Rimostranze folli

di Venceslav Soroczynski

Patrick McGrath, Follia, Adelphi, 1996

Già al primo rigo, ho provato un moto di rivolta: “Le storie d’amore catastrofiche contraddistinte da ossessione sessuale sono un mio interesse professionale ormai da molti anni”. Ora, ditemi voi se questo è modo – non dico di scrivere – di vivere e di pensare. Forse, sono eccentrico io, ma, per quanto mi riguarda: 1) tutte le storie d’amore sono catastrofiche; 2) tutte le storie d’amore sono contraddistinte da ossessione sessuale.

È come dire che l’interesse professionale di un cuoco è il fatto che la pasta si butti quando l’acqua bolle! Le storie d’amore “a norma”, secondo lui, quali sono? Quelle che finiscono bene? Quelle che non provocano una catastrofe nell’io, nella relazione, nelle relazioni, sulla capacità di percezione della realtà, sul senso del tempo e dello spazio? Quelle senza sesso? Quelle in cui non si freme, brama, trema per un contatto fisico con l’altro? Mi chiamate sul diretto, quando ne trovate una?

Il nostro narratore, però, ne fa l’oggetto di un interesse professionale! Ma non possiamo mica prendercela con l’autore, perché nell’incipit c’è la voce narrante, che è il protagonista. Ma il protagonista è una figura disegnata dall’Autore, quindi non posso che rivolgermi a McGrath.

Il primo rigo, dicevo: dopo averlo letto, in testa mi rimbalzava solo la domanda: devo proprio andare avanti? Non è meglio che io legga il manualetto “Costruisci la tua casa sull’albero” che, per un protocollo di pronto-soccorso-letterario, tengo sempre sul comodino? E, invece, ho continuato a leggere. E, detto fra noi, la rivolta è stata sedata e ho dimenticato presto l’incipit: l’insofferenza per la dichiarazione iniziale si è sciolta in un insieme di sensazioni che somigliavano molto a quelle che mi diede L’amante di lady Chatterley. Anzi – ma potrei sbagliare, perché ho letto Lawrence che ero un ragazzino – direi che Follia è un Chatterley con più danno e più dolore. Insomma, nonostante l’handicap costituito dall’essere un quasi psichiatra inglese, e nonostante un certo attacco, il nostro Patrick è riuscito a mettere sul fuoco una storia che diventa subito una cosa seria.

Devo dire due parole anche all’editore. Non fa onore al testo il risvolto della edizione in mio possesso (maggio 1998), il cui epilogo è, a parer mio, fuorviante: sembra un’affannata esca per lettori di gialli, gente che apre ogni libro con la missione di trovare il colpevole. Lettori intelligenti nel dettaglio e ignari della visione d’insieme. “Qualcosa ci avverte che i conti non tornano, e che l’inevitabile, scandalosa e beffarda verità sarà molto diversa da quella che eravamo stati costretti a immaginare”. Così termina la seconda di copertina. Ma questo non è un giallo! Non è un thriller, non è un sentimentale e non è neanche uno psicologico in senso stretto. E neppure il sesso c’entra, anche se Patrick cerca di farcelo credere, cercando di amplificare l’effetto collaterale di un’erezione: durante una festa, la protagonista femminile viene invitata a ballare dal protagonista maschile, il quale le si stringe tanto da farle sentire, a lungo e sfrontatamente, il proprio sesso contro il di lei ventre. Dopo quell’episodio, lei perderebbe la testa. Questo dovrebbe pensare il lettore.

E, invece, no: se contestualizziamo, ci immedesimiamo, disegniamo le figure con i margini e poi le coloriamo, scopriamo alcune cose. Anzitutto, che la lei è moglie di uno psichiatra; il lui è un uxoricida rinchiuso, ma è anche uno scultore; il luogo è quello di reclusione: l’ospedale psichiatrico dove il marito di lei esercita e la sua famiglia vive. Una comunità, un insieme di persone che si vedono spesso, si riconoscono, si parlano, un gruppo di umani che è costretto a vivere nello stesso recinto. Ora, può essere che le attenzioni del marito di Stella verso di lei fossero diminuite (ecco, forse, perché egli parla di ossessione sessuale: vede la pulsione sessuale come ossessione), può anche essere che Edgar le strofinasse il proprio sesso sulla pancia solo con l’obiettivo finale di fuggire dal manicomio, ma il nucleo è un altro. Anzi, sono due (a ben pensarci, forse sono tre).

Il primo è che l’attrazione fra i due non è ammessa dal “gruppo” nel quale vivono. Nella comunità umana formata dai medici, dalle loro famiglie, dal personale di servizio e dagli utenti. La relazione è la condotta illecita, come si direbbe in un manuale di diritto penale. È ciò che non sta bene, è ciò che non si deve fare. Se il divieto implica l’amore o il piacere o tutt’e due, succede il disastro. La catastrofe, appunto.

Che diventa inarrestabile quando lei si è innamora. E questo è il secondo punto. Di lui, Edgar, non si capisce: forse sì, forse no. Ma lei, Stella, sì: si innamora e perde i riferimenti. Non sa più cosa è opportuno e cosa no. E a quali fini. E in base a quali valori. Non conta più niente altro, per lei. Si innamora di un uomo che ha ucciso la propria moglie un un accesso di gelosia. Ma Stella si è innamorata, lo capite? Vi è mai successo? Capivate qualcosa del mondo e di voi e dell’altro? Alla povera Stella è successo questo. La lucidità se ne va e lei fa cose incontrollabili e che, nella sua condizione, sono pericolosissime. Qualcuno conosce una definizione alternativa dell’amore?

E poi c’è il terzo punto. Ma qui dobbiamo andarci piano, perché non è un argomento per tutti: Stella aveva un destino, un programma imposto dalle scelte fatte, insomma, una vita. Tutto sembrava deciso: un marito il cui ruolo è più importante del suo, un figlio per il quale tutto si deve sacrificare, una colazione, un pranzo, una cena, un cenone da preparare. Moltiplicati per tutti gli anni a venire. Per tutta la vita che resta. Insomma, un destino. Nel quale – non si sa se perché è un destino, o se perché era il suo destino – non sembravano poterci essere altri brividi, emozioni, scosse, rischi, eccessi, eccitazioni, pericoli. E invece arriva questo brivido, questa emozione, questa scossa, questo rischio, questo eccesso, questa eccitazione, questo pericolo, questo divieto rappresentato da Edgar. Un uomo altro, che le fa intravedere la possibilità di una vita altra, o di uno scorcio di vita altra. E, dunque, Stella non si ritira: rischia. E punta tutto ciò che ha.

Sulla trama, non vi dico nient’altro. Leggetevele anche voi queste trecento pagine, non posso fare tutto io. Ma sappiate che, a un certo punto, il romanzo ha la mano pesante, è emotivamente malvagio. Dovete saperlo, soprattutto se avete figli. Io ve l’ho detto: non vi lamentate, dopo.

Chiusa l’ultima pagina, provo compassione per tutti i suoi personaggi (nonché per il genere umano in blocco, come stipato in un container che viaggia per i mari senza oblò e non si accorge che, da un momento all’altro, può precipitare giù dal ponte e non immagina che le pareti si apriranno e finirà sbranato da squali e che lo squalo che divorerà ognuno di noi ha il nostro stesso volto), poiché nessuno ha vinto. Tutti i personaggi hanno dimostrato che la vita non è una passeggiata sul lungomare. Per nessuno. È una bastonata che piomba all’improvviso appena usciti da una madre e, nel suo corso, seguono altre bastonate. Da piccini, da ragazzi, da adulti. Fino alla morte. Solo che qualcuno le prende sul petto, qualcun altro sulla faccia.

Dopo aver letto Follia e aver vissuto qualche decennio, invidio i lupi sulle montagne, o i coccodrilli nel fango denso, a sapermi uomo esposto alle maledizioni interiori. Alla curiosità. Allo sprezzo del pericolo. A quel veleno senza ricetta che è l’amore. A quella debolezza senza tempo che è l’essere uomini. All’avere un corpo. Al pensare. Alla maledetta coscienza. Alla maledetta veglia. All’inconveniente di essere nati, disse Cioran.

Non badate a tutto quello che dice l’Autore, né l’editore. Fanno finta di non capire, tutti e due. Non leggete il risvolto, non leggete la vita di McGrath. Non leggete niente su Follia. Leggete Follia. È un libro sull’impossibilità di essere felici, né amando, né rinunciando, né partecipando, né stando a guardare, né facendo i malati, né facendo i dottori. Un romanzo sull’abisso. E sulla cosa che, più di tutte, ci porta sul suo orlo.

 

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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