Radio days: Mariana Branca

Il regno del soundscape senza bordo e confine – Mariana Branca

di Mirco Salvadori

Improvvido mi immergo senza ritegno nel vagare elettronirico di Mariana Branca impossessandomi di una delle più immaginifiche frasi contenute nel suo libro: “Non nella Enne non nella A ma nella Esse” edito per i tipi della Wojtek. La uso come titolo per una conversazione che ha come intento raccontare, raccontarci quanto può avvenire in quel regno senza bordo e confine in bilico tra reale e immaginario. In quella inconsueta ir-realtà possono convivere veri sound artist, musicisti e produttori assunti alla notorietà mondiale come Nicolás Jaar e il suo intimo e indivisibile amico Andrés, creatura partorita dall’alchimia creata dalla mente di una scrittrice abituata a dondolare perennemente in bilico tra i due mondi: quello di Nicolás e l’altro, di Andrés.

Ma lo stupore non si ferma certo all’esplosiva idea che ha generato questa perla di romanzo scritto da una esordiente, si dirà. Calma, valutiamo: se una esordiente riesce a trascinarti così ferocemente in un vortice psichedeliconirico a 80 bpm non uno di più, chissà quanti scritti respirano nell’oscurità dei cassetti nei quali ha racchiuso i suoi pensieri in continuo divenire, proprio lei, la stessa esordiente che lo scorso anno si è guadagnata la finale del Premio Italo Calvino.

Accennavo allo stupore creato anche dall’argomento nel quale l’estraniante miscela creata dalla Branca viene immerso: il suono elettronico. Tutti abbiamo letto libri che avevano una struttura sostenuta dalla musica, ma quale: rock, classica, jazz, rithm’n blues, soul, pop e chi più ne ha, difficilmente però  collegabile a un universo musicale e culturale tenuto a distanza, misconosciuto o non capito perché di non facile fruizione, secondo i canoni dell’imperante mainstream. “Non nella Enne non nella A ma nella Esse” rappresenta, per chi nell’universo musicale elettronico vive e di esso si nutre, una sorta di liberazione, il sentirsi parte di una variegata comunità minore, nascosta, poco valutata ma terribilmente vitale. Mariana Branca, con maestria da docente di sound-scrittura innovativa ad alto tasso elettronico, descrive gli intimi meccanismi della passione che si scatena quando la macchina madre: il synth, inizia la sua danza algo-ritmica. Lei riesce a rendere tangibile fisico, il piacere che si prova quando il beat penetra e la materia sprigionata si espande nell’ascolto, trasformatosi in prova sensoriale descritta con una modalità difficilmente riscontrabile altrove.

Questo libro è una testimonianza di profonda passione per l’amicizia, per il ricordo costante del proprio vissuto, per il suono elettronico ascoltato e prodotto, per la vita notturna con i suoi capisaldi: i club. Un’indagine svolta indossando bombole di profondità perché a volte, il tono della nota e della parola, possono togliere il respiro.

Da dove iniziare? Dalla lettura del tuo libro se ne esce sospesi, con le mani che cercano un appiglio da afferrare e stringere per rimettersi in posizione eretta, i piedi appoggiati al suolo dopo un volo di centotrentatre pagine lette d’un fiato. Prima di partire, ancora in lento avvicinamento alla solidità di una conversazione, mi chiedo chi sia Mariana Branca e quale sia il suo percorso letterario e artistico. Al pari dei personaggi del tuo libro, hai parvenze ir-reali, non sei rintracciabile nei social, non esiste un tuo blog o sito, bisogna cercarti come si fa quando ci si trova nelle città sconosciute alla ricerca dei locali notturni che forniscono ottimo suono e buon bere.

Ciao Mirco, grazie per avermi accolto su Nazione Indiana, che bello, ne sono felice, onorata. Come suonano le tue parole, suonano, suonano proprio. Le trovo così familiari che potrei raccontarti tutto di me facendo un riassunto super stringato ma sperare che tu mi chieda qualche dettaglio, che sono quelli i più belli. Rispondo alla tua domanda: non ho un percorso letterario e artistico. Ho studiato prima al liceo scientifico del mio paese, un village a tutti gli effetti, per la dimensione, la mentalità, la chiusura intellettuale e geografica. Un posto che mi ha tormentato per anni, tanti. Adesso lo amo. Poi me ne sono andata a Napoli, e l’energia del vulcano io me la sentivo sotto i piedi, salirmi nelle ginocchia e farmi avere voglia di muovermi, muovermi continuamente, muovermi, scoprire, conoscere. A Napoli ho passato degli anni a cambiare facoltà, terrorizzata dall’idea di studiare una cosa soltanto e poi trovarmi a fare quel lavoro per sempre, quel lavoro e basta. Alla fine ho scelto architettura e mi sono laureata. Oggi faccio comunque un altro lavoro, l’architetto lo faccio pochissimo, se e solo se ci sono le caratteristiche perché sia un’esperienza creativa e non una mera gara a chi firma più documenti all’ufficio tecnico. Mi avvilisce la burocrazia, non ci vado d’accordo. E nemmeno coi social, coi blog, con le cose che hanno una portata troppo aperta: in questo sono davvero irpina, amo la riservatezza, condividere le cose con una persona alla volta, far entrare solo dopo un’analisi attenta, uno scambio, anche breve, di empatia. Preferisco le lettere, anche cartacee, a internet.

Mariana Branca, come mai la scelta di Nicolás Jaar, un nome decisamente famoso ma soprattutto per chi segue con più passione la scena musicale elettronica. Avevi un range di scelte indubbiamente più ampio, che ne so: Richard David James (Aphex Twin) o un più pop William Orbit che ai tempi era assunto alle alte sfere per il suo lavoro con Madonna, giusto per fare due esempi diversi a caso. Sembra quasi la tua scelta sia dettata da un irrinunciabile legame con l’indipendenza artistica, a parte l’amore per il suono del musicista di origine cilena.

Avrei parlato di Glen Porter, se ci fosse stato materiale bastante su di lui, in rete, nel 2016, quando ho iniziato a scrivere questa storia. Glen Porter che io amo, brutalmente amo. Glen come chiunque altro stessi ascoltando in quel periodo, musicisti di cui potevo parlare con poca gente, quei quattro amici che avevo, per esempio, a cui mandavo la tune del giorno. Nicolás l’ho scelto senza sceglierlo, lui era là, come un meteorite caduto accanto a me. Mi metteva addosso la pace di una galassia aliena. Lui era là, a vent’anni già con la sua etichetta, il suo mondo di arti e artisti, quella dimensione piccolissima e ricercata, segreta, della Clown&Sunset. Lo ascoltavo giorno e notte, guardavo le sue interviste e gli vedevo negli occhi un sottile imbarazzo, una timidità (come citi dopo), una voglia di essere invisibile che mi facevano il cuore in pezzi, in senso buono. Vado matta per i timidi, per chi non ostenta mai, come fa la musica indipendente, per quel poco che ne conosco. Questi musicisti fanno quello che sentono e, se sei fortunato e curioso, un giorno ti ci imbatti e ti cambiano la vita, le ore, le orecchie, il ritmo, il battito in petto. E lo fanno senza clamore, zitti zitti, in segreto. Gli rendo lode.

Come ti è apparsa (uso un termine legato alla magia perché di magia si tratta) l’idea che ha dato il via a questo lungo racconto di musica, fratellanza, introspezione e mille altre sfumature che vanno a comporre il tuo romanzo e come sei riuscita a far convivere la realtà e la finzione, le due componenti invisibili che sorreggono l’intricata struttura del racconto.

Ero alla scrivania di questa casa a Lyon dove mi sono ritirata dopo Londra, maciullata dal grind della vita di Londra. Iniziai a scrivere di una vicina di casa di mia nonna, ‘Ngiulina si chiamava, una tipa buffissima. E mi venne voglia di parlare di cose che conoscevo, che mi dessero un senso di vicinanza, di amore anche, perché era un momento che mi sentivo spaiata, esiliata. Avevo bisogno di un amico, uno immaginario anche, che stesse con me in quella casa col gatto e una pianta tropicale. Nicolás era il più vicino e immaginario che avessi intorno, e perciò ho raccontato di lui, di me che ero Andrés e lui, a fare tutte le cose che non farò mai ma che, scrivendone, ho vissuto, con tutta l’intensità di cui sono capace. A quel punto dovevo parlare del Nicolás reale, perché era reale il suono che mi sparava nelle orecchie, lui e un bel po’ degli Other People amici suoi. Perciò mi sono messa a cercare, ricostruire, creare cronologie, elencare, accumulare informazioni sui posti dove era andato, sulle cose che aveva suonato, fatto, detto, visto, scritto. Ho passato dei mesi senza sapere cosa avessi fatto io dal 2009 in poi, ma lui sì, lui sì. Ho inventato tutto, ma come un ricordo, come se avessi vissuto tutte quelle cose in una vita altra e le avessi dimenticate. Poi è arrivato lui e il Suono e lo Spazio, e io me ne sono ricordata, vividamente, e ne ho scritto.

La tua è una storia di musica, sulla quale andremo a indagare ma è anche intensa descrizione di un rapporto di amicizia oserei dire estrema, di adorazione dell’uno nei confronti dell’altro tra due ragazzi che si ritrovano a vivere l’esplosione musicale in campo elettronico degli anni zero. Semplificando mi verrebbe da citare il nome del duo che Jaar aveva formato con Sasha Spielberg: i Just Friend.

I duetti di Nicolás mi sembravano pura magia, soprattutto quello con Dave Harrington. Una cosa che mi chiedevo: ma come fanno. Perché io questa cosa l’ho desiderata fin da piccola, di avere uno scambio intimo/intimistico con qualcuno, profondissimo e epiteliale, al contempo. Quel legame che se ci si sfiora un braccio senti la portata della vibrazione che attraversa l’altro. Uno scambio viscerale, che non si ferma alle cose che uno fa insieme, ma che crea come un altro essere, un’entità terza che è la fusione dei due. Uno scambio che è la condivisione di quelle cose che non si possono dire, ma cantare forse sì, suonare, inventare, dargli una forma. La musica permette, meglio della parola scritta, questa condivisione a più teste, io però non ho mai suonato uno strumento, non ho mai duettato con nessuno, a parte, forse, nelle relazioni epistolari che ho avuto per anni. Nelle lettere mi svelavo i silenzi di dosso, questo so. Ero timida, di quella categoria che quasi definirei patologica: arrossivo (non ho smesso), non sapevo dire, dichiarare. E forse anche con la recitazione, forse in qualche occasione, duettando con un qualche attore assolutamente-non-professionista, ho sentito questa “cosa” provenire dalle mie budella, dagli organi interni, dai fluidi del corpo. Ascoltavo Nicolás suonare con altri e percepivo questo legame, animistico quasi, che mi commuoveva, mi faceva ridere della gioia di una bambina di otto anni, prevedere mondi futuri, psichedelici di sogni la notte a venire.

Inoltrandomi nella lettura una domanda mi si presentava in random: Mariana Branca si sarà posta il dubbio della poca dimestichezza di gran parte del pubblico con questi suoni e quindi con la sua scrittura, zeppa di riferimenti ben precisi facilmente capibili per gli appassionati ma alieni al grande pubblico? A rincuorarmi il sapere che sei giunta finalista al prestigioso Premio Italo Calvino lo scorso anno.

Mi sono posta un milione di dubbi! Mi dicevo: ma chi ti capisce! con tutti sti paroloni, sti termini tecnici, sti riferimenti a cose eventi date personaggi numeri e tutto il resto. Sapevo che era difficile da leggersi, questa storia, illegibile, mi avrebbero forse anche detto. Ma non avevo alternative. Il mio amico Alfredo Speranza, anche lui finalista al Calvino con me con un libro troppo bello che parla di una grossa ratta e del suo mondo (Rattata), mi ha detto, dopo aver letto il libro: tu sto libro non l’hai scritto, l’hai suonato, Maria’. E io sono rimasta a guardarlo, poi l’ho abbracciato, perché forse è stato proprio così. Perché mentre scrivevo io avevo solo suoni, il Suono, in testa, le parole dovevano perdere consistenza e farsi suono e basta, questo volevo. E allora mi sono detta che, forse, qualcuno, magari anche uno solo, un giorno lo avrebbe letto ascoltandolo, il libro, e mi sarebbe bastato, avrebbe voluto dire che la prepotenza di quei suoni che ricercavo aveva ragione lei, che non potevo scrivere diversamente. Credo molto nella inevitabilità degli eventi, nella necessità che si svolgano proprio così e non in un altro modo. Senza fatalismo, solo l’urgenza che le cose vadano come vogliono andare.

 

Non nella Nenne non nella A ma nella Esse, titolo affascinante il cui significato non vorrei svelare. Farlo leggendolo alla fine del tuo mirabilante racconto è decisamente commuovente. Perché una storia di profonda amicizia, una sorta di on the road sulle strade di mezzo mondo e su quelle al tempo stesso più impervie e accoglienti dell’introspezione personale con una matrice psichedelica ad alto potenziale e una multidisciplinarità oserei dire impressionante: chimica, fisica, filosofia, esoterismo, architettura (so che in questa materia ti sei laureata), religione, etimologia e qui mi fermo ma potrei continuare?

Non so molto di filosofia, ma molte volte ho letto che tutto è espressione del divino. Io non mi esprimo, in merito a dio e dei e religione, ma sento come una fragancia oscura che la si può annusare in tutte le cose, volendo. Credo nei campi magnetici, nelle energie che ti muovono i piedi, negli incontri casuali perché il caso non esiste. Mentre scrivevo ero allibita dalla potenza e dalla quantità di “coincidenze” che trovavo nel mondo reale rispetto a quello che stava sviluppandosi nella mia testa, sulla pagina. Forse è davvero come dicono, che notiamo le cose solo quando ne abbiamo un pensiero precedente: pensiamo a qualcosa e poi ci appare continuamente. È stato così, con questa storia. Tutto era paurosamente connesso. C’è un film di Jarmusch che adoro, The Limits of Control, del 2009, che per me è un po’ l’esplicitazione di questa idea che tutto, le cose le arti la scienza gli eventi, tutto è la manifestazione di una sola enorme energia. Il messicano del film a un certo punto dice: “The old men in my village used to say, “Everything changes by the colour of the glass you see it through.” Nothing is true. Everything is imagined. For me sometimes the reflection is far more present than the thing being reflected.” (I vecchi del mio villaggio dicevano: “Tutto cambia con il colore del vetro attraverso il quale lo vedi”. Niente è reale. Tutto è immaginato. Per me a volte il riflesso è molto più presente della cosa riflessa.)

Direttamente legata alle tue argomentazioni espresse con incredibili voli dentro e fuori il tempo reale, sospesi come lo si è subito dopo la lettura del libro, c’è la presenza di una forma di scrittura che assolutamente incanta e ha la capacità di far pensare quanto sia importante la continua ricerca, l’innovazione, il non fermarsi al già detto e sentito. La stessa cosa che succede in musica. Come ti giungono le ondate di pensieri che tramuti poi in parole sulle quali noi surfiamo investiti dalle folate di vento con il quale le accompagni. Quale il meccanismo della notevole trasmutazione che avvolge il lettore con la potenza dell’onda che si frange e travolge nel tuono del suo contorcersi su se stessa per rinascere e ancora abbattersi sulla pagina.

 Ci vuole un doppio occhio, un guardare doppio, un guardare e poi un vedere, vedere; e ci vuole un doppio orecchio, per ascoltare e poi sentire quello che evocano le cose, le persone, la musica, soprattutto quella. Per esempio, se vado a fare una passeggiata nei boschi, in mezzo ai castagneti che circondano il village dove sono nata, io in quella verdescenza (!) mi sento perdermi, sminuzzarsi il perimetro di quella che sono e farmi inconsistente, vaga. Non è un fatto di entrare in sintonia, non propriamente, perché nei boschi, a volte ci si sente estranei, a volte ti sono ostili, a volte fai troppo rumore e ti senti goffo, inappropriato. È più un assorbire, un partecipare a quello spazio, a quei suoni, a quella trascendenza verde, appunto. E allora si creano immagini nella mia mente, immagini che collegano la sensazione di quel posto a qualcosa che ho vissuto, provato, o che non ho provato mai ma che invento, io invento sempre. Così succede che lo scrocchiare delle scarpe sulle foglie secche e i ricci, nella penombra del bosco di castagni di cento anni almeno, mi faccia pensare a quando ho visto un amico partire, alle patatine che avevamo mangiato tutta la notte, facendocele cadere di bocca, a terra, e il pavimento scrocchiargli sotto le scarpe, prima di andarsene. O viceversa: l’ho visto partire, e le sue scarpe facevano il suono crepitato del bosco, roboante, potente, devastato di ricci secchi.

Esiste una particolarità nella scelta delle parole che mi ha da subito incuriosito. L’uso di termini che potrebbero essere descritti con vocaboli attuali ma vengono riportati con loro simili appartenenti al mondo della pura intima descrizione. Sono infiltrazioni stilistiche volute, portatrici di vicinanza e comunione come per esempio: “timidità” che suona incredibilmente più efficace di “timidezza”.

 Io ci perdo proprio la testa, sui dizionari dei sinonimi e contrari, su quello etimologico, ci passo il tempo, le ore, mi lascio conquistare, ammaliare. Solo quando completamente sedotta, smetto di cercare. Non sempre, s’intende, ma con questa storia era proprio inevitabile, per questa cosa che il suono doveva averla vinta lui e anche perché io mentre scrivevo ero in una bolla, attutita, gommosa o gommata, come sott’acqua, e questa sensazione io la volevo restituire. Nel libro, per esempio, non uso mai la “ed”, come congiunzione, o “ad” prima di una vocale. Io questa cosa l’ho voluta, decisa fin dall’inizio, difesa in fase di editing (spalla a spalla con il mio editor, Eduardo Savarese, la piuma e lo scalpello), perché volevo che ci si fermasse sul suono di ogni parola, stare (..) a (..) ascoltare non è la stessa cosa di stare-ad-ascoltare, no? Io volevo perderci il tempo, sulle parole, ché perdere il tempo sulle cose piccole o insignificanti è una cosa che so fare bene, che mi fa stare bene. Volevo creare un distacco dalle parole consuete, quelle che mastichiamo tutti i giorni e non ci facciamo caso più, volevo farci caso, starle a pensare anche dopo averle scritte, lette e rilette. Volevo che mi rimanessero in testa, e da lì, che mi portassero da qualche parte. Se leggi la parola pappalecco, non ti viene automaticamente voglia di pappaleccare qualcosa? E come si pappaleccano le cose? Insomma, ci resti a pensare, no?

Intitolo questa domanda: Della descrizione del suono. Visto il mio ruolo di “scrittore prevalentemente musicale”, sono rimasto impressionato – chapeau! – dalla tua capacità di descrivere ciò che ascolti con parole che non sono legate agli standard desueti della critica musicale. Leggendoti ho come ritrovato la voglia – che appartiene anche al mio andare per ascolti – di superare la semplice descrizione del ciò che avviene nei solchi di un disco o sul palco di un concerto o dietro una consolle. Ho sentito come una sorta di vicinanza nel cercare di creare un racconto che vada oltre la semplice descrizione di quanto si ascolta.

Tu, Mirco, sei decisamente, definitivamente quel “qualcuno” a cui pensavo mentre scrivevo, come ho detto sopra: magari anche uno solo, un giorno lo avrebbe letto ascoltandolo, il libro, e mi sarebbe bastato. Non ci capisco molto di critica, in generale non mi interessa, e come Nicolás penso che le definizioni siano una cosa mortale, comoda ma riduttiva. Ok, sì, ci danno un’indicazione, ma poi? Non è sempre la nostra percezione delle cose che ci permette di definirne il senso? Avevo un’amica a Parigi, era incredibile. Non aveva nessunissimo interesse musicale, apriva una compilation passatale da qualche amico e la metteva in loop. Si addormentava felice solo con un po’ di sano metalcore (ci sono cascata: definizione), tipo gli August Burns Red, dormiva proprio felice, e se io le proponevo Burial, le vedevo proprio la faccia storcersi in una smorfia di insofferenza, diceva che le faceva venire l’ansia, l’irrequietezza, la smania. Burial.

“E’ un fatto essenziale indossare la musica giusta”: alé. Si entra in area Suono con una tua citazione che spero possa essere compresa da molti ma che in realtà riguarda pochi, tanta è la confusione e disinformazione musicale sotto questo cielo. Nicolas e Andrés, indossano più generi musicali, spaziano in modo estremo dal contemporaneo, al classico passando per la trance, la techno, l’house, l’antico rock, il pop e chi più ne ha. Il risultato è che non sono classificabili come ascoltatori, come in effetti è difficilmente classificabile la musica di Jaar, se non con un ambiguo termine: elettronica. Una scelta questa che ti rispecchia o dovuta al tuo inseguire nel lato reale del racconto, il percorso di un vero musicista e sound artist.

 Chi si somiglia si piglia, credo. Io mi sono pigliata Nicolás perché lui esplicitava tutte queste cose insieme, delle quali non so fare a meno, nemmeno di una di loro. Ho bisogno della techno, dell’antico rock e di quello contemporaneo, del metal, del blues e tutto il resto. Nicolás prendeva questi generi, non tutti s’intende, e li squagliava, li fondeva. E io a sbavare su questa colatura sonica. Lo sentivo mosso da una bramosia, da un non fregarsene niente di rientrare in uno schema, lo sentivo curioso, maniacale, accanito investigatore di onde sonore, comunque esse si propaghino e in qualunque tipologia di spazio. Questo suo interesse per lo spazio, poi, per il contenitore di propagazione del suono, mi fece proprio cadere ai suoi piedi: avendo studiato architettura, mi accorgo che non so prescindere dallo spazio, dai luoghi, dal contesto costruito o naturale che mi sta intorno. C’è una differenza, però: la musica giusta da indossare la puoi scegliere, un posto no. Se vivi in un posto che ti sta stretto, che ti opprime, che non succede mai niente, ti svilisce o che è caotico, hectic e pazzo, se non ci stai bene, quello è un fatto grosso. Nicolás disse in una intervista: fare che il suono si adatti allo spazio. E io ho cominciato a pensare a quante volte ho visto i ragazzi in qualche piazzetta lurida, senza manco una panchina, un baretto, un albero niente, solo un micro vuoto urbano, una rimanenza in mezzo ai palazzi, i ragazzi stare in quella piazzetta come se stessero a Central Park (riferimento letterario, direi, non ci sono mai stata, non so, come si sta a Central Park?) o al Parc de la Villette, adattare quella piazzetta alle loro risate, alle acrobazie sugli skate, al limonare appartati dietro un cassonetto. Ascoltare io lo penso come un verbo gigantesco, ascoltare i palazzi, le strade, la gente dentro. Con un disco che si chiamava Space Is Only Noise, capirai Mirco, che io per poco non ci rimanevo secca.

Mariana Branca si rende conto che è riuscita, nello spazio indefinito che occupa il confine tra realtà e finzione, in quel “regno di soundscape senza bordo e confine” a raccontare la storia di un fenomeno che ha letteralmente stravolto il panorama musicale mondiale? E’ conscia di esserci riuscita descrivendo solo il mondo che girava attorno ad un preciso sound artist, tra l’altro cresciuto lontano dai circuiti classici?

Questa è la domanda più difficile, Mirco! Perché io ho una terribile capacità di autocritica, mi pare sempre che ho fatto un po’, solo un po’, di quello che avrei voluto. Non lo so se ci sono riuscita, ma le tue parole, quelle di altre persone (un poco magiche della magia di cui parli tu, che per essere magia, ci deve essere chi la fa, e chi la sa ricevere), per me sono proprio cosmogoniche: descrivono, si avvicinano, parlano della nascita di questo piccolo universo che ho in testa, che spero, voglio guardare da vicino nella sua evoluzione, starlo ad ascoltare mentre si trasforma in qualcos’altro, questo piccolo universo che ho in testa dove il riflesso, a volte, è più presente della cosa riflessa.

A chi dedichi queste pagine, quale lettore pensi possa abbracciarle sentendosi parte di esse?

Ai timidi curiosi, ai curiosi timidi. Ai timidiosi, ai cùridi.

Ai musicisti, in chiusura conversazione, solitamente si chiede dei programmi in corso o futuri. Lo si fa anche con le scrittrici?

Non lo so, Mirco, se si fa, ma accoglierei qualsiasi domanda provenga dalla tua testa di ascoltatore seriale, compulsivo forse. Voglio scrivere, questo so. Magari potessi solo quello. C’è sempre musica, della musica, nelle cose che scrivo, me ne accorgo quando rileggo. Non una pagina senza almeno un intramezzo. In “Non Nella Enne Non Nella A Ma Nella Esse” parlo anche un po’ di posti, immaginati per lo più, ma ci sono, essi determinano, aprono, chiudono, circoscrivono, esondano. Adesso voglio scrivere esplicitamente di posti, farlo attraverso dei personaggi diversi, somiglianti o opposti agli spazi che abitano, che attraversano. E poi voglio scrivere di persone/personaggi che sono paesaggi, luoghi, edifici, autostrade, corridoi, praterie. Personaggi che sono di questa Irpinia selvatica da cui vengo, farla descrivere a loro. Che lo Spazio è solo Rumore, sì, ma il rumore, da dove viene il rumore, e dove arriva, dove finisce, il rumore.

 

 

 

 

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francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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