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Come il Sole s’impigrì


Scrive il domenicano lionese Guglielmo Peraldo, (citato nel capitolo dedicato all’accidia del bel libro di C. Casagrande e S. Vecchio, I sette vizi capitali, Einaudi, Torino 2000, p. 90), vissuto intorno alla metà del XIII secolo e autore di uno dei più diffusi manuali medievali di vizi e virtù, la Summa virtutum ac vitiorum, che un grande esempio di operosità è dato innanzitutto dall’universo intero: in particolare dal Sole, che ogni giorno viaggia da Oriente a Occidente, e ogni notte torna indietro, non concedendosi mai un momento di riposo né in estate né in inverno, senza peraltro aspettarsi alcuna remunerazione per il suo lavoro. Un simile esempio deve indurre – secondo Peraldo – a rendere il vizio dell’accidia sommamente esecrabile.
Affermazione questa, del nostro buon domenicano, se mai ve ne fu una, il cui rovesciamento caratterizza il passaggio dalla scienza antica alla nuova scienza della prima età moderna. Il contenuto più autentico della prima rivoluzione scientifica, che ha preso avvio nel cuore dell’Europa nel corso del Rinascimento, può infatti essere visto come un sostanziale allargamento dell’idea di inerzia. E inerzia è appunto uno dei nuovi nomi che vennero dati, a partire da quest’epoca, al capitale vizio dell’accidia.
Il Sole dunque, secondo Peraldo, è quanto di meno accidioso si possa pensare, con tutta quella fatica del girare di giorno e di notte. Ma sarà sempre così? Non si stancherà egli forse di tutto quel correre? Ecco che nel 1543, l’anno della morte di uno dei grandi scienziati del mondo – il polacco Mikołaj Kopernik – e anche l’anno della prima pubblicazione a Nürnberg, presso Johann Petreius della sua opera fondamentale, il De revolutionibus orbium coelestium, qualcosa comincia a cambiare, come credo tutti ben sappiamo. Ma io vorrei che a raccontare questo rovesciamento fosse un altro grande, stavolta della letteratura italiana, sempre perché la letteratura, bisogna ormai convincersene, entra e interagisce, talvolta prepotentemente, nella scienza. Alludo a una delle più divertenti, oltre che istruttive, Operette morali di Giacomo Leopardi, intitolata appunto Il Copernico, scritta in forma di dialogo fra vari personaggi. Sentite come comincia:

L’Ora prima e il Sole:
Ora prima. Buon giorno, Eccellenza.
Sole. Sì: anzi buona notte.
Ora prima. I cavalli sono in ordine.
Sole. Bene.
Ora prima. La diana è venuta fuori da un pezzo.
Sole. Bene: venga o vada a suo agio.
Ora prima. Che intende di dire vostra Eccellenza?
Sole. Intendo che tu mi lasci stare.
Ora prima. Ma, Eccellenza, la notte già è durata tanto, che non può durare più; e se noi c’indugiassimo, vegga, Eccellenza, che poi non nascesse qualche disordine.
Sole. Nasca quello che vuole, che io non mi muovo.
Ora prima. Oh, Eccellenza, che è cotesto? si sentirebbe ella male?
Sole. No no, io non mi sento nulla; se non che io non mi voglio muovere: e però tu te ne andrai per le tue faccende.
Ora prima. Come debbo io andare se non viene ella, ché io sono la prima Ora del giorno? e il giorno come può essere, se vostra Eccellenza non si degna, come è solita, di uscir fuori?
Sole. Se non sarai del giorno, sarai della notte; ovvero le Ore della notte faranno l’uffizio doppio, e tu e le tue compagne starete in ozio. Perché, sai che è? io sono stanco di questo continuo andare attorno per far lume a quattro animaluzzi, che vivono in su un pugno di fango, tanto piccino, che io, che ho buona vista, non lo arrivo a vedere: e questa notte ho fermato di non volere altra fatica per questo; e che se gli uomini vogliono veder lume, che tengano i loro fuochi accesi, o proveggano in altro modo.

Sta diventando accidioso il Sole, non ha più voglia di fare tutti quei giri, vuole concedersi quei momenti di riposo che Peraldo menziona nel suo elogio. Anzi, il Sole progetta di non faticare assolutamente più, ed escogita a questo scopo un trucco straordinario: chiede alle Ore, sue essenziali collaboratrici, di andar a cercare un uomo che sappia far muover la Terra; che fatichi un po’ questa, ora, a girare attorno. E sguinzaglia dunque l’Ora Ultima, che chiami “il Copernico”, gli spieghi di che si tratta e quel che ci si aspetta da lui, e glielo porti davanti, senza tanti complimenti, per convincerlo. Il che avviene così:

Copernico e il Sole:
Copernico. Illustrissimo Signore.
Sole. Perdona, Copernico, se io non ti fo sedere; perché qua non si usano sedie. Ma noi ci spacceremo tosto. Tu hai già inteso il negozio dalla mia fante. Io dalla parte mia, per quel che la fanciulla mi riferisce della tua qualità, trovo che tu sei molto a proposito per l’effetto che si ricerca.
Copernico. Signore, io veggo in questo negozio molte difficoltà.
Sole. Le difficoltà non debbono spaventare un uomo della tua sorte. Anzi si dice che elle accrescono animo all’animoso. Ma quali sono poi, alla fine, coteste difficoltà?
Copernico Primieramente, per grande che sia la potenza della filosofia, non mi assicuro che ella sia grande tanto, da persuadere alla Terra di darsi a correre, in cambio di stare a sedere agiatamente; e darsi ad affaticare, in vece di stare in ozio: massime a questi tempi; che non sono già i tempi eroici.
Sole. E se tu non la potrai persuadere, tu la sforzerai.

Copernico oppone lunghe argomentazioni per rinunciare ad un incarico così gravoso, ma il Sole non si dà certo per vinto; così che Leopardi ne approfitta per dire la sua sulla rivoluzione copernicana.

Sole. Che vuol conchiudere in somma con cotesto discorso il mio don Niccola? Forse ha scrupolo di coscienza, che il fatto non sia un crimenlese?
Copernico. No, illustrissimo; perché né i codici, né il digesto, né i libri che trattano del diritto pubblico, né del diritto dell’Imperio, né di quel delle genti, o di quello della natura, non fanno menzione di questo crimenlese, che io mi ricordi. Ma voglio dire in sostanza, che il fatto nostro non sarà così semplicemente materiale, come pare a prima vista che debba essere; e che gli effetti suoi non apparterranno alla fisica solamente: perché esso sconvolgerà i gradi delle dignità delle cose, e l’ordine degli enti; scambierà i fini delle creature; e per tanto farà un grandissimo rivolgimento anche nella metafisica, anzi in tutto quello che tocca alla parte speculativa del sapere. E ne risulterà che gli uomini, se pur sapranno o vorranno discorrere sanamente, si troveranno essere tutt’altra roba da quello che sono stati fin qui, o che si hanno immaginato di essere.
Sole: Figliuol mio, coteste cose non mi fanno punto paura: ché tanto rispetto io porto alla metafisica, quanto alla fisica, e quanto anche all’alchimia, o alla negromantica, se tu vuoi. E gli uomini si contenteranno di essere quello che sono: e se questo non piacerà loro, andranno raziocinando a rovescio, e argomentando in dispetto della evidenza delle cose; come facilissimamente potranno fare; e in questo modo continueranno a tenersi per quel che vorranno, o baroni o duchi o imperatori o altro di più che si vogliano: che essi ne staranno più consolati, e a me con questi loro giudizi non daranno un dispiacere al mondo. [ . . . ]

Ed infine, malgrado le ultime obiezioni di Copernico:

Copernico: Ma considerando solamente l’interesse vostro, dico che per insino a ora voi siete stato, se non primo nell’universo, certamente secondo, cioè a dire dopo la Terra, e non avete avuto nessuno uguale; atteso che le stelle non si sono ardite di pareggiarvisi: ma in questo nuovo stato dell’universo avrete tanti uguali, quante saranno le stelle coi loro mondi. Sicché guardate che questa mutazione che noi vogliamo fare, non sia con pregiudizio della dignità vostra.
Sole: Non hai tu a memoria quello che disse il vostro Cesare quando egli, andando per le Alpi, si abbatté a passare vicino a quella borgatella di certi poveri Barbari: che gli sarebbe piaciuto più se egli fosse stato il primo in quella borgatella, che di essere il secondo in Roma? E a me similmente dovrebbe piacer più di esser primo in questo mondo nostro, che secondo nell’universo. Ma non è l’ambizione quella che mi muove a voler mutare lo stato presente delle cose: solo è l’amor della quiete, o per dir più proprio, la pigrizia. In maniera che dell’avere uguali o non averne, e di essere nel primo luogo o nell’ultimo, io non mi curo molto: perché, diversamente da Cicerone, ho riguardo più all’ozio che alla dignità.

Il mondo di Peraldo è crollato, l’accidia ha definitivamente contagiato lo stesso Sole.

Notate quante cose davvero sapesse il nostro Recanatese, sull’Universo e le stelle: del resto la sua prima opera erudita fu per l’appunto una assai accurata Storia dell’Astronomia, scritta nel 1813, a 15 anni.
[Per notizie un po’ meno fantasiose però forse anche meno divertenti, sull’argomento si può rileggere questo post che scrissi in occasione dell’invito a papa Ratzinger di tenere nel 2008 una lectio magistralis all’Università di Roma]

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Antonio Sparzani, vicentino di nascita, nato durante la guerra, dopo un ottimo liceo classico, una laurea in fisica a Pavia e successivo diploma di perfezionamento in fisica teorica, ha insegnato fisica per decenni all’Università di Milano. Negli ultimi anni il suo corso si chiamava Fondamenti della fisica e gli piaceva molto propinarlo agli studenti. Convintosi definitivamente che i saperi dell’uomo non vadano divisi, cerca da anni di riunire alcuni dei numerosi pezzetti nei quali tali saperi sono stati negli ultimi secoli orribilmente divisi. Soprattutto fisica e letteratura. Con questo fine in testa ha scritto Relatività, quante storie – un percorso scientifico-letterario tra relativo e assoluto (Bollati Boringhieri 2003) e ha poi curato, raggiunta l’età della pensione, con Giuliano Boccali, il volume Le virtù dell’inerzia (Bollati Boringhieri 2006). Ha curato due volumi del fisico Wolfgang Pauli, sempre per Bollati Boringhieri e ha poi tradotto e curato un saggio di Paul K. Feyerabend, Contro l’autonomia (Mimesis 2012). Ha quindi curato il voluminoso carteggio tra Wolfgang Pauli e Carl Gustav Jung (Moretti & Vitali 2016). È anche redattore del blog La poesia e lo spirito. Scrive poesie e raccontini quando non ne può fare a meno.
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