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L’estate di Sophie: “Aftersun” di Charlotte Wells

 

 

di Daniele Ruini

Time present and time past
Are both perhaps present in time future,
And time future contained in time past.
If all time is eternally present
All time is unredeemable.
(T.S. Eliot, Burnt Norton, Four Quartets)

 

Forse non c’è bisogno di scomodare T.S. Eliot per parlare del primo lungometraggio di Charlotte Wells, Aftersun, disponibile da gennaio sulla piattaforma MUBI e uscito in alcune sale italiane. È stata tuttavia la stessa regista scozzese a citare un passaggio del primo dei Quattro quartetti in calce a una nota pubblicata sul sito della casa di produzione A24 che ha distribuito il film negli Stati Uniti. La meditazione di Eliot sul tempo ben si accorda infatti con la riflessione sulla permanenza del passato nel presente rappresentata in Aftersun: il film si interroga su che cosa significa rivivere (e rivedere) la propria infanzia, a maggior ragione quando si tratta di rielaborare un evento doloroso come il distacco dalla figura genitoriale.

Accolto positivamente alla Semaine de la critique di Cannes 2022, Aftersun è un piccolo gioiello: un’opera malinconica e intensa, capace di trasmettere in maniera indelebile le emozioni attraverso le quali passa il rapporto tra una bambina e il suo giovane padre durante una vacanza estiva. Alla fine degli anni ’90 il trentenne Calum (Paul Mescal), separato e con una situazione economica instabile, porta la figlia undicenne Sophie (Frankie Corio) a trascorrere una vacanza in un modesto resort turco frequentato da famiglie britanniche. Le loro giornate trascorrono tra piscina, immersioni, biliardo e improbabili spettacoli musicali; ma è proprio dietro la banale quotidianità che risiede il nucleo profondo della storia qui raccontata, ovvero tutte le luci e le ombre di una relazione tra una bambina che inizia ad essere attratta dal mondo degli adolescenti e un giovane uomo molto protettivo verso la figlia (come evocato dal doposole del titolo che gli vediamo più volte spalmare sulla faccia della piccola) ma che chiaramente fatica a sopportare il peso della genitorialità.

Come in alcuni film di Eric Rohmer, anche in Aftersun il tempo sospeso dell’estate funziona come spazio in grado di condensare tutta un’esistenza; al posto del continuo bavardage dei personaggi rohmeriani troviamo però qui molti silenzi, soprattutto quelli di Calum, oppresso da un senso di fallimento e da bilanci esistenziali insoddisfacenti. In alcuni momenti il film sembra addirittura evocare la possibile sparizione nel mare di questo giovane papà: un modo per suggerire ciò che –da quanto si intuisce– accadrà presto, ovvero che le strade di Calum e di Sophie saranno destinate a separarsi per sempre. A disagio in mezzo agli altri e attratto dalle profondità marine, Calum cerca di placare i propri tormenti attingendo alla sapienza orientale: la pratica del Tai Chi, per la quale è preso in giro dalla figlia, così come la lettura di libri sulla meditazione sono i suoi mezzi per cercare una pace interiore che gli sfugge. Non a caso rimane incantato dagli intarsi di un costoso tappeto turco che finirà per acquistare.

Allo smarrimento di Calum corrisponde il disincanto ironico della figlia, anche lei tuttavia non immune da note di malinconia. Questo sentimento è, nel caso di Sophie, amplificato dal duplice sguardo di cui è portatrice: man mano che il film procede capiamo infatti che la storia è filtrata dal punto di vista di una Sophie trentenne che, visionando i filmati girati con una telecamera portatile durante quella vacanza, ritorna a quell’estate di vent’anni prima. Se i maggiori momenti di vuoto di Calum accadevano in assenza della figlia (o quando lei dormiva), riguardando le scenette –per lo più buffe– riprese all’epoca Sophie cerca probabilmente di cogliere quei segni di malessere del padre di cui allora non poteva accorgersi. E possiamo immaginare che è ora a sé stessa che sta rivolgendo la domanda con cui il film si apre: «Quando avevi 11 anni, cosa pensavi che avresti fatto ora?».

Mettendo in scena l’elaborazione di una perdita (del padre ma anche della propria infanzia), Aftersun indaga cosa c’è di vero nei nostri ricordi e in che modo il passato continua a vivere in noi alimentando ed influenzando la percezione che abbiamo di noi stessi e degli altri. A tale riguardo è interessante che nella camera da letto di Sophie adulta si ritrovi quello stesso tappeto turco comprato dal padre; è un dettaglio significativo: sia perché, come gli era stato detto dal negoziante, ogni tappeto racchiude una storia diversa; sia perché tale acquisto era stato evidentemente un gesto avventato da parte di Calum, al quale la figlia aveva rinfacciato di prometterle sempre cose che non poteva permettersi. La trama di questo tappeto diventa allora metafora di un legame che risale il corso del tempo, se è vero, per citare ancora Eliot, che «solo attraverso il tempo si conquista il tempo» (Only through time time is conquered).

Grazie ai suoi magnifici attori e a una regia ispirata, l’opera prima di Charlotte Wells lascia il segno; e mostrando spessissimo i personaggi nell’atto a guardare (talvolta non visti), sembra invitare gli spettatori a fare altrettanto e a entrare pienamente dentro il film: ed è un invito che si accetta con grande piacere.

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Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di studi di traduzione e di letteratura francese del XX secolo. È autrice dei libri Tradurre il pastiche (Mucchi, 2018) e Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS, 2021). Ha tradotto, fra vari autori, le Opere di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato i volumi: Il battello ebbro (Mucchi, 2019); L'aquila a due teste di Jean Cocteau (Marchese 2011 - premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012); Tiresia di Marcel Jouhandeau (Marchese 2013). Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
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