Metro quadrato
di Giulio Spagnol
Se c’è una cosa che amo fare di notte, da quando lo spazio ha cominciato a restringersi, è infilare la faccia tra i seni di Justine. Ficcarmi in quello spazio come un aereo abbattuto nel suo hangar e tremare davanti a quello che mi aspetta. Le stringhe e le cravatte, l’alito Marlboro Gold del mio capo, i muscoli tesi del levriero accucciato sotto la sua scrivania. Il ragazzino che suona il violino in metropolitana indossa un paio di scarpe a strappo equipaggiate con luci e suoni, il cartello che ha appeso al collo è scritto male, c’è scritto ho fame vi prego aiudademi. Le riunioni su Zoom, lo smegma burocratico che si accumula in ogni intercapedine cerebrale, il filo interdentale mentolato espandibile, l’ematoma di unto sulle pareti del microonde in ufficio. Tutti piccoli inciampi quotidiani che – va detto – mi sono cercato, che rientrano nella clausola stipulata con la provvidenza, in difesa della vita che sto costruendo con Justine, e che quindi sono disposto a tollerare. O almeno lo ero. Bene. Che senso ha tutto questo, se adesso riesco a malapena a sfiorarle le labbra?
Il primo attacco fu mentre mi lavavo i denti, prima di andare al lavoro. Justine era già uscita. Alzavo il braccio dal lavandino e niente: arrivato più o meno all’altezza della spalla sbattevo contro una superficie curva e liscia. Provai a picchiettarci sopra: non registrai il tipico «toc» da nocche VS finestra; questo era più ovattato, più il rumore che fa una moneta quando cade sopra un tappeto. Seguii la superficie con il palmo della mano: mi curvava sopra le spalle e cominciava a restringersi all’altezza del mento e sopra la testa diventava così stretta da lasciare giusto lo spazio per infilarci un pugno; superata la testa la curvatura si chiudeva, scendendo verso terra. Scalciai e picchiettai in tutte le direzioni, mi accucciai e misurai il diametro della circonferenza a terra: più o meno quattro Adidas e mezza – io porto il quarantaquattro. Tentai di trapassarmi il palmo della mano con un dito, quando sogni puoi farlo. L’indice si piegò sulla linea della vita, a parte quello, niente. Mi rannicchiai i posizione fetale, la testa piegata sullo sterno, le ginocchia raccolte tra le mani: l’unica posizione concessami, oltre allo stare in piedi, così mi verrà un mal di schiena in tre, due, uno. Dopo dieci minuti buoni di picchettamenti, lasciai perdere. Senza volerlo mi addormentai – sognai uno spazio di Hilbert, una prateria ortogonale bianca e verde, piastrellata da cellette Excel. Mi svegliò la vibrazione del cellulare sul tavolino da caffè, era Justine. Voleva sapere dove diavolo mi fossi cacciato. Lei sta a sole cinque fermate dal mio ufficio. Siccome la sera lavoriamo sempre fino a tardi, cerchiamo di vederci in pausa pranzo. Senza neanche accorgermene, mi alzai e risposi. Come lo spazio si era ristretto, così mi aveva rilasciato. Il telefono del lavoro non ebbi neanche il coraggio di controllarlo, sicuro che si fosse fuso dal numero di mail e messaggi, o che mi sarebbe esploso in mano, mutilandomi.
E dire che le cose non andavano male per niente. In ufficio, il mese scorso, è arrivato il risultato delle mie analisi sull’amigdala di tre macachi (mi hanno assunto per questo). Ho fatto una elegante presentazione PowerPoint: asterischi, modelli lineari, distribuzioni a campana. Tutto in carattere Garamond giustificato al centro: un vezzo, questo, che mi porto dietro dagli anni del dottorato. A quanto pare, il canale ionico che ho messo a punto per la nuova crema brevettata del Nocciolone bum-bum ha un sito di legame in più per l’acetilcolina rispetto al precedente. Questa piccola alterazione della subunità proteica, del tutto irrilevante da un punto di vista strutturale, conferisce una caratteristica atipica ai nostri prodotti: li rende irresistibili. E “con nostri prodotti” intendo tutti. Dai Malandrini Latini, ai Cioccopeccati-Capitali, dai Noccioloni Ghiandolari, agli Sbrodoloni al Maraschino. E con “irresistibili” non dico per modo di dire. No. Non nel senso mamma che buoni non riesco a smettere che dicono i bambini rosa nelle pubblicità. N-o. “Irresistibili” nell’accezione letterale del termine. Mi ricordo di aver fatto una pausa per far sedimentare la neve in quelle teste a palla di vetro del board. Segue un brusio elettrico. Sento i loro neuroni metabolizzare le informazioni, sincronizzati su frequenze altissime; nella boscaglia cerebrale, le arterie pompano sangue ossigenato e glucosio: un brusio neurale, rumore grigio, un alveare che si prepara alla guerra con un’arnia vicina. Poi cala il silenzio. Il mio capo è il primo a parlare. Sbiascica qualcosa del tipo «fammi capire, ci stai dicendo che…» Proprio così, lo interrompo, sto proprio dicendo così. I nostri nocciolati sono sul punto di diventare universali come il tabagismo, compulsivi come la masturbazione e lo shopping. Stanno per essere ovunque e per sempre. Finché ci saranno mandibole, finché ci saranno i consumi e le economie di scala. Capillari come le nevrosi, le fantasticherie romantiche, i video su TikTok e il senso di colpa. Sì. Ingollane uno e sei spacciato. Kaputt. Trafitto da una scarica elettrica. Non potrai far altro che sbafarti la scatola in piedi, inchiodato al suolo, o in posizione fetale, rannicchiato sul tappetto mentre ti lecchi via la crema dalle unghie. Divorerai una confezione dopo l’altra. Sviterai tutti i barattoli nella dispensa. Infilerai una tuta spugnosa e ti precipiterai alla Lidl a comprarne sei scatole; te ne scorpaccerai una nel parcheggio con il motore acceso. E così via, andrai avanti così, in teoria per sempre, in pratica finché la tua ragazza o tua moglie non ti prenderà a sberle. Allora (forse) ti fermerai per un giorno o due. Per poi ricominciare. E se vivi da solo? Be’, se vivi da solo, allora tanti auguri: ti fermerai quando ti verrà la gastrite, o una colite ulcerosa. Tutte le bocche davanti a me si spalancano abbastanza da poterci nidificare dentro. La mia rivelazione impatta il board sotto forma di onda e di particella. Trafigge le menti e le spazza via. Gli amministratori delegati cominciano a radiare un alone dorato. Il presidente per poco non si strozza; il sigaro gli cade in una tazza con stampato sopra una battuta sul weekend. Il mio capo fluttua fuori dalla stanza – il sorriso è postcoitale. Solo un avvocatuccio in un angolo, mezzo ammuffito e con gli occhi tuorlacei, rimane impassibile; bisbiglia in un orecchio a qualcuno che, forse, sarebbe il caso di mettere un bollino di avvertimento, tipo quelli sui pacchetti di sigarette o sui farmaci dopanti, sul nandrolone. Viene sommerso di fischi: gli dicono di stare zitto; gli danno del pollo agglutinato, pasta scotta, vecchio coglione. Le agenzie di neuromarketing sono così; non un posto per chi ha le coronarie di vetro o una coscienza paffuta. Vengo trascinato fuori di peso, sommerso da pacche sulle spalle, fatto girare sulla sedia e avvolto nella carta igienica. Il giorno dopo mi arriva una mail: mi comunica un discreto aumento.
Per festeggiare, ho portato Justine al ristorante. Justine sfiletta lo sgombro come un cardiochirurgo: con i denti della forchetta estrae una lisca alla volta e la impila al bordo del piatto. Non approva il mio lavoro: troppo caotico, sostiene; sempre sulla scorza del blackout nervoso. Bombardato da remainders, calendari elettronici, brief, concept, strategy, payoff, head, sub-head, visuals, key-visual, videochiamate e pause caffè, sigarette, scrolling e masturbazione al gabinetto: impulsi audiovisivi senza massa né attrito che attraversano la corteccia al piccolo trotto, in cerchio e per ore. Sa pure che è per lei che ho accettato tutto questo, anche se no lo ammetterà mai.
Per lei non è così. Da quando ci siamo trasferiti, tiene un corso di panificazione Vajrayāna al carcere di Bollate-Boringhieri, alle porte di Milano. Un’azienda privata – che da poco si occupa anche di concentramento e detenzione –, un carcere nuovo. Con sedili dei water termoregolabili e sbarre anti-rosicchiamento in lega di carbonio e antibiotici. Lì, ogni mattina dalle 11 alle 13 e ogni pomeriggio dalle 15 alle 17, Justine insegna a patibolari in pigiama azzurro panificazione e meditazione analitica: pratiche a rapida retribuzione karmica. Lì, vicino alla lavanderia, in uno stanzone lungo e stretto come una bara, su tavoloni in legno illuminati da stretti tubi contenenti gas neon a bassa pressione e piegati a forma di infinito, insegna a cospargere ben bene il legno con la farina, a trattare l’impasto con delicatezza, a coccolarlo, come se fosse un cucciolotto, come se dovessero ricomporre tutti i crani che hanno fracassato con delle pinzette di cristallo. Mentre impastano, lei passa tra i banchi, dà buffetti a mascelle squadrate, incoraggia, sistema grembiuli e cuffiette. Soprattutto, insegna le posizioni e i gesti fondamentali. Con delicatezza, sfiora le dita tatuate dei patibolari e le intreccia nei gesti di protezione, della luce o del dono. Bisbiglia nei loro lobi mantra di guarigione; l’impasto lieviterà più facilmente, la ruota del dharma e della redenzione verrà messa in moto. Con voce materna, sussurra che devono trovare il coraggio di perdonarsi, che in sanscrito il concetto di senso di colpa non esiste nemmeno. Esistono solo aggregati materiali: aggregati di carne, di carbonio e di microplastiche, organici e inorganici, che sbattono e si aggrovigliano e si respingono uno con l’altro senza che noi ci possiamo fare un bel niente; di neuroni che radiano attività elettrica a frequenze medio-alte, più che altro alpha e gamma, che a loro volta radiano pensiero, fenomeni, immagini, odori, puzze, menta piperita, roba immateriale. Come lo fanno? Non si sa. Questa poltiglia elettrica, questo fumo azzurrognolo, siamo noi: coscienza. Dopo tre anni da traduttrice diplomatica e un master in psicoterapia rigenerativa Tantra Yoga, Justine, la mia ragazza, la persona per cui mi butterei su una pira per seguirla nell’altro mondo, è giunta alla conclusione che la nostra coscienza assomiglia vagamente al fumo di una Merit bianca slim. Davanti a una dose così condensata di realtà, i suoi carcerati di solito scoppiano a piangere. I suoi centauri, scippatori, assassini, strozzini, trafficanti, malfattori, matricidi, satiri, stupratori e tagliagole si sciolgono in vagiti e singhiozzi. È il momento tanto attesto. Justine lo chiama la “faglia nel ghiacciaio”, il segno che la terapia sta funzionando. È il momento di insistere. Da bravo vigile del fuoco, si prende un bestione tra le braccia e lo culla come un gattino alluvionato. Lui le lacrima sul petto: delicati cristalli di sale le si formano sul colletto della polo. Tutti gli altri carcerati smettono di impastare e scoppiano in un applauso sincopato. È un bel momento per tutti.
Io, comunque, a queste cose non ci credo granché, anche se – lo ammetto –, da quando ha mollato la carriera diplomatica, ha cambiato faccia. La pelle intorno alle labbra e sotto agli occhi si è fatta più luminosa, ha perso peso. Quando torna a casa e le tuffo le labbra tra i capelli, questi sanno di lievito madre e sapone di Marsiglia. La mattina mangia tre biscotti integrali e medita su un tappetino verde a forma di banconota da cento euro, arrotolata e in fiamme. È per distaccarsi meglio, dice. Io le dico che prima o poi si annoierà. Lei risponde che l’unico modo che ha trovato per essere felice è di ridurre il mondo a una pratica; non importa quale, basta che, mentre lo fai, fai solo quello. Imbrigliare il brusio di fondo in una matassa, filarlo, ridurlo a una fibra trasparente da legarsi al dito. Leggere un libro, friggere un uovo, praticare una fellatio: tutto per lei ha lo stesso peso e lo affronta con la stessa serietà. La felicità su questa terra? Se sfiletti uno sgombro, sfiletti uno sgombro. Tutto qui.
Il cameriere viene a rifornirci di panini al latte. Ha lo sguardo bovino, da zombie, da chi abusa di Vicodin; nel taschino della livrea riconosco una nostra barretta di Mentolone Salivone sgranocchiata a metà e tutta sbavata. Justine sfiletta. Lei sfiletta e io parlo. Lei spolpa e io inveisco. Lei disossa e io cerco di chiarire alcuni punti. La crema tartufata sui miei tagliolini è diventata una pellicola elastica e gommosa. Inveisco per punti. Tipo: questa epidemia di glucosio, questa nube zuccherata che sta per svuotarsi la vescica su di noi: sarà una catastrofe. Rigirerà ben bene il coltello nelle piaghe sociali. Come la mettiamo con l’adipe, i trapianti, l’obesità infantile, il deficit di attenzione, la sanità pubblica bullizzata dalle assicurazioni, il diabete mellito? E le carie ai molari? I maggiori esportatori di barbabietola da zucchero sono Brasile, Bolivia, Thailandia. Sarà ancora lecito chiamarlo “progresso”, se gli unici a beneficarne saranno gli igienisti dentali e i produttori di insulina? Insomma, e concludo, la vedo nera, piena di complicazioni, magagne. Mi sento in parte responsabile. Certo. Justine inarca un sopracciglio, con spirito garbato da archeologo osserva una lisca in controluce.
Scappo alla toilette; ho bisogno di acqua, aria, una sigaretta: tutte e tre le cose, possibilmente insieme; anche una andrebbe bene. Evito la scena Martin Scorsese, quella del gangster con il collettone a cui affiorano i primi rimorsi, quello che si prende a schiaffetti virili davanti allo specchio. Faccio per chiudermi in bagno, svitare il rilevatore e fumarmi una sigaretta, quando – sdeng! – sbatto il naso contro la cupola. Questa volta è più spaziosa: più o meno la circonferenza di un tubo in plastica espansa di un parco acquatico. Tasto la superficie: è fredda e liscia come una flûte di Champagne. Da qualche parte ho letto di una specie di mini-polipetto. Di quelli che vivono sul pavimento oceanico, a decine di chilometri di profondità. Quelli coi nomi che finiscono quasi tutti in -gaster, con gli occhietti gelidi morti e cattivi. Insomma, pare che uno di questi aborti gelatinosi vaghi per gli infiniti volumi oceanici disponendo solo di un minuscolo cervello, un pugnetto di gangli. E pare che, non appena trovi una roccia a cui ancorarsi, come prima cosa la digerisca, regredendo di fatto a vegetale. Tutto questo, ora, chiuso in questa gabbia, mi fa capire che presto impazzirò. Il nostro cervello, in fondo, si è sviluppato solo per farci muovere. Makes sense. Respiro a fatica, l’aria nella cupola è viziata, sotto-ossigenata. Se alla carenza di ossigeno si aggiunge un arricchimento di gas inerti (azoto, argon, elio), l’uomo passa dallo stato di inefficienza a quello di semi-incoscienza, poi allo svenimento e quindi alla morte. È stato bello, adiós. Goccioline di condensa mi piovono sul naso. Mi rannicchio sulle piastrelle del bagno, nel metro quadrato che mi è concesso. Sento che presto il cuore esploderà come una stella di neutroni. Buddha e Justine dicono che, per controllare la mente, prima devi controllare il corpo. Facile, se hai il sedere sotto un banano, o su un tappetino da yoga in microfibra di acacia. Sento un attacco di panico grande così affacciarsi alla valvola dell’esofago. Per seguirla ho rinunciato alla tenure track alla Columbia. Non è per niente banale. Provateci voi a dire “no” al Dean di neurophysiology della Columbia. Un fuscello di uomo, fistoloso e glabro, dal cranio fibulare e un completo color fuliggine. Provateci voi a mandare giù un Katz’s Pastrami Sandwich da 25.95$, schiarirvi la gola e dire «grazie Eitan, ma credo che l’accademia non faccia per me». A un premio Nobel dell’Upper West, uno con una targhetta d’oro imbullonata in una lastra di marmo alla Rockefeller Foundation. Justine era intern alle Nazioni Unite, passava le giornate al Palazzo di vetro, in un cubicolo di compensato con la moquette rosso vinaccia e l’aria condizionata. Seguiva il delegato francese in tutti i suoi meeting, prendeva appunti in Tailleur Hermès, su blocchi gialli in A4; appunti che nessuno avrebbe mai letto, che il giorno dopo sarebbero stati archiviati in un armadio a muro, o dimenticati su qualche scrivania, o gettati in un sacco nero da una messicana di Flatbush emersa dall’R Train, con una catenina d’oro e la voce di un predicatore nelle cuffiette di plastica. Io, nel frattempo, squartavo topi al dipartimento di neurofisiologia dell’NYU, a tre blocchi da lei. Li scalottavo e infilavo nel loro cervellino fili sottilissimi di argento e di tungsteno, elettrodi; li imbullonavo vivi a un tavolo ammortizzato ad aria compressa; li bombardavo di luci e di suoni; registravo impulsi elettrici, frequenze, campi magnetici, flussi ionici; programmavo i codici e analizzavo terabyte di dati neurali. Per nottate intere, nutrendomi solo di bagel, di cream cheese e salmone, di pollo e riso giallo halal a cinque dollari, solo al computer, rap italiano nelle cuffie – Club Dogo, Joe Cassano, vecchia scuola per malinconici stronzi, roba così. Il mio capo, un immigrato giordano tarchiato, peso welter, medaglia d’argento alle olimpiadi panarabiche, prodigio dell’optogenetica, diceva che avevo un buon intuito, che avrei potuto fare grandi scoperte. «Big stuff», diceva; roba tipo i geni che regolano l’autismo o una nuova classe di interneuroni. Forse, chissà. Finivo sempre tardi. Justine non faceva che aspettarmi: sotto l’orologio a Grand Central, al Sophie’s Cuban Cuisine davanti all’ospedale, alla lavanderia a gettoni la domenica mattina, mentre dormivo rannicchiato e vestito su un materasso sbattuto per terra nel mio monolocale. Prima di conoscerla, non sentivo l’esigenza di un letto vero e proprio: mi sembrava una perdita di tempo e comunque ero quasi sempre in laboratorio, a casa ci tornavo solo per dormire. La prima sera che venne a dormire da me, morivo dall’imbarazzo. Cominciai ad agitarmi già sul Queensboro Bridge, a dondolarmi sul sedile del taxi. Pensai a tutti gli insettini della notte che sarebbero usciti da ogni angolo strisciando le antenne; che si sarebbero arrampicati sul materasso ammuffito, con le lenzuola ingiallite, spermose; ai grumi di polvere vomitati un po’ dappertutto; alle piastrelle della vasca incrostate di capelli e pellicine; alle mutandine afflosciate accanto al ventilatore; stingere i suoi seni arrossati, sfiniti, nell’odore del gas e delle patate marce in frigo, un amplesso atteso e insperato, tra i calzini spaiati gettati sulla sedia, nella luce vitrea, fino al mattino. Lei non fece una piega. Come quando una sera le rovesciai due margarita ghiacciati nella borsa, uno dopo l’altro; come quando, sotto la doccia, le feci venire un infarto con lo stereo e la Goa Trance; come quando una notte, dopo appena due mesi, le venni dentro senza dire niente. È che a un certo punto il cervello di uno dei due fa click e di colpo lo sai. Come la fede, come una figura geometrica: sai che farai di tutto per far funzionare la cosa; lo senti, come gli elefanti che sanno dove andare a morire. Che tutto il sangue e il plasma reclutabili saranno trasfusi in questa storia, in questo nuovo apparato circolatorio: groviglio di arterie, ibrido, mostro di Frankenstein alimentato da due cuori. Sai che ci dilapiderai sopra ogni particella di ATP, ogni neurotrasmettitore che hai in corpo, pregando che anche l’altro faccia la sua parte e ti incontri a metà strada, o almeno a una mezz’oretta dall’arrivo. A me è successo un sabato notte, vicino a casa, davanti a un camioncino di fajitas sulla 43rd St e 34th Ave – combinazione, questa, che mandava sempre in tilt i tassisti – all’uscita della metro di Steinway, Astoria, Queens, New York, America del Nord, mentre Justine, con la bocca piena di cubetti di pollo, mi allungava un tubo di senape color senape.
La porta si apre e io mi sento sollevare per un braccio: è il cameriere dallo sguardo tonnato, entrato per salvarmi, o per farsi una riga, o per sgranocchiare di nascosto un’altra barretta di Gommosetti Adenoidali, fa lo stesso. L’importante è che infrange la cupola. A dire il vero ci cammina proprio attraverso e mi tira su. «Tutto bene, signore? È scivolato sulle piastrelle?». Bofonchio un ringraziamento e torno al tavolo. I collant elettrostatici di Justine mi sfiorano la caviglia in un sibilo elettrico. Mi chiede se va tutto bene e io le rispondo di sì. Mi guardo intorno. Il brusio nel ristorante è ovattato. Quel tipo di lusso architettato per darti l’illusione che la morte possa essere efficacemente mandata a farsi fottere; un’eleganza troppo ovattata per pensare che il nulla sia davvero un’ipotesi credibile, qualcosa per cui valga la pena di preoccuparsi. Il centrotavola è luminoso. La tovaglia è candida, di un bianco fosforescente, eterno. La pila di lische sul piatto di Justine è a forma di totem.
Dall’attacco al ristorante ne seguono altri, notturni. Di colpo mi sveglio e a malapena riesco a muovere la testa o le dita. Passo le ore a roteare le pupille in senso orario, a dare una forma alla libreria, ai vestiti sulla sedia, al cassettone: volumi scuri e scontornati che si scompongono su uno sfondo limbo. Proiettate sulla parete in fondo al cranio, scorrono in post-produzione le immagini della corteccia visiva. Immagini ad alta definizione; montate in ordine semi-random: prigioni, bare, scatolette di tonno minuscole, pareti unte viscide e ripide. Sintagmi minimi. Roba tipo: piccolo, fragile, destinato a morire, solo.
Sento i seni di Justine alzarsi regolarmente nel letto di fianco. Da qualche settimana non dormiamo più insieme. Dice che non capisce cosa sta succedendo, che non parlo, che se non può fidarsi di me allor… Insomma, le solite cose. Penso al giorno in cui gli attacchi svaniranno. Al giorno in cui li sentirò di nuovo, tiepidi, sfiorarmi la guancia.
Se non fosse successo di nuovo, avrei stretto ti denti. Avrei continuato così: trincerato nel mio mutismo, nei “sono bloccato nel traffico, cominciate pure senza di me”. Se la settimana scorsa non mi fossero venuti cinque attacchi in cinque giorni consecutivi sarei stato zitto. Se ieri non mi fossi immobilizzato proprio in mezzo alla porta a vetri della Coop creando una viscosa girandola di insulti, di signore in pelliccia, di buste della spesa gialle in plastica, strabordanti di dolci e dolcetti, di Goccioloni Mascalzoni e Alì Babà, sarei andato avanti così; se le guardie giurate dopo svariati “mi scusi, signore” non mi avessero caricato di peso e scaricato dolcemente – come una madre che ti mette a letto – sul marciapiede, nella fessura tra una Polo e una Panda, mi sarei ostinato a non dire nulla. Se Justine non si fosse precipitata, se non mi avesse caricato su un taxi e inondato di lacrime e di insulti, se quella sera non fosse andata a dormire da un’amica, me lo sarei tenuto per me. Steso sul marciapiede, tra le cartacce dorate, mentre il cappotto si imbeveva di rivoli salivari, le nuvole caliginose si squarciarono. Pensai logicamente che tutto fosse illogico. La rigorosa conseguenza fu una targa d’ottone in via Serrano, anzi no, scusate, in via Plinio. Un medico che mi auscultò la schiena e il torace mi fece fare aaaaahh e ooohhhh, mi picchettò tutto come uno xilofono e fece un gioco di parole scontato sul mio nome. Mi mise a sedere e mi chiese «allora senta, mi dice lei cosa c’è che non va?». Gli spiegai che in quel preciso istante mi sentivo bene, e che prima avrei dovuto aspettare un attacco. Che purtroppo erano alquanto imprevedibili. Provai a mimargli il problema rannicchiandomi sul lettino. Come per venirmi incontro, il medico cominciò a pizzicare l’aria intorno a me con fare divertito. «Dunque, vediamo… le fa male qui? Oppure quassù?». Gli dissi che non c’era niente da ridere. Per tutta risposta mi girò su un fianco e, strisciando uno stecco sulla pianta del piede, evocò i miei riflessi cutanei plantari; cercava risposte anomale: segni di Babinski, lesioni al tratto corticospinale.
Oggi Justine se ne è andata. Così, all’improvviso e senza dire granché. È appena salita in camera, ha svuotato metà dell’armadio e sventrato i cassetti. Io ero seduto sul bordo del letto e mi infilavo i calzini. Mi stavo giusto chiedendo se fosse il caso di chiamare la sua amica per avere notizie. Ha accumulato calze, mutandine, gonne, leggings da aerobica e maglioni in due piramidi cangianti. Ha infilato il tutto in tre sacchi neri della spazzatura. Il materassino da yoga e le campane tibetane, che non ci stavano, sono stati presi e poco spiritualmente lanciati giù dalle scale. Le campane sui gradini hanno fatto deng deneg deeeeng trtrtrtrtrtrrrrr. Ha anche pronunciato parole che adesso non mi ricordo bene. Niente di nuovo, comunque: c’entrava con l’incomunicabilità, la delusione, la paura dell’abbandono. Non mi ha mai guardato negli occhi. Avrei voluto correrle dietro, precipitarmi giù dalle scale e afferrarla per i fianchi come Bogart, o per i capelli, come nei nostri amplessi, o inciampare e inglobarla nel mio turbine ruzzolatorio, come Paperino; effettuare una morbida planata da ultraleggero e atterrare sul tappeto e sulle sue labbra. Ma non riuscivo a muovermi. La cappa, stavolta, aveva assunto la forma esatta del mio corpo e vi aderiva sopra come a un Cristo velato. Non riuscii nemmeno a muovere le labbra per dire “aspetta!”. Avrei voluto inseguirla per le strade, correrle dietro in uno di quei pomeriggi grandiosi e cupi, tipici di Milano: banchi di nebbia che vanno e vengono tra le strade e i tetti della città sciogliendosi in fili di bava, fragranti come l’odore di cucina, che prendono in bocca i comignoli in una morbida fellatio a cielo aperto. Nelle varie stazioni della metro, dei bus e dei treni, un esercito di zombie in tessuti tecnici si trascina per la città con il passo pesante dei carcerati, rosicchia torroni, barrette e bon-bon; si litiga chiavi di zucchero e nuvole di cioccolato; si accapiglia per vermi elastici, caramelle-uovo, alla banana e al melone, ingoia pugni di orsetti gommosi, rotelle di liquirizia e spaghetti frizzanti. Sui palazzi sono apparse scritte e graffiti color rosso amarena: IL POPOLO DELLA BIOSINTESI NON PUÒ ESSERE SCONFITTO. Una folla di sonnambuli che ciondola per le strade e le piazze. Che entra ed esce dai negozi e dai bar, abbacinata dal sonno e dal glucosio. Che fa lo slalom tra il grigio dei piccioni e il bianco latte degli sputi sui marciapiedi. Che si muove in centro tra sacchi dell’immondizia impilati come torri medievali, lungo stradine secondarie che sfociano in arterie intasate di traffico, muovendosi in branco, a flussi compatti o alternati. Il tutto sovrastato dall’ immensa nube gassosa. Quella nebbia. Quella nebbia che si infila in tutti gli interstizi, in tutti i buchi più neri, negli sfinteri dei camini e nelle fessure dei tombini. Che è molto di più. Molto di più che una flatulenza industriale. Ma un organismo pulsante; una lingua che non ne ha mai abbastanza; un sogno febbricitante, che non fa altro che leccare, salivare, e spandersi sulla pelle della città – forse l’ultima avvisaglia della sera che incombe. O un mandala che sboccia nella mente e per me, a letto, nel mio involucro di domopak. Significa riposo. Riposo e consolazione.
( n.b.: modificato su richiesta dell’autore il 9/9/23)