Le diverse ragioni del silenzio. Lettera ad Andrea Inglese…

Giuseppe A. Samonà è uno scrittore che ho stimato prima di conoscere di persona, ed è oggi un amico, anche in ragione di una comune condizione di espatriati a Parigi. Ed è un amico di “Nazione Indiana”, avendo già contribuito alla vita del blog con interventi importanti. Il giovedì 19 ottobre, mi ha inviato una breve mail, dove tra l’altro scrive: “All’aeroporto di Atene, dove abbiamo fatto scalo, c’erano alcune giovanissime donne israeliane in fuga con bambini piccoli verso Parigi, mentre Gaza cominciava già a essere in fiamme: e ho pensato, chissà cosa pensa A. di questo ulteriore impazzimento dell’umanità. Fino a ieri ho lavorato come un pazzo per recuperare il ritardo, stamattina ho aperto NI e ho visto il tuo articolo. Di getto questo pomeriggio ho scritto una risposta. La lascio dormire su word, incerto se mandartela come breve articolo o lunga risposta, o non mandartela affatto, e parlarne a voce.” Prima ancora che me la inviasse e la leggessi, ho pensato che la sua riposta avrebbe potuto avere un interesse pubblico. Per due motivi. Quando ho scritto il mio pezzo del 17 ottobre percepivo – non so se a torto o ragione – uno strano silenzio, non tanto sul piano dei mass-media ma delle conversazioni private e degli scambi su social. Naturalmente il silenzio era per molti versi comprensibile, ma io penso che troppo silenzio faccia male, e veniamo tutti da un lungo silenzio sulla situazione tra Israele e i palestinesi. Il secondo motivo riguarda la possibilità d’instaurare con l’amico Giuseppe un dialogo che non è basato su una sorta di accordo preventivo o ipotetico, ma su affetti e stima personali che ci dovrebbero mettere al riparo dal peggiore dei vizi del dibattito pubblico: la tendenza a screditare la persona piuttosto che a confrontarsi, e magari dissentire, con le eventuali idee che difende. Non so ovviamente se questo dialogo porterà a qualcosa, ci aiuterà entrambi a capire meglio ciò che sta accadendo, ma forse il nostro “modo” potrebbe essere, nel migliore dei casi, un’indicazione su come uscire dal silenzio o dalla pura rabbia. Insomma, ovviamente con il suo accordo (e un titolo), ecco qua “pubblica” la lettera che mi aveva inviato Giuseppe. Andrea Inglese

di Giuseppe A. Samonà

Caro Andrea,

ho come altre volte letto con grande attenzione e interesse il tuo articolo, tanto più che il titolo individua una prospettiva che mi trova completamente d’accordo. E sento il bisogno di risponderti, su un punto in particolare, ma non so ancora, nel momento in cui inizio a scriverti, se pubblicherò questa lettera o se te la invierò in forma privata: la prima cosa che mi interpella nel tuo pezzo è infatti il silenzio che lo circonda, a parte Francesco F., con 3 (tre!) parole neutre, nessuno ha osato veramente intervenire, eppure immagino che molti, se non tutti quelli che gravitano intorno a Nazione Indiana siano come te, come me, invasi da quel che è successo e sta succedendo. Questo silenzio – parto da me, immagino che sia così anche per altri – ha sicuramente a che fare con l’impotenza, la paralisi di fronte all’orrore, la sensazione che qualunque parola risulti, di fatto, inadeguata. Ma – e parto sempre da me – questo silenzio viene da più lontano, e ha a che fare sempre con le parole: che di necessità avvicinandola semplificano la realtà, almeno dal punto di vista di chi le legge, e in una realtà come quella medio-orientale, o più precisamente israelo-palestinese, che ho imparato essere paradigmaticamente complessa, ciò rischia di farle torto. Di fronte a questa complessità le discussioni finiscono quasi sempre per ridursi in formule: “sto con gli Israeliani” / “sto con i Palestinesi”: che spazio può trovare – ma di nuovo impiego una formula semplificatoria (!), che non rende del tutto giustizia a come percepisco le cose, nella mia avversione di fondo per tutte le forme di nazionalismo – chi “sta con entrambi”, vede le ragioni (e i torti) di entrambi? Nel passato ho bruciato alcune amicizie in discussioni sterili e violente con persone dell’uno come dell’altro “io sto con…”, e ho finito con lo sposare appunto il silenzio, al di fuori di coloro di cui già conosco una sensibilità vicina alla mia. Inoltre, ed è forse il silenzio più sofferto, ci sono alcuni amici direttamente implicati, israeliani o esuli palestinesi, persone splendide e aperte, ma comprensibilmente à vif in un momento come questo, di fronte ai quali ogni parola, tanto più se pubblica, che non sia di semplice solidarietà, affetto, mi sembra di troppo, o troppo facile, monca, e dunque possibilmente blessante, e tutto vorrei oggi salvo ferire. È come se questa situazione fosse una bolla incandescente che non si riesce ad avvicinare da nessuna parte. Ma ecco, mi colpisce il senso di responsabilità, la ragionevolezza – nel senso del “ragionare”, di cui c’è tanto bisogno, al di fuori del “tifo” – con cui hai scelto di intervenire, e d’altro canto mi dico che non si può restare muti di fronte all’orrore, anche per quello che si prepara da noi (penso fra altre cose, oltre ovviamente alle tensioni comunitarie, alla stretta sull’immigrazione già in programma): la parola, il dialogo, magari proprio su punti in cui si è meno d’accordo, sono il primo, se non l’unico strumento che abbiamo. Ci provo, con te, ci sto già provando: vedrò, vedremo insieme cosa farne.

Condivido, ti dicevo, il bisogno di contestualizzazione: solo che sulla sua strada, sulla strada della narrazione, bisogna avere la pazienza, il coraggio di andare sino in fondo, perché una contestualizzazione lasciata a mezza via non funziona, anzi, acquista lo statuto di menzogna, soprattutto in quella regione del mondo, dove appunto – per chi senza pregiudizi ideologici abbia voluto studiarla – la storia dei torti e delle ragioni, degli errori, appare maledettamente intricata, complessa, e questi – mi verrebbe da aggiungere, dietro l’evidenza della ragione e del torto diciamo “originali” e sempre più attivi – ben distribuiti, aggrovigliati attraverso le due parti (e su questa “distribuzione”, su questo “groviglio”, c’è purtroppo una terribile ignoranza, soprattutto a sinistra, in alcune sue frange spesso pronta a sposare una visione manichea della questione, con una volontà di “giustizia assoluta” che la storia ci dimostra diventare inevitabilmente pericolosa, e sostanzialmente ingiusta, se non terrificante  – e anche solo questa frase, se pubblicata, mi varrà furiose rimostranze di diverse persone a me care…). In realtà è come se nella regione israelo-palestinese (come vogliamo chiamarla?) la contestualizzazione fosse infinita, e dovessimo semplicemente disporci in questa prospettiva di apprendimento continuo, aperto, prendendo atto che una soluzione “di parte” non c’è: solo il dialogo, la via della pace per tutti ha senso, è possibile – anche se oggi sembra tragicamente impossibile… Non me la sento qui, nello spazio di una risposta, di riprendere i diversi aspetti che sollevi e che, a mio avviso, andrebbero approfonditi, ma sarò lieto, se ti andrà, di parlarne a voce. Sento però di commentare, e completare, almeno una tua affermazione: “è davvero troppo pericoloso farsi guidare in un conflitto da un partito di estrema destra.”, etc. Giusto, con una precisazione, forse scontata: nel passato di Israele sono stati a volte proprio alcuni politici di destra – certo di una destra meno “estrema” e corrotta, e più pragmatica – a tentare alcuni passi verso la pace. Bisognerebbe meglio dire dunque: da questo governo di estrema destra, la destra più estrema che abbia mai governato Israele, chiazzata se non dominata dal razzismo e dal fondamentalismo religioso e territoriale, e per di più la più corrotta, cinica. La verità è che oramai il conflitto è sfuggito alla politica. Ma soprattutto, appunto, vorrei accennare a un “completamento”: questa tua giusta, magari da precisare, osservazione dev’essere applicata anche dall’altra parte. Inorridisco quando qua e là sento, nelle diverse piazze occidentali che manifestano “per la Palestina e la sua liberazione”, inneggiare a Hamas, o lo leggo su qualche blog, su qualche bacheca Facebook, magari non direttamente, ma più soavemente, semplicemente sminuendo, giustificando, relativizzando i suoi crimini (come a suggerire che certo, quelle cose là non si fanno, ma gli ebrei un poco se la sono cercata…). Quale “liberazione” può essere rappresentata da tali efferatezze? E soprattutto, politicamente, come si può, da sinistra, inneggiare a un gruppo di estrema destra (!), fanaticamente integrista, che ha combattuto e in buona parte liquidato tutto quel che c’era di sinistra e progressista nel campo palestinese? E ancor più soprattutto: l’obiettivo di Hamas non è la “liberazione” della Palestina, ma la “guerra santa” con la distruzione di Israele e la costruzione di uno stato teocratico etc. Hamas in questo senso tiene in ostaggio, oltre ad alcuni israeliani, anche l’intera sua popolazione, i cui soggetti si ritrovano doppiamente vittime: di Israele e dei propri cinici, spietati dirigenti. Certo (quispiam dixerit…), Hamas è stato inizialmente “aiutato” da alcune politiche governative israeliane proprio con lo scopo di dividere i palestinesi e indebolire la sinistra; certo, Hamas ha sfruttato lo spazio creato dal cronico fallimento della politica per la Palestina; certo, Hamas ha prosperato nella mancanza di Stato e servizi, con un insediamento di tipo caritativo ma ancor di più mafioso – e potrei continuare: ma di nuovo per capire com’è stato possibile che la più laica cultura araba della regione si sia avvitata dentro il più fanatico degli integrismi religiosi non basta guardare fuori, bisogna entrare, con pazienza, con coraggio, dentro alcuni nodi complessi della storia palestinese, e della contigua galassia arabo-musulmana. (E certo, c’è anche un significativo gioco di rispondenze fra la “destrizzazione” e la “fanatizzazione” in senso religioso delle due società che meriterebbe un’attenta analisi: sono ben più intrecciate di quel che si crede, queste due società). Ma questa è solo l’indispensabile (per me) anche se troppo breve premessa, e forse avrei invece dovuto saltarla, perché non è di politica che volevo parlare, magari lo faremo a voce – il motivo per cui ho sentito il bisogno di risponderti è un altro: è la questione umanista, prima che politica, che mi opprime, mi annoda lo stomaco, e che è importante capire, sciogliere, per poter tornare a parlare e fare politica (e solo la politica potrà costruire una soluzione, un itinerario per porre fine a questa violenza insensata), e che non trovo neanche nelle tue righe, o meglio, la trovo ma è implicita, sottotono, e deve invece essere secondo me al centro del nostro pensare: sono ovviamente, come te, come molti, sgomento, raccapricciato per quel che si sta scatenando su Gaza (e certo e va detto il governo israeliano ne è responsabile, ma anche Hamas, che proprio questo perversamente e astutamente cercava, cioè il martirio della propria popolazione da utilizzare ai propri fini: i nemici dei palestinesi sono due… – e poi andrebbe anche detto che certo, la guerra deve fermarsi, ma da ambo le parti…); ma anche ero e resto profondamente inorridito dall’attacco del 7 ottobre – e mi dà pena, mi toglie voglia persino di parlare, l’indifferenza con cui una parte della sinistra ha accolto quel massacro, che non ha nessuna possibile giustificazione: Grossman, critico implacabile di Netanyahu e della “leadership corrotta” alla testa del paese prima e dentro questa guerra, da sempre in prima fila per i diritti dei palestinesi, evoca a proposito di quel 7 ottobre il concetto di “gerarchia della malvagità”, questo fa riflettere, ci dovrebbe parlare. (Già, me ne rendo conto scrivendoti, il mio e di altri silenzio è anche una reazione all’indifferenza, a quell’altro, pubblico, selettivo silenzio…) Anch’io come te non ho suggerimenti “positivi” da dare agli israeliani, come potremmo? – ma ne ho timidamente da dare a noi stessi, ai miei amici, a sinistra, qui in Europa, in Occidente: se non siamo capaci di provare orrore e compassione a 360 gradi, se non siamo capaci di esprimerlo, separando drasticamente la “liberazione” della Palestina da Hamas, se anzi non siamo capaci di capire che certo, Hamas è nato e ha prosperato sul fertile terreno del fallimento pluridecennale di una soluzione al problema palestinese, ma che quel massacro di civili non come danni collaterali, ma proprio perché civili, proprio perché donne, proprio perché bambini (la logica genocidaria…) non è un prodotto del conflitto per la terra (questo è il punto! ), né dell’espansiva, odiosa e ingiusta occupazione, con l’aggressiva moltiplicazione delle colonie – perché, ho bisogno di dirlo? ritengo che la dominazione di Israele sui palestinesi sia odiosa, ingiusta, e debba cessare –   ma affonda le sue radici in un odio che li precede (l’occupazione, il conflitto), un odio non dettato dalla collera, ma freddo e ragionato, a priori, preparato, un odio antico, ecco, se non capiamo tutto questo, se non siamo capaci, anche, di rompere l’ignoranza, i pregiudizi che in una zona della sinistra “propalestinese” impediscono questa compassione (terribile, il “da una parte e dall’altra”, questo tifo da stadio, per quando una sinistra “pro-umanità”…?), allontanandoci da coloro che nei loro pregiudizi ci vogliono restare, perché in realtà sono anch’essi antichi e riflettono qualcosa che con la sacrosanta causa palestinese non ha nulla a che vedere, insomma, se non ci addossiamo questo compito, se non favoriamo questa comprensione, questa empatia integrale, uscendo dalla perversa logica della concorrenza dei dolori, en se renvoyant en continuation l’ascenseur come si dice in Francia, non possiamo da intellettuali, da semplici umani, batterci per la pace, per la giustizia, non possiamo rivolgerci né agli israeliani né ai palestinesi, né a tutti quelli che patiscono di questa situazione. Laggiù per altro, da una parte e dall’altra, sono comprensibilmente troppo pieni dei propri lutti, della propria paura, per poter pienamente abbracciare i lutti e i dolori degli altri: noi, più distanti, abbiamo il dovere di farlo. (E per Dio, vorrei tanto che dal campo palestinese, pur appunto nella comprensibile fase di bollente emotività e sofferenza, delle voci si elevassero forte in questa direzione, per fare chiarezza, quindi per individuare altre vie, altre guide… Mi sono a volte ritrovato a pensare che di Gandhi, o anche Mandela, ne nasce uno ogni cent’anni, e lì – sognavo – ce ne vorrebbero due, uno per parte… Ma oggi, vedendo, sentendo le capitali di molti paesi arabi esplodere di odio e di rabbia, constatando anche qui, da mille segni, l’esistenza di una diffidenza bilaterale, di un odio profondo, mentre laggiù impazzisce la spirale di guerra, mi sembra impossibile persino sognare. E nel mezzo di tutte queste urla, di questi slogan, riemerge la tentazione del silenzio, e un intimo senso di solitudine…). Ne parleremo insieme.

Ti abbraccio. G.

[19 ottobre 2023]

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4 Commenti

  1. Caro Giuseppe,
    ho capito che cosa ha senso risponderti qui, oggi, nonostante Israele abbia già scelto l’abisso della rappresaglia indiscriminata, al di fuori di ogni frontiera posta dal diritto internazionale a un’azione di guerra.

    Se anche spostassimo le date, se anche non ci fosse stato un sette ottobre prima dell’assedio e del bombardamento di Gaza, se anche il massacro di civili israeliani inermi venisse dopo questo attacco di Gaza, nulla lo renderebbe più legittimo ai miei occhi. Resterebbe un crimine di guerra in risposta a dei crimini di guerra, resterebbe un’azione basata sulla celebrazione della morte e del terrore. Certo, si puo’ capire come nasce Hamas, certo si puo’ capire perché l’estrema destra israeliana ha favorito Hamas, certo si puo’ capire la natura politica di Hamas, ma essa rappresenta per i Palestinesi da tutti i punti di vista una regressione e un allontanamento dalle prospettive di pace per le ragioni che tu stesso ricordi.
    Questo naturalmente non giustifica in nessun modo il massacro della popolazione palestinese che Israele sta oggi perpetrando.

    • Caro Andrea,
      Grazie, sai sempre avvicinare con garbata originalità le cose più difficili: sì, certo, nulla giustifica nulla, in questa tragedia. E se devo dirtelo con una parola sono, semplicemente, disperato. Disperato umanamente, innanzitutto, per i civili, la maggior parte giovanissimi, e bambini, che cadono sotto le bombe e le armi a Gaza. Disperato politicamente, perché questa guerra mi sembra se possibile rendere ancora più accesa, irreversibile, la spirale dell’odio e della vendetta. E poi disperato per la nostra impotenza, per la nostra incapacità collettiva non solo a fermare questa guerra, com’è purtroppo ovvio, ma anche semplicemente a incontrarci, a parlarci veramente, al di là di quei pochi amici intimi di cui abbiamo già misurato il pensiero e l’azione, disperato in altri termini per l’impossibilità, adesso, di trovare, di costruire un nostro luogo collettivo, di azione e di pensiero, che permetta di esprimere insieme la propria pena e la propria totale opposizione a questa guerra, alla guerra, insieme immaginando, elaborando, costruendo proposte per l’unica pace possibile, anche se oggi sembra impossibile: che non può che partire dalla fine reale dell’occupazione. Perché quel nostro luogo collettivo dovrebbe purgarsi di qualunque odio e pregiudizio, dovrebbe poter sentire ed esprimere – proprio come dici tu – che l’orrore di fronte a questa guerra, insieme alla volontà di metterci fine, non scacciano, non devono scacciare l’orrore di fronte al massacro di Hamas, insieme alla volontà di sconfiggerne la cultura di morte che lo sottende, e anche dovrebbe riflettere, ci dovremmo in particolare riflettere noi scrittori, “esperti” di parole, sulla scelta e l’uso dei termini, nella fattispecie interrogandosi per esempio (ma la lista dei termini da analizzare è lunga) sul se, come e quando impiegare “crimini di guerra” e se come e quando “crimini contro l’umanità”: non perché i primi siano in qualche modo più giustificabili, più scusabili degli altri – è osceno anche solo il pensarlo – ma perché anche il linguaggio è un’arma, e la precisione nella scelta delle parole è fondamentale per potersi parlare, capire, agire. Soprattutto, quel nostro luogo collettivo dovrebbe essere animato dal desiderio che tutti, tutti!, quelli che vivono su quella terra – che oltre ad essere “medio-orientale” è anche innanzitutto mediterranea il che ce l’avvicina ancor di più – ci possano vivere in pace e giustizia, qualunque siano le soluzioni considerate (due popoli due Stati, una Confederazione, un solo Stato per due popoli… o altre ancora che si potranno immaginare: anche se oggi tutte sembrano impossibili, e dal mio punto di vista alcune ancora più impossibili di altre). In tale direzione, questo nostro luogo collettivo dovrebbe prendere atto che questa tragedia viene da lontano, e la sua storia – che si dovrebbe conoscere, studiare – è terribilmente complessa e non può essere ridotta a slogan; o se vuoi, se proprio vogliamo “semplificare”, partiamo dalla constatazione che in quella stessa terra si confrontano due memorie contrapposte, e nessuna può, deve essere mortificata, negata, entrambe devono essere considerate; ed è solo se gli attori di una parte, come è stato detto, cercheranno di mettersi nella pelle degli attori dell’altra, che si potrà cominciare a costruire quella strada di pace, a rendere possibile quel che oggi è impossibile. Laggiù, sia pur nel naufragio presente, alcuni – sono fili oggi rari, esilissimi – continuano a provare a farlo. E qui, noi, dovremmo fare di tutto perché quella strada riprenda, quei fili si rinforzino, si moltiplichino : non per idealismo, ma perché anche se impervia, pressocché impercorribile, altra strada non c’è. Questo nostro dialogo a due, immerso nel silenzio e pieno di cautela (come anche alcune risposte disarmanti per la loro feroce e sorda chiusura ricevute in privato, insieme ad altre, sempre private, per fortuna assai confortanti) testimonia l’enorme difficoltà di intraprendere questo cammino collettivo, perché la polemica infiammata è sempre in agguato; ma ne è anche il timido, preziosissimo inizio, e te ne ringrazio di cuore.

  2. caro Giuseppe,
    ho letto e mi sono commosso, perché ho sentito la tua voce disperata. è un’impotenza che proviamo da 50 anni, e nel frattempo non possiamo più drogarci sposando in fretta una causa, mentre abbiamo accanto una effettiva incapacità sempre maggiore di mantenere vivo e quindi complesso lo sguardo, il pensiero. io oramai evito di parlarne se non con gli amici stretti. la verità è che non se ne può neanche parlare, soprattutto credo qui in Italia.
    sul momento mi viene solo una riflessione scabra che non serve a niente e non chiarisce niente.
    ci sono comunità, come quella del ghetto ebraico di Roma, nelle quali se ci entri hai l’impressione feroce che ti guardino con sospetto, se non li odi. pretendono che li odi. se arrivi a odiare i governi israeliani come odi a volte anche il tuo, ma gli fai sentire che non li odi in quanto gente, o popolo, sei il maggior sospetto che ci sia. pretendono da te un’adesione a quella che non riescono a vivere se non come una teocrazia, il resto è fuorilegge. se tu da laico indistruttibile ti rifiuti di aderire alla coincidenza, ti avvertono come pericoloso, anzi, il vero pericoloso, l’unico vero pericoloso.
    certo è che parlare di una comunità locale non è parlare di un popolo, così come non lo rappresenta un ambasciatore che si mette l’adesivo con la stella di Davide. e già qui ho l’impressione di aver detto troppo. e poi ho anche amici in quella comunità, ma non ben visti.
    forse, ma qui vado con cautela come su un campo minato, sarebbe utile ricordare come reagiscono le popolazioni Rom e Sinti ai torti e alle vessazioni che subiscono da sempre: non ne parlano e non vorrebbero quasi che se ne parli, non ne rivendicano il costo, olocausti compresi. uno di loro mi diceva anni fa: e che gli vuoi dare pure quella soddisfazione?
    forse c’è gente che ci nasce perdente, sa un po’ più come fare.

    P.

  3. Caro Paolo,

    Grazie, anche se resto immobile. Non perché ogni tua parola non mi ispiri un commento – ma proprie tutte, sai? In particolare le ultime – ma perché, appunto, ogni nostra parola, oggi ancora di più di quando ho scritto questa mia “lettera”, si deposita in un terreno minato e rischia, senza volere, di provocare dolore, esplosioni: magari ci proveremo, piano piano, a voce. Una cosa però la vorrei aggiungere: io non voglio odiare, e anzi vorrei anche sottrarmi alla logica – giusta ma oggi terribilmente limitata – del “devi condannare questo”, “no, devi prima condannare quello”. Sai cosa faccio da più da un mese a questa parte? Studiare e tradurre, per il mio piacere, esametri dell’Iliade. Che dovrebbero rileggere tutti quelli che urlano e vomitano certezze in questi tempi opachi, da una parte e dall’altra. Perché il greco Omero prova eguale compassione per i Greci e i “nemici” Troiani, entrambi a combattere una guerra assurda, che nessuno ha voluto, e di cui gli uni non sono meno vittime degli altri. E poi, ovviamente, questo (dal Simon Boccanegra, ultimo atto): https://www.youtube.com/watch?v=ys86R1qZK9w.

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andrea inglese
andrea inglese
Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia e storia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ora insegna in scuole d’architettura a Parigi e Versailles. Poesia Prove d’inconsistenza, in VI Quaderno italiano, Marcos y Marcos, 1998. Inventari, Zona 2001; finalista Premio Delfini 2001. La distrazione, Luca Sossella, 2008; premio Montano 2009. Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, Italic Pequod, 2013. La grande anitra, Oèdipus, 2013. Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016, collana Autoriale, Dot.Com Press, 2017. Il rumore è il messaggio, Diaforia, 2023. Prose Prati, in Prosa in prosa, volume collettivo, Le Lettere, 2009; Tic edizioni, 2020. Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001, Camera Verde, 2011. Commiato da Andromeda, Valigie Rosse, 2011 (Premio Ciampi, 2011). I miei pezzi, in Ex.it Materiali fuori contesto, volume collettivo, La Colornese – Tielleci, 2013. Ollivud, Prufrock spa, 2018. Stralunati, Italo Svevo, 2022. Romanzi Parigi è un desiderio, Ponte Alle Grazie, 2016; finalista Premio Napoli 2017, Premio Bridge 2017. La vita adulta, Ponte Alle Grazie, 2021. Saggistica L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Dipartimento di Linguistica e Letterature comparate, Università di Cassino, 2003. La confusione è ancella della menzogna, edizione digitale, Quintadicopertina, 2012. La civiltà idiota. Saggi militanti, Valigie Rosse, 2018. Con Paolo Giovannetti ha curato il volume collettivo Teoria & poesia, Biblion, 2018. Traduzioni Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008, Metauro, 2009. È stato redattore delle riviste “Manocometa”, “Allegoria”, del sito GAMMM, della rivista e del sito “Alfabeta2”. È uno dei membri fondatori del blog Nazione Indiana e il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.
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