Non ce lo meritiamo

di Gianni Biondillo

 

Nel 2017, ospite di un consesso internazionale, mi ritrovati all’Università di Tokyo ad assistere a una conferenza di Fumihiko Maki, architetto premio Pritzker nel 1993.

Maki ad un certo punto proiettò una tabella molto interessante che mostrava quali fossero le cinquanta architetture mondiali del novecento che gli studenti della Columbia University avrebbero voluto assolutamente visitare. Inevitabilmente con gli occhi andai a cercare i nomi degli architetti italiani. Pochi, molto pochi. Praticamente nessuno. C’era Renzo Piano con il Beaubourg, che, ad essere precisi condivideva il progetto con un architetto inglese, Richard Rogers. E poi a Parigi, non in Italia. Insomma, un progetto internazionalista e poco italiano, a ben vedere. C’era la casa Malaparte a Capri di Adalberto Libera, anche se la paternità a Libera è stata messa in discussione ormai da una generazione, al punto che potremmo dichiararla quasi un caso di abuso edilizio auto costruito (da uno scrittore geniale). E poi c’era la Casa del Fascio, di Giuseppe Terragni.

Insomma, un giovane architetto americano, per il suo aggiornamento culturale, se fosse passato in Italia, avrebbe fatto un pellegrinaggio non a Milano o Firenze o Roma, ma a Como.

Mi fece piacere leggere il nome di Terragni (i miei ventiquattro lettori sanno della mia passione insana per lui), ma non mi ha stupito. Giuseppe Terragni è forse l’architetto italiano del novecento più studiato al mondo. E che la Casa del Fascio fosse un capolavoro era cosa palmare fino dai tempi della sua costruzione. Ovviamente solo in Italia una pubblicistica dal vago sapore scandalistico ha fatto del nome dell’edificio un’onta da nascondere. I problemi nominalistici sembrano gli unici che interessino chi di arte nulla sappia. Chiamiamo, in effetti, Palazzo Medici-Ricciardi a Firenze un edificio dove i Ricciardi nulla hanno fatto se non comprarselo nel ‘700 e farlo diventare casa loro. Non hanno altro merito. Anche se forse anche questo è un merito. L’edificio è giunto fino a noi anche grazie alle loro cure. Analogamente potremmo discutere di come chiamare un edificio che è stato solo per nove anni al servizio di un partito e per oltre mezzo secolo sede della Guardia di finanza. Ricordo come da ragazzo sulle guide turistiche dedicate a Como l’edificio non veniva neppure messo in evidenza. Poi, negli anni, segnalato con un generico “Sede della Guardia di Finanza” e persino come “Casa Terragni” quasi fosse il palazzo nobiliare della famiglia comasca. Adesso, a quasi un secolo dalla posa del primo mattone, s’è trovata una soluzione mediana: “Ex-Casa del Fascio”. Cosa che in effetti è. Ex.

E pensare che a pochi anni dalla fine del conflitto mondiale si paventò persino di abbatterla per una operazione di speculazione edilizia. Come reagì la comunità degli architetti e degli amanti dell’arte dimostra come già all’epoca tutti sapevano che si era di fronte a un edificio imprescindibile. E l’episodio la racconta lunga su come una narrativa vittimistica di una certa cultura di estrema destra sia completamente campata in aria. Leggo ancora oggi di epurazioni, di nascondimenti, di censure nei confronti dell’arte fascista. Con un errore metodologico che dimostra come quelle lamentele siano innanzitutto ideologiche. Qui si confonde l’arte fascista con quella che si è prodotta non ostante il Fascismo. Come se Piacentini e Terragni fossero la stessa cosa. Ma se c’era un architetto che Terragni odiava dal profondo del cuore era proprio Piacentini. Non a caso Terragni non costruì mai nulla nella capitale della retorica imperiale, Roma.

Fortunatamente, gli architetti già nel primo dopoguerra sapevano ben distinguere il grano dal loglio. C’è una lettera di Franco Albini che lo testimonia con chiarezza (voglio qui ringraziare la Fondazione Albini che me l’ha fatta conoscere). Albini scrive alla sorella Maria, transfuga a Parigi da un decennio e attiva nella resistenza francese. Siamo nel settembre del 1945. Albini racconta come, finita la guerra, ci sia stato un riposizionamento da parte di quegli “inetti” (così li definisce) “che non hanno mai avuto idee per la testa” e che ora riappaiono “a dire che sono perseguitati dal fascismo e a parlare di libertà: tutti parlano di libertà, che è la libertà di fare i propri schifosi interessi.” C’è descritto molto del carattere dell’italiano medio, in questa lettera privata. Il tipico saltare sul carro del vincitore, più realisti del Re. Albini non ci sta e critica “quei tali inetti, che dicono “arte fascista” a quell’arte che è fiorita qui malgrado il fascismo, e che proprio per il suo carattere internazionale dimostra di essere universale, e per niente legata alla politica”. Albini è un architetto “di sinistra” ma non ha problemi a criticare quegli “artisti, che si dicono comunisti, e che dichiarano di fare l’ “arte comunista” che scivolano verso il contenutismo (un quadro che rappresenta Lenin è più bello di uno che rappresenta Mussolini)”. Concludendo con un esempio preciso, che cita proprio il nostro Terragni: “Bisogna battersi ancora molto nel campo critico, e chiarire che l’arte è arte per sue ragioni particolari e non perché abbia o no una destinazione politica: la casa del fascio di Terragni è arte anche se è la casa del fascio, e il grande monumento a Stalin non lo è.”

Nel 1945 l’avanguardia degli architetti italiani sapeva che Terragni era un maestro. Furono gli stessi che polemizzarono nel 1956 contro l’abbattimento della Casa del Fascio (fra questi Ernesto Nathan Rogers, ebreo perseguitato dal regime, e Lodovico Belgiojoso, sopravvissuto al campo di concentramento di Gusen). Nel 1968 il critico Bruno Zevi (ebreo e antifascista) pubblicò un “Omaggio a Terragni” che portò l’opera dell’architetto comasco nel mondo. Che Terragni fosse o non fosse fascista importava, e importa, davvero poco. La sua opera resta la più luminosa, la più poetica, del ventesimo secolo in Italia. Intere generazioni di progettisti nel mondo l’hanno studiata e approfondita, famosi architetti americani contemporanei si sono rifatti a Terragni quasi fino a plagiarlo.

Eppure l’asilo Sant’Elia, l’ultimo capolavoro di un architetto morto troppo giovane, è da ormai un lustro vuoto. I “turisti colti” di passaggio a Como (quelli a cui dovrebbe mirare un comune lungimirante) vengono per visitarlo e si ritrovano davanti a una staccionata raffazzonata e a un edificio abbandonato. Avendo io a Milano l’esempio del Marchiondi Spagliardi, capolavoro del brutalismo di Vittoriano Viganò vincolato dalla Sovrintendenza e abbandonato a se stesso da decenni, so già, purtroppo, come andrà a finire: infiltrazioni, topi, spoliazioni, scrostature, crolli.

Ci fregiamo, con un campanilismo peloso, di aver dato i natali a geni come Terragni, ma poi, nei fatti, ci disinteressiamo del loro lascito materiale. Non ce lo meritiamo Terragni, questa è la verità. Non ce lo siamo mai meritati.

(pubblicato su L’Ordine del 16 luglio 2023)

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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