“Io ero il milanese”: Lorenzo S. e l’inutilità del carcere

 

di Daniele Ruini

This too I know ­­– and wise it were
If each could know the same­ –
That every prison that men build
Is built with bricks of shame,
And bound with bars lest Christ should see
How men their brothers maim
(Oscar Wilde, The Ballad of Reading Gaol)

 

Facciamo un gioco. Se ci venisse data una bacchetta magica per poter cambiare qualcosa del mondo in cui in viviamo, che cosa sceglieremmo? Per quanto mi riguarda, una delle prime cose sarebbe questa: basta carcere.
I mezzi di informazione italiana (con benemerite eccezioni) non se ne occupano mai, limitandosi a rilanciare periodicamente i gravi problemi delle carceri italiane segnalati da associazioni come Antigone. Eppure parlare di abolizionismo carcerario non dovrebbe essere un tabù, visto che se ne discute da decenni in tutto il mondo. In Italia, tra i nomi più noti, si possono citare Luigi Manconi (uno degli autori del volume Abolire il carcere: una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini, recentemente riedito da Chiarelettere), Gherardo Colombo (autore de Il perdono responsabile. Perché il carcere non serve a nulla) e il compianto Massimo Pavarini (curatore, insieme a Livio Ferrari, di Basta dolore e odio. No prison). Leggere quello che scrivono vuol dire venire inchiodati a una cruda verità: il carcere, eccettuate pochissime esperienze d’avanguardia (come quella milanese di Bollate), fallisce completamente nel dare attuazione al comma 3 dell’art. 27 della Costituzione, secondo il quale «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».

Nella realtà dei fatti stare in prigione significa invece andare incontro, quasi certamente, a problemi di salute mentale, senza poter ricevere cure adeguate; significa vivere in una promiscuità soffocante (nonostante i reati siano in calo da anni), all’interno di un mondo fatto di violenza, discriminazione, isolamento, solitudine e insicurezza; significa essere esclusi da relazioni sociali e, conseguentemente, dall’opportunità di maturare senso di responsabilità e autocontrollo; significa avere molte più probabilità di togliersi la vita (tema che coinvolge in percentuali considerevoli anche i membri della polizia penitenziaria); significa penetrare ancora di più nell’illegalità, aumentare le proprie idee di odio ed affinare la propria predisposizione delinquenziale (solo un terzo dei detenuti, una volta scarcerato, non finisce dentro di nuovo). E, tra l’altro, è molto più facile cadere in questa spirale se si appartiene alle fasce culturalmente, socialmente ed economicamente più deboli della società: poveri, disoccupati, tossicodipendenti, stranieri, persone con un basso livello di istruzione.

Come spesso succede, a rendere evidente tutto ciò, più che dati e statistiche, sono le storie di singoli detenuti, con tutta la loro forza dirompente. Soprattutto se queste storie vengono raccolte da chi ha grandi capacità di ascolto. Ed è esattamente quello che è successo con la vicenda di Lorenzo S., raccontata in un bellissimo podcast in 14 puntate curato da Mauro Pescio.
In “Io ero il milanese” ascoltiamo la viva voce di Lorenzo che, sollecitato dalle domande di Pescio, ripercorre tutta la sua vita, a partire dall’infanzia vissuta a Milano con la madre (mentre il padre scontava dieci anni di reclusione) e dal successivo trasferimento a Catania, dove matura la decisione di dedicarsi alla delinquenza. Una delinquenza lontana dalla criminalità organizzata e tutta dedita ad una sola specialità: le rapine in banca. Lorenzo inizia giovanissimo e già a 14 anni entra in quello che sarà il luogo in cui trascorrerà la maggior parte della sua esistenza: il carcere. Di fatto, negli anni successivi, conoscerà la libertà solo per periodi di pochi mesi; e quando è fuori il suo unico pensiero è sempre lo stesso: trovare banche da rapinare, riempirsi di soldi, spendere tutto in vestiti, macchine, night e ristoranti. Lorenzo sa che il rischio di essere di nuovo arrestato è sempre dietro l’angolo, e cerca di vivere i momenti di libertà al massimo della velocità.

E in tutto questo la prigione che ruolo ha avuto? Lorenzo impara presto la dura legge delle relazioni carcerarie, sposandone in pieno le regole non scritte. Approfitta inoltre dei consigli dei detenuti più esperti per migliorare le proprie capacità di rapinatore. E cerca anche di farsi passare per tossicodipendente o di comportarsi come detenuto modello al solo scopo di ottenere una detenzione più blanda e di costruirsi in questo modo un’eventuale opportunità di fuga. In breve, per parecchi anni il carcere non riesce minimamente ad intaccare la dura corazza che Lorenzo si è costruito né ad instillargli l’idea che una vita oltre alla delinquenza è possibile. Come potrebbe, d’altra parte, un luogo programmaticamente chiuso alla società riuscire a riattivare una messa in discussione da parte delle persone recluse?

Il protagonista di questa storia è molto onesto con sé stesso: pur essendo cresciuto in un contesto familiare e ambientale fatto di criminalità ed emarginazione sociale, non cerca scuse. Il fatto di aver voluto intraprendere la carriera di rapinatore –dice­– è stata solo ed esclusivamente una sua scelta. Eppure se avesse incontrato prima le persone giuste, se avesse conosciuto un altro modello di detenzione, probabilmente la sua giovinezza sarebbe stata un’altra. A 35 anni Lorenzo si ritrova infatti nella Casa di reclusione di Padova, dove opera la redazione di Ristretti Orizzonti, il periodico ideato e diretto da Ornella Favero e fatto dai prigionieri. La collaborazione col giornale rappresenta per lui uno snodo decisivo, così come fondamentale sarà la possibilità di iniziare a porsi davvero delle domande durante i confronti con gli studenti organizzati all’interno del carcere dalla stessa Favero. È la svolta: è da qui che inizia il cambiamento interiore di Lorenzo, un mutamento che i suoi famigliari disprezzano, accusandolo di essere un traditore.

Grazie ad altri incontri fortunati, come quello con un avvocato che, in maniera del tutto volontaria, si interessa del suo caso, a Lorenzo viene concessa la possibilità di una seconda vita. Un giudice accoglie infatti la richiesta di revisione delle sue vicende processuali e Lorenzo, che originariamente avrebbe dovuto scontare più di vent’anni di galera (senza poter accedere, ancora per molti anni, a nessun tipo di permesso), viene inaspettatamente scarcerato.
Alla gioia per la libertà riacquistata segue però ben presto il disorientamento nel ritrovarsi in un mondo a cui si era del tutto disabituato. Pur venendo accolto nella casa di una volontaria con cui, negli anni, aveva stretto una relazione affettiva, Lorenzo è terrorizzato: le finestre senza sbarre così come i contatti con gli estranei lo gettano nel panico, spingendolo a desiderare di ritornare in cella. Al disagio di continuare a portare lo stigma del delinquente si associa l’ansia di dover ricominciare da zero e un fortissimo senso di emarginazione sociale (diretta conseguenza dei tanti anni trascorsi nel chiuso di una prigione).

La storia di Lorenzo ha un lieto fine: l’ex rapinatore riesce a ricostruirsi una nuova identità, formandosi come mediatore penale e diventando responsabile di un centro specializzato in giustizia riparativa. Ma non andrebbe dimenticato che ciò è potuto avvenire, oltre che grazie ad una grandissima determinazione, solo perché ha avuto la fortuna di imbattersi in persone che hanno portato dentro al carcere una prospettiva completamente diversa, non prevista dalle istituzioni. E allora domandiamoci: quante storie di redenzione potrebbero essere raccontate se l’attuale sistema carcerario venisse interamente ripensato e fosse davvero finalizzato a favorire un percorso di rieducazione? Che cosa accadrebbe se chi ha infranto la legge, e magari pure provocato grosse sofferenze, non venisse completamente tagliato fuori dalla società e potesse invece ricevere una seconda possibilità? Come ha scritto Gherardo Colombo, «Fare male (pur nell’esercizio della funzione autoritativa della risposta alla trasgressione) non può che insegnare, irrimediabilmente, a fare male: non si può insegnare a non uccidere uccidendo; non si può insegnare a non privare gli altri della libertà togliendola»[1]. Di quante altre prove abbiamo ancora bisogno per capire tutti gli effetti negativi delle pene detentive?

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[1] G. Colombo, Il perdono responsabile. Perché il carcere non serve a nulla, Milano, Ponte alle Grazie, 2020, p. 61.

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ornella tajani
ornella tajani
Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di studi di traduzione e di letteratura francese del XX secolo. È autrice dei libri Tradurre il pastiche (Mucchi, 2018) e Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS, 2021). Ha tradotto, fra vari autori, le Opere di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato i volumi: Il battello ebbro (Mucchi, 2019); L'aquila a due teste di Jean Cocteau (Marchese 2011 - premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012); Tiresia di Marcel Jouhandeau (Marchese 2013). Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
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