I briganti di Vincenzo Pardini

di Mauro Baldrati

La Garfagnana era una terra selvaggia, aspra, dove regnava una miseria che agguantava la popolazione come una pestilenza. Terra difficile, storicamente infestata da briganti fuori controllo, tanto che il padrone di quelle lande, Alfonso d’Este, nel 1522 vi inviò Ludovico Ariosto come governatore, col compito di contrastare il banditismo. Tre secoli dopo non era cambiato granché. La miseria continuava a regnare sovrana, i briganti non erano certo stati sgominati e il padrone era di nuovo un duca, Carlo Ludovico di Borbone: “Non era granché affidabile. Fiacco di carattere, non teneva fede alle promesse; conservatore all’eccesso, riteneva che la paura propagata dai briganti gli avesse giovato a consolidare il potere, distogliendo l’attenzione dei sudditi su quanto avrebbe potuto fare e non aveva fatto, a vantaggio dei suoi personali interessi e svaghi” (pag. 228).

In questa situazione Vincenzo Pardini, scrittore di culto e cittadino di quelle terre, entra a gamba tesa con questo straordinario romanzo, Il valico dei briganti (Vallecchi, 2023; 18 €). Per costruire la sua storia, e dipanarla in un’avvincente narrazione con una lingua – la sua lingua, perché, come ha detto in una intervista a a Rai cultura[1], ogni storia ha la sua – che sembra evocare la durezza “dei quartieri poveri afflitti da una miseria indescrivibile, fino a morire di fame” (pag. 230), non esita a operare innesti tra reale, verosimile e inventato, passando dal romanzo di formazione al noir a una sorta di western così demitizzato da diventarlo di nuovo, al romanzo storico.

Il protagonista assoluto (che avrà una sorta di alter ego/nemico mortale, vedremo in seguito), Vlademaro Taddei, inizia da bambino la sua formazione di futuro criminale. Non c’è pietà né comprensione per l’infanzia. Si inizia a lavorare subito, per magiare. Viene consegnato a un gruppo di pastori, gente arcigna, taciturna e infida, come garzone. E’ un ragazzino sveglio, che vuole imparare, studiare, e uscire dalla sua situazione grama che, fatte salve le dovute differenze, ricorda da vicino La malora di Beppe Fenoglio. La sua silenziosa rivolta verso quella cattiveria e quella perversa povertà (verrà anche molestato da un prete) fa emergere in lui una personalità complessa e tenace. Subito sviluppa un’attrazione irresistibile per l’arte del delitto. Se vede “la cipolla d’oro”, ovvero quei massicci orologi con la catenella che gli uomini portavano legati in cintura, immediatamente brucia dal desiderio possederla, sottraendola al proprietario. Potrebbe essere una personalità indotta dallo sfruttamento, una reazione alla miseria e al privilegio di padroni e preti, ma una delle finezze di Pardini a volte sta nell’ambiguità, un nutrimento dell’immaginario, per cui potrebbe trattarsi anche del talento ancestrale di un artista del crimine. E’ una attrazione – un desiderio irresistibile, che lo accompagnerà per sempre, anche quando, messo da parte un vero e proprio tesoro, potrebbe ritirarsi a vita privata. Così, durante una commissione in una delle cittadine al seguito di un pastore, sente parlare di una ricca signora che vive in un villaggio vicino. E quando è costretto a fuggire dai suoi padroni, accusato di stupro (non consumato) per avere inseguito tre figlie di un pastore sopraggiunte mentre finalmente si lavava in un torrente, decide di passare all’azione. Dopo avere vagato nella selva, di notte si introduce nella villa, ruba denaro e preziosi, ma viene sorpreso dal figlio della donna, che prima aveva tramortito. Ed ecco la vera svolta criminale: gli affonda il coltellaccio che porta con sé nello stomaco, in una rapida, cruenta scena di violenza pura. Crede di averli uccisi entrambi, invece sono sopravvissuti. Ma l’evento crea molto stupore e turbamento, così Vladremaro prende senza esitare l’unica decisione possibile: imbarcarsi, emigrare in America, in California. Il selvaggio West.

E qui parte un innesto importante: il periodo californiano Pardini l’ha preso dai suoi zii, emigrati come Vlademaro e l’amico acquisito Jodo Cartamigli – un personaggio già oggetto di un suo romanzo pubblicato del 1998 da Rizzoli – i quali, proprio come i nostri due giovanissimi eroi, appena sbarcati vengono arruolati nei ranger, come scorte alle diligenze. Ma che far west inedito quello di Pardini. Nessun mito, nessuna epica, ma vita dura e pericolosa, proprio come in Garfagnana. Con alcune ovvie differenze: territori sconfinati e magnifici, infestati di fuorilegge come la terra natia, che attaccano le diligenze. Cavalli meravigliosi, come lo erano gli spettacolari cani Maremmani Abruzzesi, ma nessun eroe senza macchia, tutti sono compromessi, molti ranger sono in combutta coi fuorilegge. Niente coraggiosi e/o ironici pistoleri come negli spaghetti western. In un certo qual modo l’opera di Pardini evoca alcuni albi a fumetti che uscivano negli anni Sessanta, nei quali i vari supereroi Wyatt Earp o Buffalo Bill venivano deprivati dell’epica inventata di sana pianta da Hollywood. Buoni a nulla, ubriaconi, ladri e giocatori d’azzardo, Buffalo Bill un gigionesco sterminatore di bisonti, uccisi a migliaia e abbandonati a marcire, solo per affamare gli indiani. E proprio gli indiani, dai quali riceverà accoglienza dopo essere fuggito, in seguito al passaggio a una banda di fuorilegge, piantando in asso Jodo (che lo odierà a vita, per averlo tradito): niente misticismo alla Un uomo chiamato cavallo, ma durezza, sempre, fame e bastonate, prima di essere accettato. E dai quali trarrà insegnamenti che lo accompagneranno per tutta la vita.

Dopo un periodo come fuorilegge “in prova” nella banda, di nuovo Vlademaro si dà alla macchia, mentre i compari sono impegnati in una sparatoria dagli esiti incerti. Lo fa per salvarsi, ma anche per un aspetto della sua personalità: fondamentalmente è un bandito solitario, il suo modello sono le rapine individuali. L’esperienza acquisita lo ha convinto che non ci si può fidare dei complici. Sbagliano, non stanno alle regole, possono tradire. E infatti questo accadrà, nella terza parte del romanzo, quando, dopo un lungo periodo di furti, assalti e rapine, deciderà di tornare “a casa”.

Tornato a Bagni di Lucca, raggiunge i fratelli e le cognate. Sono tutti imbarazzati, forse allarmati, anche perché Jodo Cartamigli, che gli ha giurato vendetta eterna e sembra sia diventato uno spietato bounty killer, dall’America diffonde notizie sull’attività criminale di Vlademaro. Sì, perché è senza dubbio un criminale, ma un criminale onesto. Ruba, se necessario uccide senza esitare, ma non si abbandona mai a crimini come lo stupro, che invece praticheranno alcuni componenti della banda che ha fondato. Sa che è giusto rubare ai ladri, i ricchi, e i preti, che dispongono sempre di denaro, ma conserva un’etica di fondo, incorruttibile.

Ecco quindi un altro innesto: I briganti diventa romanzo storico, che segue le vicende di una banda effettivamente esistita, che operò per cinque anni, dal 1837 al 1842, capeggiata da Barbanera, o Il vecchio della montagna (nome reale Fabiano Bartolomei). Rapinavano soprattutto le parrocchie, perché, in caso di mancanza di contante, potevano sempre contare sugli arredi sacri. Pandini cambia i nomi, ma ne riporta le gesta, sovente con dovizia di particolari. Si riunivano segretamente solo in occasione della rapina, poi ognuno tornava alle proprie occupazioni. Così aveva ordinato Barbanera/Vlademaro, che a un certo punto assume questo nom de plume, e così inizia a chiamarlo il narratore.

Intanto si sposa con una ragazza timorata, con la quale il dialogo è ridotto all’essenziale. Mai un cenno sul passato americano, né sulle dicerie sulle rapine. Vlademaro Barbanera è un tipo che incute soggezione, addirittura spavento, così truce, di corporatura imponente con la folta barbaccia nera. Anche i due figli, che manderà a studiare nel più prestigioso collegio di Lucca, coi soldi delle rapine, lo evitano. Nessuno lo ama, anche perché tutti temono di essere coinvolti in un eventuale arresto, come fiancheggiatori.

Alterna il lavoro dei campi, con impegno, convivendo col lato oscuro del criminale, che spunta sempre fuori, prepotente, anche quando sembra disposto a ritirarsi, visto che i soldi non mancano. E’ la sua natura, che niente e nessuno può cambiare. E’ braccato dai Carabinieri, e poi anche dalla guardia regia, perché tutti sono sicuri che sia lui il super bandito, ma non si riesce a trovare una sola prova.

Passa una ventina d’anni, i briganti invecchiano, e finalmente un componente vende i complici, che saranno arrestati e ghigliottinati in un capitolo in cui Pardini, con mano da maestro, rappresenta fino in fondo la violenza e la crudeltà del sistema penale vigente, ma senza una sola nanoparticella di compiacimento. Barbanera riesce a sfangarla, e passa un’altra ventina d’anni alla macchia, vivendo nei boschi, dormendo nelle caverne come un selvaggio survivor. Finché un bel giorno arriva in paese un tipo misterioso, a cavallo di un grande mulo, col cappellaccio a tesa larga tipico della California, armato fino ai denti. E’ lui, il nemico giurato, Jodo Cartamigli, il killer. Deciso a trovarlo e ad ammazzarlo. Seguirà uno scontro a distanza, sfavorevole a Jodo, che è imbattibile nel duello. Ma Vlademaro lo sa, e non si avvicina mai, perché la sua qualità è di essere un cecchino. Alla fine Jodo se ne va, sconfitto, e torna in America.

Il finale è classicissimo, epico una volta tanto, ma Pardini non si siede, mai. Riesce a stupirci, a introdurre con nonchalance un affascinante colpo di scena. Diciamo pure un altro colpo da maestro.

Il valico dei briganti è un romanzo senza confini, orgoglioso e coraggioso, sorretto da una splendida scrittura materialista, indifferente a qualunque furba concessione al mainstream, che lavora come un potente motore diesel, o una grossa moto custom, e lascia un vuoto un po’ doloroso, perché sappiamo che sarà dura, durissima, trovarne un altro in grado di riempirlo.

 

[1] https://www.raicultura.it/letteratura/articoli/2023/07/Vincenzo-Pardini-Il-valico-dei-briganti-b81bfeb8-66e8-4775-b415-a169a88f844d.html

 

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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