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Tintoretto: l’agire dell’immagine

di Giulia Pigliapoco

È solo quando si riconosce vita a tutto ciò che si dà storia, e che non è solo lo scenario di essa, che si rende giustizia al concetto di vita[1].                                                                                                                                            

La vita si può intendere come creazione artistica data dal circostante. La vita è un’opera d’arte nella quale le immagini che si creano da essa sono formule di comprensione della vita stessa. Bisogna saper aprire gli occhi o chiuderli bene su tutto quello che passa, su tutto quello che c’è, che è, per poter far venire in sé le considerazioni, gli spostamenti, per esporsi, esporre. La storia dell’arte, scrive G. Didi. Huberman, è «un sapere poetico, rigorosamente e archeologicamente costruito…L’occhio s’apre per avvicinarsi alle immagini, per cogliere meglio (per analizzarle, per capirle). Ma, colto, preso in cambio da esse, l’occhio si chiude per un po’, per sentire le loro sovrane fantasticherie»[2].

Essere presi in cambio dalle immagini richiama il corpo a posizionarsi in uno spazio altro dello stare, in uno spazio guardingo e partecipe, cosciente di sé e della specificità della rappresentazione.

Saper guardare un’immagine significa indagare e interrogare il suo fondo, il dietro e il nascosto, quello che è avvenuto prima. È solo con questo tipo di attenzione che l’immagine diviene così un atto, un’azione performativa, un veicolo di significati, di strumenti di potere, un’espressione di una precisa cultura, una richiesta di desiderio, una nostalgia, una rappresentazione teatrale.

Nell’immagine l’uomo è il visitatore stupito per eccellenza del mondo perché essa è linguaggio, forma di comunicazione, espressione trasformativa capace di attivare e di informare in movimento la dimensione interiore, intima e rivelatrice di sé, e di trasportare l’osservatore, spettatore in uno stato altro.

Uno dei pittori che è riuscito ad indagare l’invisto dell’immagine portando a vista la sua essenza, il suo processo di creazione è Tintoretto. È riuscito a trasporre il suo sguardo attento del circostante attraverso il mezzo della pittura, creando così dei gesti, dei simboli, delle sensazioni. Attraverso la sua conoscenza del teatro, della musica, del suo sguardo, è riuscito con i suoi dipinti a realizzare veri spettacoli teatrali. Pham Van Khanb scrive ne Theatricality in Tintoretto’s religious painting che l’artista ha inventato delle «messe in scena energetiche che inducono lo spettatore a percepire l’immagine come reale. Attraverso tale illusione teatrale costruita ad arte, Tintoretto non solo ricrea una visione per il suo pubblico, ma soprattutto trasmette la profondità della sua esperienza spirituale»[3].

Lavorando per le compagnie della Calze, Tintoretto aveva appreso la metodologia dello scenografo. Attraverso la costruzione di figure di creta o cera che collocava in una scatola-palcoscenico di legno o cartone faceva diventare i suoi dipinti vere illusioni teatrali. Tintoretto sembra fare un patto con tutte le cose, con il circostante. Dipingendo quasi sempre all’interno della città di Venezia, nei suoi dipinti ne vediamo l’influenza. Si è catapultati nella città, nella sua architettura, nelle sue cerimonie, nei suoi riti, nella sua musica, nel suo fascino per l’estetica teatrale. I suoi dipinti sono animati dal processo, da quell’arte di combinare il tutto, il possibile, dalla tensione interna di cui è partecipe il mondo.                          Gilles Deleuze ne L’esausto scrive che «a definire l’immagine non è il suo contenuto sublime, ma la forma, cioè la “tensione interna”, la forza mobilitata per fare il vuoto o aprire il fuori, sciogliere la morsa delle parole, asciugare il trasudamento delle voci, per liberarsi dalla memoria e dalla ragione, piccola immagine logica, amnesica, quasi afasica, ora sospesa nel vuoto, ora fremente nell’aperto. L’immagine non è un oggetto, ma un “processo”»[4].

Sembra che Tintoretto osservasse tutto il mondo visibile che lo circondava, studiando e analizzando le posture, le sfumature, le incrinature, le spazialità, le temporalità intrecciando l’invisibile con il visibile, incarnando l’etereo all’interno del corporeo. La pittura appartiene all’arte del vedere. La tela è lo spazio immaginifico dove avviene l’azione, dove i personaggi si muovono, parlano, interagiscono con ciò che è altro da loro. Fatti di pennellate di colore fanno a battaglia per emergere, urlare, significare. Attraverso la visione, si viaggia nel tempo e nello spazio, nel passato e nel futuro, nell’aperto. Saper stare nella morte dell’immagine, nel suo possibile, nel qualcosa di visto significa misurarsi con l’incommensurabile, con ciò che eccede i fini, rapportarsi con l’esistenza e con il suo eccesso. Nell’immagine c’è la destinazione dell’uomo che non fa altro che «non andare da nessuna parte ma spostarsi sul posto in questo luogo di ogni aver luogo in cui viviamo insieme alla totalità degli esistenti, spostarsi lungo – o intorno a, nei paraggi di –  questa tensione»[5].

Nell’immagine, dunque, è la tensione del corpo che comanda. La sua creazione continua non è altro che la rimessa in gioco del gioco stesso che cerca sempre un aver luogo, uno spostarsi incessante, un rapporto e uno scambio continuo con l’aperto.

Il mio corpo è fatto della medesima carne del mondo (è un percepito), e che, inoltre, di questa carne del mio corpo è partecipe il mondo, esso la riflette…il mio corpo non è soltanto un percepito fra i percepiti, è misurante di tutti.[6]

Il corpo è obbligato a trovarsi nel contatto con l’aperto, che siamo noi stessi, che è il linguaggio, che è il mondo. Il corpo è pregnante di vita, di linguaggio e di pensiero. «Nel corpo» scrive Rubina Giorgi «si riverberano tutte le vibrazioni, impressioni, figure di ciò che vive e accade»[7].

Tintoretto sembra essersi misurato con l’aperto riuscendo a trasportare le sue sensazioni, emozioni,  impressioni e pensieri nella pittura.

Nel 1564-66 l’artista viene incaricato di decorare la sala delle riunioni della Scuola Grande di San Rocco con episodi del ciclo della passione di Cristo. Tintoretto è riuscito a vedere il prima dell’immagine studiando e analizzando attentamente i movimenti, i gesti, le posture provocando vere emozioni agli spettatori.

«Tintoretto ha esteso la sua ambientazione al regno dello spettatore che sembra condividere lo stesso spazio pittorico e quindi partecipare attivamente all’evento spirituale…Si ha l’impressione che il palcoscenico invada l’ambiente degli spettatori e li circondi da tutte le parti. In questo modo viene sofferta l’esperienza di entrare fisicamente nel quadro. Tintoretto ha ricreato una visione per il pubblico, ha tradotto la sceneggiatura dell’opera in termini visivi»[8].

Si può considerare il quadro come un dispositivo performativo? Esiste un’analogia tra corpi dipinti, figurati e corpi vissuti? Il dipinto crea una separazione con il circostante o è insito in esso? Si può parlare dell’immagine come un secondo mondo? Si può parlare di evento attraverso l’osservazione di un  dipinto?

Erika Fischer-Lichte ne L’estetica del performativo, indaga la svolta performativa come un processo che coinvolge la nozione stessa di arte e che si può trovare nelle azioni o nei lavori di artisti che approdano a discipline e metodologie differenti. Negli anni sessanta anche il teatro ebbe una spinta performativa e non venne più concepito come rappresentazione di un mondo immaginativo che doveva essere osservato e interpretato dallo spettatore, ma attraverso la produzione di un rapporto tra attore e spettatore. «Il teatro si costituiva perché avveniva qualcosa tra spettatore e attore»[9].                                     Considerati come veri spettacoli teatrali, i dipinti di Tintoretto, dunque, creano un evento dove il fruitore negozia, attraverso il dipinto, le relazioni che si innescano tra soggetto e oggetto. Lo spettatore, dunque, non è indifferente alla vista. Max Herrmann, fondatore della scienza del teatro berlinese, scrive che «nell’esperienza estetica dello spettacolo “la cosa più importante dal punto di vista teatrale” sia “co-esperire il corpo reale e lo spazio reale”. L’attività dello spettatore non è concepita come un’attività della fantasia e dell’immaginazione, come si potrebbe forse pensare a una prima e superficiale lettura, quanto come un processo corporeo»[10].

Attraverso alcuni interrogativi si cerca di analizzare la drammaturgia interna in due dipinti di Tintoretto del 1583-1587 conservati nella Sala Terrena della Scuola Grande di San Rocco a Venezia. Attraverso l’analisi dei due dipinti: Santa Maria Egiziaca e Santa Maria Maddalena, molto simili nelle dimensioni e composizioni, si tenta di scoprirne gli eventi, le analogie e le differenze. Solo con un occhio attento si possono scorgere le diverse tonalità dei colori, le varie funzioni della luce, le disposizioni dei corpi e le loro posture, la danza come movimento incarnato del sapere, i diversi tempi sospesi o dinamici insiti nell’immagine.

Santa Maria Maddalena  1583-1587

Santa Maria Maddalena detta anche Maria di Magdala, è stata, secondo il Nuovo Testamento, una importante seguace di Gesù. Tra le poche a poter assistere alla crocifissione, secondo alcuni vangeli divenne la prima testimone oculare e la prima annunciatrice dell’avvenuta resurrezione. La figura di Maria Maddalena è stata anche identificata con altre figure di donna presenti nei Vangeli: donna peccatrice e adultera. Nel Pistis Sophia, vangelo gnostico, si parla di Maria Maddalena come simbolo della Conoscenza (gnosi) e rappresenta dunque, l’incarnazione umana di Sophia e, come tale, la sposa e la controparte femminile di Cristo: «sei la più beata di tutte le donne della terra, poiché tu sarai la pienezza di tutte le pienezze e il compimento di tutti i compimenti»[11].

 

Santa Maria Egiziaca 1583-1587

 

Santa Maria Egiziaca è stata monaca e eremita, venerata come santa patrona delle prostitute pentite dalla Chiesa Cattolica, Ortodossa e Copta. Nasce nel 244 ad Alessandria d’Egitto e fugge dalla propria casa all’età di dodici anni, abbandonandosi ad una vita dissoluta. All’età di ventinove anni incontra ad Alessandria un gruppo di pellegrini che stavano partendo per Gerusalemme e, spinta dal desiderio di lasciare l’Egitto per visitare nuove terre, s’imbarca con loro, seducendoli uno dopo l’altro. Da quel momento Maria Egiziaca inizierà un lungo cammino di penitenza per il deserto. Il suo errare solitario durerà 47 anni, durante i quali si nutrirà solo con l’erba che troverà nel suo cammino.

Bisogna considerare il quadro come una specie di teatro: si apre il sipario e noi guardiamo[12].

È in questa prospettiva che si devono guardare i dipinti di Tintoretto. In Santa Maria Maddalena e Santa Maria Egiziaca, si può notare il passaggio che avviene dalla visione alla contemplazione. I dipinti iscrivono in se stessi la propria teoria, si presentano già teoricamente per rappresentare qualcosa. Trovandoci difronte ai due dipinti il primo focus va al corpo del fruitore che già nell’atto di osservare, di stare in un determinato spazio, ambiente sonoro, lo esperisce o meglio si esperisce, sentendosi dall’interno, sentendo il circostante. È in questa maniera che si è toccati da tutte le cose, che si può andare in altri luoghi rimanendo apparentemente fermi. Lo spazio che intercorre tra l’osservatore e il dipinto è già immagine, luogo altro, corpo in movimento già in trasfigurazione, in azione per assorbire l’esperienza dell’abitare, comunione di atmosfere fisiche-spaziali-temporali. Pavel Florenskij in Lo spazio e il tempo nell’arte, scrive che «quella parte di spazio che un corpo occuperebbe in un certo luogo non differisce da quella che occuperebbe in un altro…lo spazio intorno a un certo corpo è lo stesso dello spazio intorno a questo stesso corpo, spostato in un altro luogo»[13]. Tutto diviene adiacente al corpo e lì, quando si è agiti, inizia l’immagine. Saper interrogare cosa avviene nel mezzo permette di avvicinarsi al tutto, permette di modellare lo spazio, noi, il tempo. Saper stare sempre in vicinanza, saper toccare con lo sguardo per non vedere tutto ciò che è evidente, ma lo scarto, il nascosto.

Uno degli elementi evidenti nei dipinti di Tintoretto è la luce. La luce è uno strumento prezioso sia per il teatro che per la pittura. Sappiamo quanto la distribuzione dell’illuminazione nello spazio pittorico può accrescere l’intensità drammatica nella scena. Sappiamo anche che Tintoretto è riuscito attraverso essa, a rappresentare il mistero sacro, con l’intento di dimostrare che «il legame immediato tra l’uomo e dio è in realtà un’esperienza spirituale accessibile a tutti attraverso la fede e l’amore di Dio»[14]. La luce come veicolo di rivelazione, restituisce forma concreta al pensiero astratto attraverso la pittura, mostrando le emozioni che sono capaci di portare l’evento sacro alla comprensione di tutti, riducendo il divario tra spazio reale e fittizio. Ma la luce nei suoi dipinti non è soltanto questo, non è solo evidenza, rivelazione e simbolo. La luce comanda lo sguardo, crea percorsi, delimitazioni, ci obbliga a stare e percepire. In Santa Maria Maddalena la luce è corpo, è presenza del e nell’ambiente. Due sono i punti focali di illuminazione: uno proviene dalla terra, dalle radici, illuminando la Santa che rivolta allo spettatore è intenta a leggere; l’altro proviene dal cielo illuminando l’albero che sembra acquisire le sembianze di un corpo danzante. La luce nel primo caso incarna la figura della Santa e del suo pensiero, divenendo così scrittura, conoscenza. Sdraiata a terra ma in tensione, come noi, Maria Maddalena è nel luogo dell’altrove. Si racconta, si legge, si ascolta in uno spazio assorto, di comprensione, di interrogazione come quello del pensiero, che non è altro che il suo spazio e il nostro spazio. Nel secondo caso l’albero si mostra come corpo danzante che per volontà della luce si pone come essere presente equivalente alla presenza della Santa. L’albero, la figura principale o per lo meno la più imponente nel quadro sembra voler chiedere pietà, sembra urlarle con le braccia alzate al cielo, la sua esistenza al mondo in una danza sfrenata come a dire io esisto.

In Santa Maria Egiziaca la luce ci fa sentire e comprendere la totalità dello spazio, dell’ambiente e forse del luogo. La luce in questo caso è incarnata nei dettagli che compongono i corpi, le cose, la natura. Le pennellate luminose sono azioni, già prossime alla percezione sensoriale. È in queste pennellate, in questi corpi materici, in questi dettagli, che si aprono delle fessure che sfuggono al primo sguardo. Il paesino che attraverso la luce si scorge da lontano non è forse quello da cui la Santa è fuggita? È Alessandria? O Gerusalemme dove andrà con i pellegrini? Al contrario di Maria Maddalena, Maria Egiziaca è rivolta di spalle allo spettatore, sempre con un libro in mano. Non è attenta ad esso, ma posto sulle ginocchia essa sembra essere attratta dal lontano, dal luogo da raggiungere, luogo della sua memoria. È una luce, questa, che pone l’attenzione al suo status di santa, alla sua vita, alle sue avventure attraverso l’aureola che diventa il primo punto visivo d’attrazione del dipinto. È una luce, questa, contemplativa, che indaga sul sé, sull’ambiente, sui suoi patimenti e pentimenti.

Ond’è che ogni sognatore, pensatore e artista è un danzatore; compreso anche colui il quale non conosce sino in  fondo il suo essere intimo, come colui il quale mediante la ponderazione tradurre in azione i suoi moti. È danza ogni moto, ogni azione, movimento, ogni avvenimento. Ogni atteggiamento esistente è il prodotto armonico di un procedimento di danza[15].

È così che Aurel Millos, danzatore, coreografo e regista ungherese, parla della danza nel libro Coreosofia. Scritti sulla danza. La coreosofia è la disciplina che si occupa della danza dal punto di vista morale, cercando di analizzare le apparizioni e le manifestazioni della danza nell’intera vita umana. Un altro aspetto interessante che in questi due dipinti di Tintoretto si può interrogare e leggere è la danza, nel senso più ampio del termine. Tintoretto è stato capace di tradurre in dinamismo il grande fenomeno del pensiero. In questo caso la danza è incarnata nel movimento del sapere. In entrambi i dipinti si può riscontrare due differenti danze del pensiero rese visibili grazie alla diversa postura dei due corpi nello spazio. Come scrive Virgilio Sieni in Danza cieca, si «danza l’arte del trasformare, dell’elaborare e restituire poeticamente materia invisibile e percepita. Si vuole dare vita a qualcosa che non è propriamente visibile, ma che prende forma nella relazione tattile dei due corpi»[16]. Si può scorgere in questi due dipinti una danza del sotterraneo, dell’invisto, del nascosto. In Maria Maddalena, la danza è data e sembra nascere dalla lettura. È una danza, questa, del riposo, una danza per se stessa, danza di resistenza alla vita, rivendicazione del sapere, incarnazione della conoscenza. Difronte ad un corpo apparentemente immobile, rilassato, ma al tempo stesso dinamico e in continuo divenire, Maria Maddalena sembra non attendere nulla, ma immersa in sé, danza l’altrove immobile della scrittura. In Maria Egiziaca possiamo vedere al contrario una danza di introiezione e di riflessione. La santa in questo caso danza il naufragio di sé nella contemplazione del paesaggio. È una danza, questa, che sembra nascere dalla sua vita, dalla sua storia. Anche in questo caso è una danza di resistenza e rivendicazione ma, di una donna che, fuggita da casa, si abbandona ad una vita dissoluta. Lei danza la sua penitenza, i suoi sensi di colpa, gli errori, i giudizi. Lo si nota da una postura in questo caso tesa, quasi severa, statica che osserva il lontano, il suo passato. È una danza questa che nasce con la sua nascita e morirà con la sua morte.

Giorgio Agamben nel libro Ninfe parla di Domenico da Piacenza, il più celebre coreografo, maestro di danza alla corte degli Sforza a Milano e a quella dei Gonzaga a Ferrara. Domenico scrisse intorno alla metà del Quattrocento il trattato: Della arte di ballare et danzare. La danza è, per Domenico, «un’operazione condotta sulla memoria, una composizione dei fantasmi in una serie temporalmente e spazialmente ordinata. Il vero luogo del danzatore non è nel corpo e nel suo movimento, bensì nell’immagine come «capo di medusa», come pausa non immobile, ma carica, insieme, di memoria e di energia dinamica. Ma ciò significa che l’essenza della Danza non è più il movimento – è il tempo»[17].

L’ultimo aspetto importante da indagare è il tempo nell’immagine. Le immagini vivono dentro di noi, si trasformano, crescono, scompaiono, mutano e ci mutano. Che funzione ha il tempo nell’immagine in relazione all’uomo che la fruisce? Esiste un tempo interno all’immagine che sia indipendente, coincidente con se stessa e che non ha bisogno di nessun sguardo esterno per essere esperita, analizzata?

«Quel che conta nell’immagine non è il suo povero contenuto, ma questa forsennata energia, catturata e pronta ad esplodere, che fa sì che le immagini non durino mai a lungo, ma si confondano con la detonazione, la combustione, la dissoluzione dell’energia condensata»[18].

Nell’immagine si può sperimentare la presenza del fuori, il suo vuoto, la sua tensione interna. Nei due dipinti in questione, il tempo crea un’apertura, una fessura che crepa l’adesso, rivelandoci una situazione di stallo, una soglia fra l’immobilità e il movimento, tra presente e passato, tra il soggetto che percepisce e i corpi raffigurati, tra il visto e l’avvento del suo significato. È sempre un oscillare tra, fra le cose. Theodor Vischer, filosofo e poeta tedesco, parla di una sospensione, «uno stato intermedio, in cui l’osservatore non crede più alla forza magico-religiosa delle immagini e, tuttavia, rimane in qualche modo legato ad esse, tenendole in sospeso fra l’icona efficace e il segno puramente concettuale»[19].

Saper stare e guardare nel mezzo, nella penombra che il tempo crea, nella parvenza. In Maria Maddalena il tempo della visione ci restituisce l’importanza del presente, del godimento della lettura, della natura che circonda la santa. Sembra esserci un tempo di permanenza, del riposo e dello stare. La santa è in un altrove dato dalla lettura. Immersi come lei nell’evento, si innesca un meccanismo di corrispondenze tra chi guarda e il guardato, tra due temporalità apparentemente diverse ma inserite nello stesso tempo, nello stesso spazio. In Maria Egiziaca sembra esserci un tempo di sospensione, apparentemente immobile ma carico in sé del frenetico. L’unico elemento che sembra dinamico è l’acqua del fiume, mentre la postura precisa, ferma, severa della santa, mette in risalto un tempo che passa e scorre soltanto nel e attraverso il suo pensiero. Un tempo che contraendosi nel corpo in un brusco arresto fa iniziare il movimento della sua memoria. È come se Maria Egiziaca si fosse fermata a pensare, riflettere, riposare, decidere le sorti della sua vita. Distanziando il libro e ponendolo sulle ginocchia, lei si concentra sul paese in lontananza, dunque sul futuro. È un tempo di resistenza e di riflessione il suo che ci porta a viaggiare con lei, a pensare la sua storia attraverso la nostra storia, per poterne parlare, per poterla riscrivere.

Saper gettare lo sguardo per cogliere ciò che nasconde l’evidenza. Saper essere uno strumento di misurazione per non coincidere con il tempo e con lo spazio. Saper stare in più attimi per toccare alcune porzioni di realtà. Pensarsi in caduta per avvicinarsi alla fioritura delle cose.

 

NOTE

[1] Cfr. W. Benjamin, in A. M. Millos, Coreosofia scritti sulla danza, a cura di S. Tomassini, ed. Leo S. Oshki, Venezia 2002, p. XXXVII.

[2] Cfr. G. D. Huberman, in S. Mei, Drammaturgie dello sguardo. Studi di iconografia dello spettacolo, ed. Edizioni di pagina,  Bari 2020, p. 10.

[3] P. V. Khanb, Theatricality in Tintoretto’s religious painting, Tesi di Laurea, Dipartimento di Storia dell’Arte, Università McGil, Montréal, marzo 1995, p. IV.

[4] G. Deleuze, L’esausto, a cura di G. Bompiani con un testo di G. Agamben, ed. nottetempo, Roma 2016, p. 31.

[5] J. L. Nancy, L’adorazione. Decostruzione del cristianesimo II, ed. Cronopio, Napoli 2012, p. 27.

[6] M. M. Ponty, L’invisibile e il visibile, a cura di M. Carbone, Edizione digitale 2014, p. 498.

[7] R. Giorgi, Alla ricerca delle nascite (lingua e mania), a cura di M.Mussio, ed. La Nuova foglio, Pollenza-Macerata 1978, p. 48.

[8] Khanb, Theatricality cit., p.34.

[9] E. F. Lichte, Estetica del performativo, a cura di T. Gusman, ed. Carocci editore, Roma 2014, p.37.

[10] Lichte, Estetica cit., p.63.

[11] S. A. Weor, Pistis sophia svelato, Primo libro, p.30.

[12] Cfr. R. Barthes in S. Mei, Drammaturgia dello sguardo. Studi di iconologia dello spettacolo, ed. Edizioni di pagina, Bari 2020, p. 94.

[13]P. Florenskij, Lo spazio e il tempo nell’arte, a cura di N. Misler, ed. Adelphi, Milano 2012, p. 30.

[14] Khanb, Theatricality cit., p. 54.

[15] Millos, Coreosofia cit., p. 65.

[16] V. Sieni, Danza cieca, a cura di D. Stella, ed. Cronopio, Napoli 2022,  p. 53.

[17] G. Agamben, Ninfe, ed. Bollati Boringhieri, Torino 2020, p.14

[18] Deleuze, L’esausto cit., p. 36.

[19] Agamben, Ninfe cit., p. 34.

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Giorgiomaria Cornelio è nato a Macerata nel 1997. E’ poeta, regista, curatore del progetto “Edizioni volatili” e redattore di “Nazione indiana”. Ha co-diretto insieme a Lucamatteo Rossi la “Trilogia dei viandanti” (2016-2020), presentata in numerosi festival cinematografici e spazi espositivi. Suoi interventi sono apparsi su «L’indiscreto», «Doppiozero», «Antinomie», «Il Tascabile Treccani» e altri. Ha pubblicato "La consegna delle braci" (Luca Sossella editore, Premio Fondazione Primoli, Premio Bologna in Lettere) e "La specie storta" (Tlon edizioni, Premio Montano, Premio Gozzano Under 30). Ha preso parte al progetto “Civitonia” (NERO Editions). Per Argolibri, ha curato "La radice dell'inchiostro. Dialoghi sulla poesia". La traduzione di Moira Egan di alcune sue poesie scelte ha vinto la RaizissDe Palchi Fellowship della Academy of American Poets. È il direttore artistico della festa “I fumi della fornace”. È laureato al Trinity College di Dublino.
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