Scuola e utopia: considerazioni su Riscoprire l’insegnamento di Gert Biesta

di Giovanni Carosotti

Che i fondamenti teorici alla base del processo di riforma della scuola, in atto da ormai tre decenni, non godano di particolare apprezzamento presso l’intellettualità diffusa è fenomeno noto, anche se viene il più possibile occultato o sottostimato. Nonostante l’impegno di molti esponenti del pedagogismo (che è cosa ben diversa dalla disciplina della pedagogia) nel cercare in tutti modi di convincere in merito a presunte nuove e determinanti conquiste su come avvenga il processo d’apprendimento, è facile per i più accorgersi sia del carattere tutt’altro che irreprensibile delle argomentazioni a sostegno, che non possono affatto pretendere di essere considerate niente più che semplici opinioni, e non certo conoscenze acquisite che avrebbero definitivamente falsificato le teorie concorrenti; sia constatare la difficoltà di tali elucubrazioni concettuali a trasformarsi, sul piano empirico, in pratiche virtuose capaci almeno di corroborarsi sulla base dei concreti risultati ottenuti. Assistiamo invece a strategie retoriche che sembrano dover procrastinare i risultati attesi a un tempo indefinito; ragione addotta sarebbe il permanere di atteggiamenti regressivi che impedirebbero il dispiegarsi di ciò che la nuova scienza pedagogica sarebbe in grado di conseguire. Il deficit  sempre maggiore di importanti livelli di conoscenza e abilità, dovuti proprio all’introduzione massiccia di pratiche cosiddette “innovative”, non dà dunque luogo ad atteggiamenti di autocritica o di ripensamento, accettando finalmente un confronto alla pari con impostazioni alternative; più facile addebitare all’incapacità della classe docente, ferma a un modo di insegnare “conservatore”, totalmente ignorante (ovvero non formata) su come avvengono i processi di apprendimento, il mancato successo della didattica innovativa.

Non è un caso dunque che, quando docenti esasperati da questi immotivati attacchi propongano degli appelli di carattere critico, si registri un successo di consensi che mette in difficoltà molti sostenitori della “didattica innovativa”. Un esempio tra i tanti: l’associazione Gessetti colorati, in un intervento piccato per il successo del Manifesto della nuova scuola, così si esprime: «Ma il vero vulnus del Manifesto viene individuato nella mancata attenzione al bisogno di pedagogia che c’è nella scuola, stante il dato di fatto che al centro di tutto, ancora prima dell’insegnamento dei docenti, c’è l’apprendimento degli allievi, rispetto al quale fine l’insegnamento stesso rappresenta uno strumento, ovviamente fondamentale». Un’impostazione argomentativa di questo tipo è sufficiente per non prendere in considerazione il valore delle firme a sostegno di quegli appelli; prestigiosi studiosi, sicuramente luminari nel loro campo disciplinare, ma digiuni dei progressi dello scientismo pedagogico, in particolare della priorità ormai acquisita dal concetto di apprendimento rispetto a quello di insegnamento. Certo è che l’uscita della traduzione dello studio di Gert Biesta (la prima in Italia, nonostante l’autorevolezza del personaggio), dal significativo titolo Riscoprire l’insegnamento ( a cura di Francesco Cappa e Paolo Landri, trad.it di Vincenzo Santarcangelo Cortina, Milano 2022, euro 16) è destinata a porre fine a tale stucchevole retorica.

Il titolo dello studio, Riscoprire l’insegnamento, viene subito giustificato con la volontà di rivalutare l’importanza di tale concetto in campo pedagogico, proprio per rispondere al declassamento cui è stato sottoposto dalla teoria dell’apprendimento.  Ma prima di entrare nel dettaglio, conviene fare un’ultima osservazione preliminare, ricordando un altro intervento di Biesta, nel quale si ribadisce il carattere ontologicamente pluralistico della disciplina pedagogica. Nell’attuale fase storica, ricorda lo studioso, un’impostazione di studi originatasi nei paesi anglosassoni si impegna attivamente per conquistare un’egemonia, se non addirittura per imporre una totale identificazione tra la propria impostazione e la disciplina che intende rappresentare. Interessante è che Biesta faccia un riferimento a una distinzione che rimanda all’annosa questione dei rapporti tra filosofia analitica e continentale. Dove anche in quel caso compare un’evidente intento di delegittimazione, in particolare di un campo verso l’altro. Non a caso Diego Marconi, in un saggio ormai di qualche anno fa a difesa della corrente analitica, candidamente ammetteva: «le contese su filosofia e storia della filosofia sono quasi sempre anche contese su posti di lavoro, equilibri dipartimentali, spazi mediatici. Finché teorici e storici competeranno per le stesse risorse ci sarà sempre chi, dall’una e dall’altra parte, cercherà di guadagnare posti nella competizione vantando la superiorità della propria sottodisciplina o, più radicalmente, mettendo in dubbio il diritto dell’altra a occupare anche solo una quota dello spazio disciplinare disponibile»[1].

Questo mi sembra sia in gioco oggi anche in Italia; con la pretesa del pedagogismo di esercitare un’egemonia pressoché assoluta sulla disciplina pedagogica, legittimandosi in questo ruolo esclusivo presso gli ambienti ministeriali, esso si propone come unico soggetto deputato alla formazione dei docenti e quindi, di fatto, intende prendere il controllo della scuola pubblica, imponendo pratiche corrispondenti alle proprie convinzioni teoriche (per non parlare dalle posizioni di potere guadagnate da alcuni Dipartimenti di Scienze dell’Educazione nel vedersi assegnato questo ruolo esclusivo).

Il primo grande merito di Biesta è quello di sfuggire alle demagogica logica dualistica che fa da sfondo alle consuete polemiche pedagogistiche, dando così prova di raffinata preparazione sia epistemologica sia filosofica. Non è di poco conto questa osservazione, né il riferimento decisivo che Biesta propone al pensiero di Lévinas. É un ritorno alla migliore tradizione della pedagogia, che si sviluppa e si confronta in osmosi con le riflessioni della filosofia, rifiutando la spocchiosa autoreferenzialità del pedagogismo corrente, pronta a fare proprie le superficiali delegittimazioni della tradizione continentale. Ovviamente la profondità con cui lui si accosta alla riflessione filosofica per migliorare le possibilità di investigazione dei problemi che la pedagogia pone è in netto contrasto con l’umiliazione che la filosofia subirebbe se venisse attuata in base allo sciagurato documento Lineamenti per l’insegnamento della filosofia nell’età della conoscenza[2], non a caso in perfetta linea con le dominanti teorie dell’apprendimento. L’onesta e la preparazione filosofica evita il trucco dialettico del pedagogismo di valorizzare se stesso attraverso la derisione delle teorie contrarie, ridotte a caricatura; nel caso specifico, la trasmissione del sapere centrata sull’insegnamento, considerato poco più che una forma di indottrinamento, che relegherebbe il discente a una condizione di passività. Non ci vuole molto a smontare questa pretesa, e nelle valutazioni di Biesta molti colleghi potranno trovare conforto alle evidenze empiriche riscontrabili nella loro esperienza quotidiana: «anche laddove gli insegnanti parlino e gli studenti siedano in silenzio, in realtà, questi ultimi stanno comunque compiendo numerose azioni. Possono naturalmente sentirsi annoiati, alienati, ignorati, così come sfidati, affascinati, ispirati – chi può dirlo? Mi chiedo, inoltre, se qualcuno abbia davvero mai proposto che l’educazione funzioni come un processo di trasmissione e di assorbimento passivo, anche quando è effettivamente organizzata in tal modo». Sia chiaro, come si evince dai toni, non si tratta di difendere un modo di impostare la comunicazione in classe rigidamente e mediocremente trasmissivo; ma di far notare che il ridurre l’insegnamento, caricaturizzandolo, a questa condizione significa comunque partire da un presupposto errato riguardo proprio alla psicologia dell’alunno. Agire sulla soggettività dello studente non dipende tanto dall’impostazione (come vedremo, anche un’impostazione pratico-attiva può relegare l’alunno in condizioni di passività intellettuale), ma da ciò che tra il soggetto che espone e quello che ascolta (e sia chiaro che per Biesta la pratica dell’ascolto ha comunque una estrema rilevanza formativa) vi è un medium, l’oggetto del discorso, il contenuto disciplinare, il quale si inserisce nella relazione e in qualche modo –persino quando questa relazione si svolge nelle modalità più infelici- favorisce una rielaborazione e trasformazione del soggetto. Biesta propone tale considerazione in riferimento a Rancière: «Ciò che Rancière mette in evidenza nel descrivere questa dinamica è che non esiste una relazione diretta tra insegnante/attore e studente/spettatore e dunque nemmeno l’ambizione o la possibilità di una “uniformità di trasmissione”. Vi è sempre un “terzo elemento” -l’opera d’arte, lo spettacolo teatrale, un libro, “o un altro elemento di scrittura”- che è “estraneo a entrambi”, al quale essi possono riferirsi “per verificare insieme ciò che l’allievo ha visto, che cosa ne dice e che cosa ne pensa”. Vi è dunque una radicale apertura interpretativa in relazione a questo elemento[…]». Il concetto di apertura, di evidente ascendenza filosofica, viene interpretato da Biesta come irrompere di un’alterità ancora non definita; il riferimento esplicito è a Lévinas, anche se il termine richiama pure Heidegger, e potrebbe essere interpretato in base alla torsione a cui Celan aveva sottoposto il concetto heideggeriano di apertura.

Osservazione non marginale. Da essa deriva infatti tutta l’insufficienza di una relazione didattica fondata sul principio dell’apprendimento. La teoria dell’apprendimento, in effetti, sembra esprimere una pura autoreferenzialità formale, una metodologia che rispecchia narcisisticamente sé stessa, indifferente ai contenuti, se non per un rapporto nei loro confronti di carattere esclusivamente strumentale: «lo scopo dell’insegnamento, e dell’educazione in generale, non è mai che gli studenti imparino “semplicemente”, ma che imparino qualcosa, che lo imparino per ragioni particolari e che lo imparino da qualcuno. Il linguaggio dell’apprendimento si riferisce a processi che restano “aperti” o “vuoti”, per quanto riguarda il loro contenuto e il loro scopo». Come sappiamo, a fondamento delle teorie dell’apprendimento vi è una preoccupazione di ordine pratico, cioè far sì che i contenuti di ciò che viene appreso inneschino abilità operative che possano essere spesi in altri ambiti; e devono essere scelti proprio in ragione di questo obiettivo utilitaristico.

Come vedremo, Biesta è ben consapevole che tale preoccupazione, formalmente presa considerando ciò che può essere utile per lo studente, è tutt’altro che immune da ben precisi presupposti ideologici. Ma, prima di valutare questi ultimi, è bene sottolineare la povertà educativa che tali teorie implicano; Biesta ribalta l’accusa tradizionale all’insegnamento di rendere lo studente puramente passivo (e abbiamo già visto quanto tale idea di “passività” sia, dal punto di vista psicologico, inconsistente). È semmai  un rapporto educativo incentrato sull’apprendimento a risultare totalmente ostile all’idea di apertura che dovrebbe presiedere alla relazione educativa. Il presupposto della teoria dell’apprendimento è quello di valorizzare le doti di partenza che l’alunno dimostra di avere, di agire sulla sua soggettività individuale, cercando di svilupparne le doti potenziali, e in quella direzione concepire, ad personam, una sorta di piano didattico personalizzato che miri  a sostituire il curriculum. Contenuti, linguaggi, impostazioni di studio, tutto deve corrispondere a ciò che l’alunno esprime già, in modo da poter estrarre da lui stesso il meglio delle proprie doti. Ma se questo diventa «l’unico modo di concepire il nostro rapporto con il mondo e la nostra posizione in esso, staremmo limitando le nostre possibilità esistenziali, ovvero le nostre possibilità di esistere nel e con il mondo. Il problema fondamentale dell’apprendimento inteso come comprensione e che esso mette al centro il sé e trasforma il mondo in un oggetto per il sé». Da questo punto di vista, un’analisi troppo attenta alla personalità dello studente e ai suoi interessi (si pensi al curriculum dello studente) risulta addirittura negativo: «Conoscere troppo bene i nostri studenti potrebbe sbarrare loro la porta su futuri che non possono essere contemplati in quanto possibilità del presente. Non solo: potrebbe impedire anche a noi insegnanti ed educatori di dischiudere tali futuri, di confidare nel fatto che l’inaspettato sia proprio ciò che potrebbe accadere. É proprio quando non sappiamo chi sono i nostri studenti, quando non sappiamo da dove vengono, quando non abbiamo informazioni sul loro vissuto, che possiamo avvicinarci loro in modi nuovi e inimmaginati, modi che possono anche liberarli dal peso del loro passato, della loro storia personale, dei loro problemi e delle loro patologie.» Ritorna allora il nodo dei contenuti, non certo semplice strumento, ma insieme di esperienze collettive con cui è necessario che ogni soggettività si confronti, e che rappresentano quel medium che si frappone tra docente e discente capace proprio di innescare  meccanismi di liberazione, con l’apertura di orizzonti d’esperienza nuovi. Ma, per poter ottenere quest’effetto, tali contenuti devono proprio rappresentare, nell’immaginario di chi li apprende, l’alterità, l’inimmaginato, il non ancora conosciuto che introduce a nuovi orizzonti di senso. E questo vale anche quando, a un primo impatto, tale alterità può apparire allo studente come estraneità, suscitare sentimento di distanza, una reazione possibile che –con buona pace dei pedagogisti- non sempre va interpretata negativamente. «L’educazione può diventare un incontro con qualcosa che arriva, per così dire, senza motivo: se è qualcosa di veramente nuovo, che giunge dall’esterno, gli studenti potrebbero non avere ancora alcun ancoraggio con quanto ricevono e potrebbero non essere (ancora) in grado di capirne il perché.  Il nuovo che arriva può assomigliare più a un fardello da portare che a un’intuizione familiare, assimilabile a ciò che già sanno e comprendono.» E ancora: «[…] i concetti non sono “semplicemente” concetti e che in molti casi hanno assunto un’esistenza reale nella vita degli studenti, sotto forma di cose amate o odiate, che li interpellavano e si rivolgevano a loro, cose che volevano avere un posto nella loro vita, sebbene per alcuni si sia rivelato più facile accoglierli, fornire loro un luogo dove vivere. Ma è anche accaduto che l’incontro con il concetto, e la richiesta di adottarlo, abbiano spinto gli studenti “al di là” della loro identità di discenti tradizionali, allontanandoli dalla mera comprensione, verso modi molto diversi di essere nel e con il mondo.» Proprio in queste ultime osservazioni si rivela il vero scopo del processo d’istruzione, e la centralità che in esso ricopre la pratica dell’insegnamento. Non si tratta della trasmissione di una sapere tecnico che ci permette di padroneggiare, dal punto di vista pratico, un mondo già dato; ma un insieme di conoscenze che devono essere trasmesse per il fatto proprio di rivelare un mondo che ancora non si conosce, in quanto sono capaci di interrogare sulla legittimità dell’esistente, di metterlo in discussione e di far immaginare all’alunno la possibilità di un «non ancora» o di un «assolutamente altro». «Conoscere non costituisce un atto di dominio o di controllo -il nostro atteggiamento nei confronti del mondo, naturale e sociale, non è tecnologico- ma può forse essere descritto come un processo di ascolto, di preoccupazione, di cura, e forse di un “farsi carico” di esso.»

Risulta chiaro come la prospettiva di Biesta si sottragga e respinga la nefasta teoria del capitale umano, la quale non solo appiattisce il processo d’istruzione sull’esistente, ma carica sullo studente –e non sul contesto sociale in cui agisce- la responsabilità del proprio fallimento: «Si tratta dell’immaginario che interpreta l’istruzione come uno sforzo a carico  del discente e secondo il quale, in ultima analisi, il compito di costruire le proprie conoscenze e di sviluppare le proprie competenze spetti esclusivamente a lui, laddove il compito principale degli insegnanti è solo quello di fornire soluzioni grazie alle quali tali processi possano avvenire autonomamente.» Il rifiuto della teoria delle competenze, che qualcuno oggi stancamente continua a difendere con argomenti privi di ogni spessore, non potrebbe essere più netto: «Allo stesso modo, gli studenti non sono coinvolti nell’assorbimento passivo ma nella costruzione adattiva attiva, attraverso la quale acquisiscono abilità e competenze che li renderanno più capaci di adattarsi alle situazioni future. Anche il senso e il ruolo del curricolo sono cambiati: questo non è più interpretato alla stregua di una serie di contenuti da trasmettere e da acquisire, ma è ridefinito come un insieme di “opportunità d’apprendimento” all’interno e attraverso le quali gli studenti, in modo flessibile e personalizzato, perseguono le loro particolari traiettorie d’apprendimento.»

La finalità dell’insegnamento deve essere invece quella di porre lo studente di fronte all’altro da sé. Splendida la descrizione dell’obiettivo dell’educazione ripreso da Meireu: «La sfida, quindi, è quella di esistere nel mondo senza considerarsene il centro, l’origine, o il fondamento -è esattamente il modo in cui Philippe Meireu descrive il “soggetto-studente” (élève-sujet), colui che è capace di vivere nel mondo, senza occuparne il centro». Più avanti il concetto viene ulteriormente precisato: «[…] l’insegnamento, sostenendo che esso non è una limitazione della libertà dello studente, ma la modalità stessa in cui lo studente-in-quanto-soggetto ha la possibilità di emergere.» Queste affermazioni capovolgono e smentiscono l’ambizione, da parte della didattica fondata sull’apprendimento, di rendere gli studenti attivi; il presunto attivismo delle pratiche innovative fondate sull’apprendimento non è altro che la somministrazione di «pre-pensati» (Giroux), ovvero progetti dall’esito predeterminato (nelle UDA si devono dichiarare in anticipo i risultati attesi); ma nel contempo impediscono l’esercizio del pensiero libero, frustrando una reale autonomia. Gli alunni diventano così automi al servizio di un processo che li trascende, che li sfrutta e rispetto al quale diventano incapaci di comprenderne le ragioni e di osservarlo con modalità critiche. Una falsa libertà già denunciata da Laval e Vergne[3], che nasconde un effettivo autoritarismo, proprio perché si ripromette di condizionare in modo surrettizio i processi di soggettivazione.

L’insegnamento invece non è «finalizzato al controllo, all’esercizio del potere o all’instaurazione di un ordine per cui lo studente può esistere solo come oggetto, ma evento che richiama la sua soggettività interrompendone l’egocentrismo, il suo essere con-sé e per-sé.» Insomma, bisogna smetterla di pensare che l’alunno possa essere stimolato solo riportando qualsiasi contenuto al suo orizzonte d’esperienza, pratico e linguistico, mai forse come in questi tempi così lontano da profonde motivazioni culturali. Di conseguenza, il ruolo falsamente neutrale del “docente facilitatore” –che si limita a controllare come la processualità predeterminata avvenga solo attraverso i giusti passaggi previsti nelle UDA- diventa profondamente invasivo e autoritario.

Ponendo in evidenza la radicale diversità tra autoritarismo e autorità, volutamente ignorata dai fautori della didattica innovativa, Biesta conferma la necessità che sia preservata l’autorità del docente, in quanto spetta a lui individuare quei contenuti inimmaginati dall’alunno, capaci di scuoterlo e di metterne in forse i talenti e le false certezze. Come già hanno scritto Laval e Vergne –anche loro non a caso strenui difensori della figura docente contro l’ingiustificata svalutazione della stessa da parte dello scientismo pedagogico– è al docente che compete la scelta dei contenuti, che spetta il ruolo di provocare la soggettività dello studente per metterla in crisi di fonte all’inaspettato, e sfidarne l’eventuale iniziale reazione negativa, magari la noia, non arrendendosi nell’esercitare quel ruolo di fascinazione («l’erotizzazione del sapere si oppone ai giganteschi sforzi burocratici di standardizzazione del sapere», Laval-Vergne, p, 221) che ha come oggetto del desiderio il contenuto di cultura, inteso come finalità senza scopo, per dirla con Kant, sganciato da fantomatiche competenze, utili solo a chi di quelle soggettività vuole fare massa di manovra precaria e sfruttata di un mercato del lavoro spietato. «Questo tipo d’insegnamento non ha nulla di autoritario, perché non riduce lo studente a un oggetto, ma presta attenzione alla sua soggettività. Non supera l’autoritarismo opponendosi a esso, (in tal caso, gli studenti sarebbero lasciati interamente a sé, cioè al proprio apprendimento-come-significazione), ma stabilendo un rapporto completamente diverso. Si tratta pur sempre di un rapporto di autorità perché nel passare da ciò che desideriamo a ciò che possiamo considerare desiderabile conferiamo autorità a ciò che è altro da noi – o, detto diversamente, autorizziamo ciò e chi è altro da noi a essere un autore, ovvero un soggetto che parla e si rivolge a noi. […] deve essere praticabile, perché se sostituiamo l’insegnamento-come-controllo con una presunta libertà di significazione, in realtà non facciamo altro che rafforzare la non-libertà dei nostri studenti: negli atti di significazione  gli studenti rimangono con se stessi e ritornano sempre a se stessi, senza mai arrivare al mondo, senza mai raggiungere la (loro) soggettività. Si comincia così a delineare un approccio non egologico all’insegnamento, un approccio che non mira a rafforzare l’Io, ma a interrompere l’oggetto-io, a volgerlo verso il mondo, in modo che possa diventare un soggetto-sé».

È evidente il messaggio politico sotteso al discorso di Biesta; esso non viene presentato secondo la modalità “militante” che ritroviamo in Laval e Vergne, ma forse è ancora più incisivo perché appare come strettamente connaturato al progetto riformatore, falsamente tecnico e falsamente neutrale. Poche sono le pagine in cui ciò viene sottolineato, ma in quelle pagine emerge comunque con assoluta chiarezza. L’obiettivo dell’educazione è lo  stesso indicato dai due autori francesi, ovvero far sì che lo studente sia in grado di sottoporre a critica radicale il sistema che, attraverso la teoria dell’apprendimento, lo vuole subordinato, precario, scarsamente acculturato, incapace di senso critico. Scrive Biesta: «L’idea di emancipazione che emerge da queste teorie coincide con una liberazione dai meccanismi oppressivi del potere. Un passaggio cruciale consiste nel mostrare come funziona il potere – nel demistificarlo, appunto- perché si presume che solo quando si sa come funziona, e come agisce su di noi, sia possibile liberarsi dal suo controllo.» Qualcuno potrebbe affermare che vi sia parzialità nella nostra lettura di tipo economicistico; ma Biesta su questo è chiaro: «Questo è solo un esempio di come possa essere utilizzato -forse potremmo dire sfruttato– il tema dell’insegnamento al fine di perseguire un’agenda politica molto precisa, che vada a vantaggio di un particolare segmento della società e dei suoi specifici interessi. Stando a questa citazione [dell’UNESCO], l’apprendimento sembra essere al servizio di un’economia capitalistica globale, che ha bisogno di forza lavoro flessibile e adattabile. In tale contesto, l’apprendimento è descritto come atto adattivo, senza che ci si chieda a cosa ci si dovrebbe adattare e perché,  prima di “decidere” di farlo.  La “libertà di apprendere” dell’individuo […] sparisce, così come è assente una concezione dell’apprendimento al servizio della democrazia […]».

L’espressione neoliberismo appare una sola volta nel volume ma è chiaro che, per la pregnanza che assume nel passo, lì va individuata la ratio sottostante, sfuggente e infida in quanto non dichiarata, di tutta la strumentale teoria dell’apprendimento: «La libertà di significato finisce per assomigliare a una sorta di libertà neoliberista – grazie alla quale chiunque è libero di raccontare la propria “storia”- piuttosto che una libertà politica e democratica, grazie alla quale ci si dovrebbe interrogare  sull’impatto che i “poemi” hanno sui modi in cui viviamo le nostre vite insieme nell’eguaglianza– e non intrappolati ciascuno nella propria storia.»

Ce n‘è abbastanza, soprattutto per tutti quei colleghi che, dopo anni di invasivo lavoro ai fianchi da parte dei documenti ministeriali, hanno introiettata l’idea di non essere aggiornati sulle nuove teorie dell’apprendimento, non avvertendo di trovarsi di fronte a strategie retoriche spesso al limite dell’impostura; il testo di Biesta fornisce solide argomentazioni per potersi contrapporre  a tutte quelle riforme distruttive che sono state introdotte in questi anni, e che hanno avuto la massima legittimazione teorica proprio con l’attuale ministero. E anche svelare l’inconcludenza, la cattiva ideologia, la pessima retorica per l’uso strumentale di concetti in realtà nobili, come «comunità educante», «inclusione» che, cosi come accade per i concetti di “conservatore” e “innovativo” (sottoposti a una crudele decostruzione e capovolgimento da parte di Biesta), vengono declinati dalle autorità per rimporre un modello di scuola totalmente opposto a quei concetti e a quei valori.

Per dimostrare che gli insegnanti non sono ostili al sapere pedagogico, ma alla sua riduzione a una sorta di tecnocrazia; e ribadire il necessario legame tra la riflessione educativa e quella filosofica. Che, nelle pagine di Biesta, avviene soprattutto nel segno di Lévinas; il concetto centrale è il non ancora, che potrebbe richiamare anche Ernst Bloch, pur da Biesta non citato. Ci teniamo a dirlo perché ciò che reputiamo sarebbe utile al dibattito sulla scuola oggi –per opporsi a riforme che si configurano proprio come contrarie a qualsiasi immaginazione utopica, nel loro voler santificare l’esistente- è un forte riferimento al messianismo come apertura di possibilità altre. Un riferimento che compare in un altro interessante studio sulla scuola apparso di recente, La scuola del macchinismo di Davide Viero, che cerca di rifondare il discorso sulla natura dell’istruzione con quei riferimenti capaci di opporsi ai presupposti di qualsiasi sapere teorico inteso nella logica tecnocratica.

Un testo, quello di Biesta che, una volta di più, invita alla resistenza a difesa della scuola e degli studenti.

 

 

 

[1]  D.Marconi, Il mestiere di pensare, Einaudi, Torino, 2014, pp.101-102.

2 Mi permetto di rimandare in proposito a G.Carosotti, Quali obiettivi formativi per una filosofia senza critica, in “Comunicazione Filosofica”, n°40, maggio 2018. Si veda anche in proposito la recente presa di posizione, a nostro parere regressiva, di Luciano Floridi.

3 Cfr.C.Laval, F.Vergne, Éducation democratique, La Decouverte, Paris 2021, p.207 (traduzione nostra): gli studiosi si riferiscono alla «demagogia che sotto il pretesto dell’”uguaglianza delle intelligenze” lascia credere che gli alunni sappiano sempre in anticipo quello che devono sapere e possono disporre dei servizi educativi secondo la loro volontà. Questa concezione desocializzata dell’educazione è agli antipodi dell’azione socializzante propria della scuola che, per garantire a ciascuno l’autonomia, non può confondere quest’ultima con il singolo capriccio». Biesta non cita i due studiosi francesi, ma rimandiamo all’analisi del loro testo su questo portale per constatare le notevoli affinità tra i due.

 

 

 

 

 

 

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2 Commenti

  1. Sono completamente d’accordo. Con il pedagogismo di certi “maestri”asserviti al neoliberismo insieme a riforme deformanti della politica, si è di fatto distrutto la scuola nel suo ruolo fondamentale di formazione delle identità e della personalità. Lo squallido risultato è sotto gli occhi di tutti,: un desolante deserto educativo!

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