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Ultramarino — di Mariette Navarro

© Ornella Tajani

 

[Questa recensione è apparsa su “Allegoria”, n. 87, qui]

di Ornella Tajani

«En attendant le bain dans la mer, à midi»: si chiude così il componimento Bonne pensée du matin, in cui Rimbaud immagina l’alba dopo il «sonno d’amore» di operai impegnati nel costruire palazzi. È un bagno che resta irrealizzato, perché nella poesia c’è solo la sua attesa: eppure questa è l’immagine che permane dopo la lettura. Insieme ad altri echi rimbaldiani, una simile visione risuona e assume concretezza in Ultramarino, primo romanzo della drammaturga Mariette Navarro, tradotto da Camilla Diez: durante una traversata transatlantica, dopo essersi lasciati le Azzorre alle spalle, i marinai chiedono alla loro capitana di fermarsi per fare un bagno in mare; lei, sempre ligia al dovere, inspiegabilmente acconsente, sebbene resti l’unica a non tuffarsi, a mantenere il controllo di «quelle tonnellate di metallo» diventate di colpo «una farfalla morta, inchiodata, magnifica» (è solo la prima delle trasfigurazioni zoomorfiche che la nave subirà). La ciurma scivola in acqua con incredibile entusiasmo, provando l’eccitazione di una rinascita nelle profondità liquide dell’«Abyssal plain», la piana abissale che comincia ai piedi della scarpata continentale: «Nessuno verrà mai a saperlo, ma loro nascono proprio in quel momento, dall’aria verso l’acqua, espulsi per scelta dalla condizione verticale e dal loro tempo. Per un istante rovesciano l’ordine delle cose, forse da qualche parte degli uccelli spiccano il volo al contrario oppure un fiume, all’improvviso, risale verso la sorgente». Questa nascita è diversa dalla prima, è «più riuscita», perché ora vengono al mondo «adulti e di loro spontanea volontà»: l’Atlantico come liquido amniotico, il mare come madre (i due termini, in francese, sono omofoni). Ma, come si diceva, l’ordine è rovesciato: all’eccitazione del bagno segue il terrore all’idea di essere rimasti soli in mezzo all’oceano; al sollievo provato quando finalmente ricompare la scialuppa di salvataggio con cui l’avventura era iniziata si contrappone la difficoltà di riportare sulla nave un mezzo emergenziale, solitamente impiegato quando dalla nave si fugge. Si percepisce un diffuso sfasamento, un dérèglement: non erano in venti quando si sono tuffati? Com’è possibile che ora, invece, siano ventuno? Tutti risalgono a bordo, la navigazione riprende, eppure qualcosa si è incrinato: la capitana ha ceduto al capriccio dei suoi sottoposti, i motori cominciano a rallentare e sfuggono al controllo, l’orizzonte si tinge di un bianco senza apparenti vie d’uscita; per giunta, in giro per i corridoi c’è un ragazzino biondo che nessuno ha mai visto e che somiglia tanto a un angelo della morte (la sua figura, per un gioco di rimandi che sarebbe piaciuto a Jean Cocteau, ricorda un po’ il più celebre ritratto di Rimbaud). Si scoprirà che la protagonista, unica donna fra uomini, senza che questo sia motivo di turbamento per alcuno o di commento, sta attraversando la densa coltre che porta alla consapevolezza di un lutto: «ci sono i vivi, i morti e quelli che vanno per mare», scrive Navarro in apertura di romanzo, ripetendolo come un mantra; tenerlo a mente è già un passo verso l’interruzione della stasi in cui il «gigantesco animale nave» sembra essersi incagliato. Ultramarino sfrutta tonalità fantastiche, oniriche; l’autrice rende molto bene il piano acustico (i cigolii metallici, i suoni acquatici) e quello visivo, orchestrando una narrazione in costante equilibrio fra il piano del reale e le rivelazioni dell’inconscio. Al di là dei richiami intertestuali da lei dichiarati – Omero, il mito di Ifigenia, Melville, Conrad –, colpisce la quantità di risonanze che il romanzo attiva nell’oceano letterario: oltre a Rimbaud, le riflessioni sulla verticalità dell’esistenza contrapposta all’orizzontalità della vita per mare richiamano alla mente versi di Sylvia Plath: «I am vertical / But I would rather be horizontal»; e l’inquieta protagonista del romanzo potrebbe dire con Anne Carson – che, nella risposta via mail a un giornalista, citava a sua volta Monica Vitti – «I can’t watch the sea for a long time or what’s happening on land doesn’t interest me anymore».

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Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di studi di traduzione e di letteratura francese del XX secolo. È autrice dei libri Tradurre il pastiche (Mucchi, 2018) e Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS, 2021). Ha tradotto, fra vari autori, le Opere di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato i volumi: Il battello ebbro (Mucchi, 2019); L'aquila a due teste di Jean Cocteau (Marchese 2011 - premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012); Tiresia di Marcel Jouhandeau (Marchese 2013). Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
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