Le Croci

Le Croci, Kresty Centro di isolamento giudiziario n. 1 della città di San Pietroburgo

di Luca Vidotto

[ Ancora una volta ho mescolato realtà e finzione: ho scavato e ruminato il terreno della storia, per poi ricrearla nella mia immaginazione. Complicando le cose, però. Ai fatti storici e alla finzione narrativa, infatti, ho aggiunto le inesauribili lenti della narrazione biblica e del mito antico. Entrambe mi sono servite per cavar fuori dal sottosuolo della vicenda che coinvolge Anna Achmatova tra il 1935 e il 1940 – quando il terrore staliniano raggiungeva il suo culmine e lei scriveva il poema Requiem, vera spina dorsale del racconto – delle immagini nuove, capaci di ridonare forza a una storia dai più dimenticata. ]

Anche quest’autunno unumidità placida e spessa serra San Pietroburgo sotto a una cupola soffocante. Concentrica alla cupola grigia del cielo si erge quella mostruosa del carcere, che noi chiamiamo, semplicemente, le Croci. Sì, al plurale, perché in essa si affastellano le piccole croci che ognuno dei nostri mariti, dei nostri figli e dei nostri uomini sono costretti a portare.

Il carcere è immenso e tutto ricoperto di mattoni rossi slavati dal tempo, che, placido, continua il suo corso come la Neva, il nostro fiume, pesante e largo, incapace di riflettere sulle sue acque alcunché. È un’armonia perversa il gioco di simmetrie e di calcoli che hanno dato vita a questo luogo. Di metallo è la sua anima. Precise architetture disegnate da pilastri e reticolati di travi di ghisa e scale che scendono e salgono, si biforcano, si allungano, si aprono su vuoti e sbattono su muri d’acciaio, compongono un dedalo di linee rette che si moltiplicano in ogni direzione, fino a creare un labirintico deserto di forme 1.

Le sue linee agghiaccianti disegnano il profilo di una tigre di divampante fulgore 2, che digrigna i denti affilati verso la città – sempre affamata. Questa enorme ragnatela, tessuta dalla bava della tarantola del potere, tiene intrappolati non uomini, ma insetti miserabili, senz’anima e senza speranza, sradicati come sono dalle carezze e dal tiepido abbraccio della donna amata, dagli sguardi e dai volti dei propri cari, e dalle piccole insensatezze della quotidianità. Racchiude fra i suoi muri una babele di voci senza voce. Un’umanità mostruosa. Tutto è impastato di lugubre silenzio, lì dentro. Tutto. Solo lo stridore dei chiavistelli, il rumore dei passi e i tonfi sordi dei portoni incrinano la sua quiete sepolcrale 3. Novecentonovantanove le celle 4. Il numero perfetto, il tre, moltiplicato tre volte, e ripetuto tre volte. Novecentonovantanove. La quintessenza della perfezione geometrica. Già! E non è il carcere un’impeccabile simmetria di ghiaccio e di morte 5? Ma tra le pieghe di quest’ordine geometrico si annida il cuore del caos 6: l’asimmetria dei corpi offesi; la deformità delle anime in decomposizione; la cacofonia delle angosce inascoltate; e le troppe, troppe rabbie mal digerite… Quando ti ritrovi legato al soffitto per i piedi, e la frusta inizia a battere il suo ritmo cadenzato sul tuo corpo, quando lo strazio ti toglie il fiato, e le gocce di rosso rubino imperlano la schiena e il ventre, in quell’istante comprendi la natura di quel numero perfetto. A testa in giù, capovolto, è il numero della Bestia. Non deve essere un caso che la planimetria del carcere sia una grossa croce ribaltata a terra, calpestata dal pesante grigiore di quest’umido cielo d’autunno.
Un ventre enorme gravido di future vedove solitarie e di madri afflitte è il piazzale che avvolge, come una cisti, il carcere. Ogni giorno questo feto malato si spinge fino alla soglia delle Croci, ritualmente, come a una messa 7. Ogni mattina attraversa la navata gelida del cielo, la cui volta è affrescata dal rosso doloroso e sanguigno di un’aurora che lo strazia per poi lasciarlo soffocare nel grigiore spesso dell’umidità, che sale fumante dalla Neva, ignara di tutto. Cosa conta chi sono, io? Cosa conta la mia fama? Cosa conta chiamarsi Anna Achmatova, qui 8? Ovunque siamo sempre le stesse 9. Un unico corpo sofferente: il volto infossato si stringe attorno al nostro lutto; le labbra docili vedono il sorriso appassire, divorato da un ghigno arido tremante di terrore; le nostre membra si sfibrano disperate alla sola idea di rientrare a casa con il nostro misero pacco di cartone in mano, piangendo perché più nessun corpo potremo piangere ancora 10.

Anna Achmatova con il figlio Lev Nikolaevič Gumilëv

Cosa succede al di là del nostro coro muto, impossibile conoscerlo: il silenzio delle Croci è serrato in un’abside invisibile. Perduto tra gli altri dannati, ci sei anche tu, Lev 11, figlio mio e mio incubo. Non le hai potute sentire le mie grida. O forse non hai voluto. Ti ho chiamato. Ti ho pianto. Ti ho desiderato. Ho rotto le dure simmetrie del mio volto spigoloso nella smorfia dei singhiozzi. Ho ammorbato la mia levità aristocratica gettando i piedi nudi nel fango e nel ghiaccio, vestita di stracci. Ho venduto la mia anima inginocchiandomi ai piedi del boia, per implorarlo. Sono arrivata a idolatrarlo, con la mia spada sporca d’inchiostro, l’odioso potere 12.
A cosa è servito? Mi è tornato tra le braccia un mostro. Non si fissa l’abisso impunemente – avrei dovuto capirlo subito. Avrei dovuto avere la forza di uccidere la memoria, e lasciare che la mia anima si pietrificasse, e di nuovo imparare a vivere 13. Avrei dovuto lasciarti al tuo destino, mio dolce carnefice. Così, almeno, non mi sarei resa conto che il giorno radioso della tua scarcerazione non avrebbe scalfito la solitudine della mia casa vuota. E che la tua felicità avrebbe moltiplicato il mio dolore 14. Mia la colpa. Ti ho tradito, mi hai detto. Ti ho incarcerato, con le mie poesie. Ti ho messo in croce, col mio canto. Non sono che il dolce frutto del tuo seno avvelenato, mi hai ripetuto. Ma il mio silenzio è rimasto inascoltato. Sei rimasto cieco di fronte alla mia vergogna. E al mio dolore 15.
Ti ho visto cadere dentro all’inferno della perfetta simmetria di quelle precise architetture, stritolato da pilastri e reticolati di travi di ghisa e d’acciaio, nel labirinto osceno delle Croci. E tu mi hai gettato il tuo inferno in faccia. La prima volta che mi è stato concesso rivedere il tuo volto, ho tremato. Ho tremato mentre ti stringevo la mano, sperando di poterti guidare nella risalita da quell’abisso. Ho tremato per la paura che non ci fossi tu stretto a quella mia mano. E quando ti ho guardato, tu non c’eri.
Ho lasciato la presa e ti ho lasciato cadere. Sappi, Lev, che non fu una disattenzione: incarnavi una morta stagione della vita, lo sbocciare di una primavera che non sarebbe mai più potuta tornare 16. Il mio bimbo giocoso e gaio era perduto per sempre. Al suo posto un’ombra impastata d’inferno. La mia colpa è l’averti visto così: sfigurato, con gli occhi iniettati di odio, e la lingua colma di bave avvelenate. La mia condanna fu di impietrirmi in una statua più dura del sale 17, in questo piazzale gravido di dolore di fronte alle Croci, perseguitata dal ricordo, dal rombo dei neri chiavistelli, dall’odioso sbattere degli enormi portoni, dall’ululare feroce delle vecchie che su queste pietre consumano le loro vite, dal lamento affilato del vento.
Sotto alla cupola grigia del cielo, nel cuore di una notte che non conosce aurora 18 so che a ogni inverno seguirà un’altro inverno. E mentre il gelo lascia che sulle mie guance la neve si confonda con le mie lacrime 19

bevo a una casa distrutta,
alla mia vita sciagurata,
a solitudini vissute in due
e bevo anche a te:
all’inganno di labbra che tradirono,
al morto gelo dei tuoi occhi,
ad un mondo crudele e rozzo,
ad un Dio che non ci ha salvato
20.

Anna Achmatova ritratta da Nathan Altman [1914]

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NOTE
  1. Riferimento alla San Pietroburgo raccontata da Andrej Belyj, nella quale costantemente le descrizioni della città, guidate dalla rigidità matematica del raziocinio, si contrappongono alle chimeriche forme striscianti che la abitano, il cui cuore è animato dal caos. Angelo Maria Ripellino nell’introduzione al libro scrive: “Due princìpi diversi si scontrano nell’ordito di Pietroburgo: la massa formicolante dell’informe striscia minaccevole contro gli schemi meccanici della ragione. […] Da un lato il caos, la farragine amorfa di fiamme d’inferno, di melma, di nebuli, di incandescenti spirali, baratro in cui si affastellano assurde visioni […]. Dall’altro il gelido e circoscritto microcosmo del raziocinio, che soppesa, connette e commisura i fenomeni. La metodologia e la dialettica sono per Belyj l’unica salvezza dal magma dilagante del caos”. (A.M. Ripellino, «Pietroburgo»: un poema d’ombre in A. Belyj, Pietroburgo, trad. it. di A.M. Ripellino, Adelphi, Milano, 2014, p. 31.) Io, in questo racconto, capovolgo la concezione razionalista di Belyj, o perlomeno, nel fondo del mio scritto, la problematizzo, cercando di mostrare il lato agghiacciante e mortifero del raziocinio – simboleggiato dalla Simmetria.
  2. Riferimento ai versi di William Blake: “Tyger! Tyger! burning bright | In the forest of the night, | What immortal hand or eye | Could frame thy fearful symmetry?” [“Tigre! Tigre! che ardi e splendi | nelle selve della notte, | che immortale ti forgiò | la tremenda simmetria?”], contenuti in W. Blake, La tigre in Canti dell’Innocenza e dell’Esperienza, trad. it. di R. Rossi Testa, Feltrinelli, Milano, 2001, pp. 104-107. Come afferma Guido Ceronetti: “Immagine d’illuminato è subito, nella prima stanza, quella della «simmetria che agghiaccia» (thy fearful symmetry) nel cui interno risuonano le «manette forgiate dalla mente» del verso chiave di London […]. L’occhio gnostico vede tutta quanta la mente dell’Occidente ammanettata dal carceriere Simmetria”. [G. Ceronetti, Gnosi della tigre: Blake e la Rivoluzione in La lanterna del filosofo, Adelphi, Milano, 2011, p. 169.]
  3. “Per qualcuno alita fresco il vento, | per qualcuno si strugge il tramonto, | noi non sappiamo, siamo ovunque le stesse, | sentiamo solo stridori odiosi di chiavi | e pesanti passi di soldato.” [A. Achmatova, Requiem in La corsa del tempo. Liriche e poemi, trad. it. di M. Colucci, Einaudi, Torino, 1992, p. 141.]
  4. Iosif Brodskij, raccontando di quando lavorava nell’obitorio dell’ospedale adiacente al carcere, ci dice che “«le Croci» ha 999 celle” [I. Brodskij, Fuga da Bisanzio, trad. it. di G. Forti, Adelphi, Milano, 2016, p. 28].
  5. Cfr. nota 2
  6. Cfr. nota 1.
  7. “Ci si levava come a una messa mattutina, | si andava per un’inselvatichita capitale, | lì ci si incontrava più inanimate dei morti.” [A. Achmatova, Requiem in La corsa del tempo. Liriche e poemi, cit., p. 141.]
  8. “Sin dal suo primo apparire, La poesia della Achmatova fu popolarissima. Non c’era quasi salotto della buona borghesia russa dove i suoi volumetti non facessero bella mostra di sé. Uno dei più diffusi passatempi cultural-mondani dell’epoca era recitare qualche verso di quelle liriche e verificare se l’interlocutore, a propria volta, era in grado di proseguire.” [M. Colucci, Introduzione in A. Achmatova, La corsa del tempo. Liriche e poemi, cit., p. VI.]
  9. Cfr. nota 3.
  10. “Ho appreso come si infossano i volti, | come dalle palpebre si affaccia la paura, | come traccia il dolore sulle gote | rigide, cuneiformi pagine, | come d’un tratto, da cinerei o neri, | i riccioli diventano d’argento, | su labbra docili appassisce il sorriso | e in un arido ghigno trema lo spavento.” [A. Achmatova, Requiem in La corsa del tempo. Liriche e poemi, cit., p. 165.]
  11. “Dopo un primo, breve arresto nel 1935, nel marzo del 1938 Lev fu imprigionato per la seconda volta e successivamente condannato a morte, pena poi commutata nella deportazione. Per diciassette mesi, in attesa della sentenza, l’Achmatova si recò quasi tutte le mattine al carcere delle Croci (Kresty) dove i parenti dei detenuti – donne, a schiacciante maggioranza – attendevano in file interminabili di poter consegnare un pacco per il recluso o, semplicemente, di avere sue notizie. Quando il pacco veniva respinto, voleva dire che il detenuto era stato giustiziato o, comunque, era morto.” [M. Colucci, Introduzione in A. Achmatova, La corsa del tempo. Liriche e poemi, cit., p. XXXII.]
  12. “Diciassette mesi che grido, | ti chiamo a casa. | Mi gettavo ai piedi del boia, | figlio mio e mio incubo. | Si è confuso tutto per sempre, e non riesco a comprendere | chi è una belva, chi è un uomo, | e se attenderò a lungo il supplizio.” [A. Achmatova, Requiem in La corsa del tempo. Liriche e poemi, cit., p. 153.]
  13. “Oggi ho da fare molte cose: | occorre sino in fondo uccidere la memoria, | occorre che l’anima impietrisca, | occorre di nuovo imparare a vivere.” [Ivi, p. 157.]
  14. “Da tempo lo presentivo: | un giorno radioso e la casa deserta.” [Ibidem.]
  15. A proposito della rottura dei rapporti fra madre e figlio in seguito alla scarcerazione, Anna “Achmatova disse […] a Lidija Čukovskaja: «Lo voglio perdonare, Ljova è un uomo malato. Laggiù gli hanno guastato l’anima, gli hanno inculcato: tua madre è così famosa, basta una sua parola e te ne torni subito a casa.» Ljova, come lo chiamava la madre, ignorava tutti i tentativi che lei aveva intrapreso per farlo liberare, tutte le lettere, le dichiarazioni, le petizioni che aveva scritto e tutte le suppliche a personaggi influenti. Era davvero convinto di essere rimasto così a lungo  nel campo a causa della sua indifferenza e disinteresse. Che Anna Achmatova si fosse addirittura abbassata a pubblicare versi in onore di Stalin per rabbonire le autorità non voleva neanche prenderlo in considerazione: il suo destino era stato esclusivamente colpa della madre.” [J. Brokken, Bagliori a San Pietroburgo, trad. it. di C. Cozzi e C. Di Palermo, Iperborea, Milano, 2017, p. 149.]
  16. Riferimento all’interpretazione del mito di Orfeo (nel testo, la voce narrante, ovvero Anna Achmatova) ed Euridice (nel testo, Lev) di Cesare Pavese: “Pensavo alla vita con lei, com’era prima; che un’altra volta sarebbe finita. Ciò ch’è stato sarà. Pensavo a quel gelo, a quel vuoto che avevo traversato e che lei si portava nelle ossa, nel midollo, nel sangue. Valeva la pena di rivivere ancora? Ci pensai e intravvidi il barlume del giorno. Allora dissi «Sia finita» e mi voltai. Euridice scomparve come si spegne una candela. […] Non si ama chi è morto. […] L’Euridice che ho pianto era una stagione della vita”. [C. Pavese, L’inconsolabile in Dialoghi con Leucò, Einaudi, Torino, 2014, p. 77.]
  17. Riferimento al passo biblico in cui si narra della moglie di Lot (Gn 19, 1-29) e alla poesia La moglie di Lot di Anna Achmatova: “Si volse, e serrati da una stretta mortale, | non poterono i suoi occhi più guardare; | di sale si fece il corpo diafano, | Si strinsero alla terra gli agili piedi. | Chi vorrà piangere questa donna? | Non sembra forse la più lieve delle perdite? | Il mio cuore solo non potrà mai scordare | chi la vita dette per un unico sguardo.” [A. Achmatova, La moglie di Lot in La corsa del tempo. Liriche e poemi, cit., p. 115.]
  18. Riferimento al passo biblico Is 21, 11-12 in cui si narra della vedetta notturna isaitica: “Guardia! Che cosa porta la notte? | La guardia dice | Il mattino che sta venendo | È altra notte”. (Il libro del profeta Isaia, a cura di G. Ceronetti, Milano, Adelphi, 1992, p. 126.) Riguardo questo passo, annota Guido Ceronetti: “Un ricordo del Gulag: «Si fece mattino, il solito mattino invernale della Kolymà, senza luce, senza niente che lo distingue dalla notte» (Varlam Šalamov, Il complotto dei giuristi)”. [Ibidem.]
  19. “E se un dí pensassero in questo paese | di erigermi un monumento, | acconsento ad essere celebrata | ma solo ad un patto: non porre la statua | accanto al mare ove nacqui – | col mare ho reciso l’estremo legame – | o nel parco dello zar, presso il fatale ceppo | dove mi cerca l’ombra sconsolata, | ma qui, dove stetti trecento ore e dove | non mi apersero i chiavistelli. | Perché anche nella beata morte temo | di scordare un rombo di nere marúsi, | di scordare come l’odiosa porta sbatteva | e – bestia ferita – una vecchia ululava. | E dalle immote, bronzee palpebre | la neve sciolta scorra come lacrime.” (A. Achmatova, Requiem in La corsa del tempo. Liriche e poemi, cit., p. 167.)
    Dal 2006, a San Pietroburgo possiamo incontrare davvero, nel piazzale di fronte le Croci, la sua statua di bronzo, immobile, con incisi sul piedistallo questi versi: “E non per me sola prego, | ma per quanti erano là con me, | nel freddo crudele, nell’afa di luglio, | sotto la rossa, accecata muraglia”. (Ivi, p. 165.) Versi che, probabilmente, tra qualche anno, perderanno di senso e più nessuno capirà, dato che il progetto futuro è trasformare la costruzione delle Croci in un albergo di lusso.
  20. A. Achmatova, Ultimo brindisi in La corsa del tempo. Liriche e poemi, cit., p. 123.

7 Commenti

  1. Molto bello questo tributo ad Anna Achmatova, poeta plasmata dalla follia criminale di quel periodo storico che va sotto il nome di “purghe staliniane”. L’autore riesce nel suo intento a ridonare forza ad una storia dimenticata dai più… Almeno per quanto mi riguarda, grazie.

  2. Stasera, con calma, me lo distillerò goccia a goccia, come merita ogni cosa di Orsola. A cui qui sono grata di aver liberato la Achmatova dallo stretto recinto degli slavisti

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