misere, che vivono di sottili e costanti disturbi derivanti da cose o persone ancor più misere di loro e in tutto ciò, come il narratore, si crogiolano. Dietro la miseria il nulla: ex nihilo nihil fit e infatti questo è il risultato. D’altronde pagine e pagine di niente le ha potute scrivere solo Proust e le ha potute scrivere perché riusciva a mettere anche nelle pagine più sordide quella grazia che prelude alla compassione.

Di tutt’altra pasta l’ultimo libro dell’esordiente Pietro Castellitto. Un romanzo funambolico, pimpante e in alcuni momenti urticante. Castellitto ci racconta la storia di un gruppo di amici ricchi, annoiati, privi di valori se non la ricerca di un edonismo sempre e comunque sopra le righe. Una lost generation di questi giorni, anche se il tenore di vita a cui il gruppo di amici è abituato di certo non è facile da trovare. Sembrerebbe che anche in questo caso abbiamo a che fare con lo scontato, con il cliché. Invece no. Il dispositivo che Castellitto mette in atto per raccontare i suoi edonisti radicali è filosofico. Già dal titolo del libro lo capiamo: Gli iperborei. Nietzsche, con quelle sue poetiche immagini di pensiero, ci dice che coloro i quali sapranno porsi al di là del bene e del male entreranno in una nuova dimensione capace di sconvolgere la logica che passerà dalle deduzioni ad uno stato di continua inferenza con la realtà. Un vivere alla giornata denso, privo di qualunque pensiero che trascende, privo di fede e di metafisica, è questo l’eden degli Iperborei. Una dimensione, per Nietzsche, liberatoria, eroica e sublime. E iperborei sono l’io narrante del libro ed i suoi amici, ma iperborei ben diversi da quelli auspicati da Nietzsche. Gli amici straricchi e iperrealisti di Castellitto non sono affatto dei liberati, anzi vivono in una condizione talmente disperata da trascendere la disperazione stessa. Sono essi tristi? Non sembrerebbe. Sono nostalgici di un mondo deduttivo di valori? Per nulla. Sono solo innamorati del loro stile di vita, della vita così come gli si presenta. Degli indifferenti alla Moravia aggiornati all’epoca degli eventi, degli i-phone, del buon cibo e del buon vino e della musica già preselezionata dai programmi digitali. Degli indifferenti che vivono di passioni, non di sentimenti. Castellitto nel suo racconto confuta le tesi di Nietzsche e lo fa con maestria. La sua è un’operetta morale raccontata attraverso un romanzo picaresco, scritto con baldanza futurista e con una tecnica che rivediamo in molti scrittori contemporanei: quella del libro sceneggiatura. Una sceneggiatura però cha varia a seconda delle situazioni, che passa con disinibizione dal fracasso all’inquietante introspezione dell’io narrante, un certo Poldo, un personaggio che ci diventa familiare anche se probabilmente non abbiamo nulla a che spartire con lui.

Confrontando il romanzo di Castellitto a quello di Piperno scegliamo decisi quello di Castellitto. A Piperno l’onore delle armi di una magnifica scrittura che rimane comunque fine a sé stessa. Ci si chiede allora come si possa uscire dalla palude anni ’90 di una scrittura fine a sé stessa che abbiamo per non poche pagine sopportato in Piperno? Castellitto, come anche Houellebecq e Carrere e come in Italia Sandro Bonvissuto, sembrano averlo compreso: un romanzo, o un qualunque racconto, deve porsi quasi a priori, un quesito morale o filosofico. Per emendarsi oggi dalla inutilità o peggio dalla dimenticabilità deve avere il coraggio di investire l’immutabile dell’uomo, ovvero quel suo non risolto che ci accomuna a qualunque generazione passata o che verrà. In altre parole deve essere la testimonianza, diretta o indiretta, di una riflessione alta, collettiva, capace di porsi di fronte ai grandi quesiti spirituali di un’epoca i cui effetti sono sotto i nostri occhi quotidianamente, ma di cui ci sfuggono proprio quelle cause di cui si occupano religione e filosofia. Ci si chiede allora se questa riscoperta dell’immutabile e dell’inevitabile non sia il primo passo verso la chiusura della ormai lunga stagione postmoderna in cui per troppo tempo gli accidenti sono prevalsi sulle sostanze.

 

 

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1 commento

  1. Senza polemica, ci vuole coraggio a dire pubblicamente di preferire quella roba senza voce né lingua a un romanzo in fin dei conti solido come quello di Piperno.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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