La caduta dei Lammatari
[La caduta dei Lammatari è un romanzo inedito di Joe Zerbib, francese trapiantato a Napoli; è stato segnalato all’ultimo premio Calvino “per la narrazione frizzante e grottesca della caduta di un clan camorristico, in un tripudio di prostitute, teste mozzate e kitsch che ammicca con intelligenza alla sceneggiata napoletana”. Ne pubblico il primo capitolo. ot]
di Joe Zerbib
Erano forse in mille sul terrazzo di copertura: i Lammatari al gran completo, compresi dignitari e sgherri di numerose famiglie alleate.
Si celebrava il genetliaco del padrone. Gigino Teratornis, detto «il Condor», indiscusso sovrano del Rione Sanità, forse l’uomo più temuto di tutta Napoli. Avrebbe compiuto quarantasette anni a mezzanotte. Però da lontano il suo party sembrava un compleanno da seconda elementare. Contro il parere di tutti, aveva costellato il terrazzo di addobbi di cartapesta: stelle filanti, ghirlande e lanterne in tutte le sfumature dell’arcobaleno.
Una selezione musicale di cattivo gusto assordava gli ospiti. La maggior parte si stava radunando sull’ala nord del terrazzo, il più lontano possibile dal sound system. Lì, dovettero affrontare un’altra fonte di inquinamento sonoro. Una gang di gabbiani occupava il tetto del monastero contiguo. Le loro risate rimbombavano così forte da rendere penosa ogni conversazione. Un invitato, particolarmente sensibile al rumore, tirò fuori una pistola e si impegnò a risolvere il problema, non prima di aver avvitato il silenziatore.
Per coronare il tutto, numerosi Airbus A300 si libravano poco sopra le teste dei convitati come uccelli di paradiso nella canopia amazzonica. Su questo c’era poco da fare, a meno di sollecitare una potenza di fuoco maggiore (il Condor disponeva di vari tipi di lanciarazzi). Sembrava un po’ esagerato.
Il porto di Napoli brontolava in lontananza. Era appena arrivata una portacontainer da Tangeri, le cui mercanzie di ogni sorta sarebbero finite, per metà almeno, negli affari dei Lammatari.
Ci fu un tuono particolarmente forte che molti scambiarono per un inizio di temporale. Ma di temporali, non se ne parlava più. Dopo settimane di strenue intemperie, il sole splendeva di nuovo su tutto il golfo. Non ci fu un abitante, in quel radioso sei maggio, che non avesse lodato il cielo con un «assa fa’ ‘a Maronn» o simili invocazioni alla Santa Trinità.
A parere di tutti, questo immacolato cielo azzurro era di buon augurio per il Condor e la sua fiorente tribù.
Dopo i primi saluti di benvenuto, che durarono ben due ore, Gigino Teratornis decise di avviare la visita guidata degli appartamenti. Iniziò a vagare da un ospite all’altro, con il suo barboncino nano sotto l’ascella, nell’intento di raggruppare tutti verso la scala principale. Molti erano appena arrivati e volevano godersi un attimo la vista e il buffet.
Sull’ala est del terrazzo, tre calabresi incappucciati osservavano il sontuoso vulcano, che per la prima volta si offriva a loro da così vicino. Aspettavano un carico di esplosivi dall’ex-Jugoslavia in vista di un attentato a Torino. Gigino aveva fatto da tramite per l’affare e da allora li teneva in simpatia.
«Agiallu va duve truva granu!» disse loro Gigino con un pessimo accento calabrese. Il Condor era un grande amante di proverbi, ma raramente si preoccupava di capirne il senso.
Seduti ad un tavolo di PVC bianco, i coniugi Qingzhao sgusciavano arachidi. Primi importatori di selfie sticks d’Europa, i Lammatari facevano ottimi affari con loro. Oltre alle famose aste telescopiche, la coppia cinese importava tutta la paccottiglia da svendere sui marciapiedi del centro storico.
«Konishiwa!» esclamò Gigino passando accanto a loro. «A breve iniziamo la visita! Su!»
I Qingzhao non si offesero di essere scambiati per giapponesi. Sapevano che Gigino in quelle occasioni amava ingoiare pasticche e perdeva un po’ delle sue capacità cognitive. Aveva in effetti le pupille molto dilatate e la voce più acuta del solito.
Il boss passò poi in mezzo a due gruppi di africani che si scrutavano con ostilità. Da un lato i gambiani, che avevano conquistato il monopolio dello spaccio di piazza Bellini (con l’avallo del Condor), dall’altro i senegalesi, un po’ meno azzimati, che controllavano (sempre con l’avallo del Condor), il contrabbando di borsette griffate. Fra le due schiere c’era un’isola di bellezza adocchiata da tutti: una donna color cannella, seduta su una sedia, che aggiustava le sue trecce. Era Zuleica, la capoverdiana, che aveva già respinto vari tentativi di approdo.
Gli ucraini avevano preso in mano la situazione barbecue, assistiti da un florilegio di donne da marciapiede. Gigino aveva un debole per il fenotipo e l’indole di questi paesi post-sovietici. Non tanto per le ragazze, troppo bionde a parer suo, ma per i maschi che possedevano un certo sex appeal. Uno di loro faceva roteare un matusalemme di vodka in equilibrio sull’indice. Di tanto in tanto ne versava un po’ sulle salsicce.
«Ïak dila Valerian?» gli chiese il Condor.
«Douje dobre. A ou vas?» rispose lui.
«Tutto bene. Iniziamo la visita degli appartamenti. Mi metti una salsiccia da parte per Agostino?»
«Waf, waf!» fece il barboncino che Gigino teneva ancora sotto l’ascella.
Un filosofo francese, camicia bianca e capelli grigi, tallonava Gigino. Aveva palesemente qualcosa di urgente da dire al camorrista. Riuscì finalmente ad attirare la sua attenzione.
«Monsieur Teratornis?» disse il filosofo con la massima educazione.
«I don’t speak franswua. Sorry.»
E Gigino contornò il filosofo con una specie di roulette alla Zidane. Il Condor odiava i francesi e i pensatori.
Appartato in un angolo, un discendente dei Sanfelice guardava il vulcano, tamburellando con le dita sul parapetto. Aveva bisogno di un prestito di qualche milione per rimettere in sesto il suo hôtel particulier. Gigino evitò anche lui.
Un ex-calciatore slovacco aspettava il suo elicottero chiacchierando con il sindaco. Un vescovo, un questurino in borghese e un webmaster comunista commentavano la vista.
«Attenti tutti. La visita sta per iniziare!» gridò Gigino più volte.
Il boss attraversò numerosi gruppi, uno più variegato dell’altro, tanto che c’era da chiedersi come mai il suo clan avesse acquistato una sì ampia presa sulla società napoletana.
Sette videomaker e dodici fotografi erano stati ingaggiati per seguire tutta la festa. Era difficile per ognuno di loro non comparire sullo schermo di un collega. Si riunivano spesso al centro del terrazzo per riconsiderare il loro piazzamento. Avevano anche una postazione in un angolo dalla quale alimentavano in diretta i numerosi profili di Gigino Teratornis. Ne possedeva una cinquantina.
Il boss arrivò a pochi passi dalla moglie.
«Tesoro gioia, siamo pronti per la visita» disse lui.
La moglie stava narrando il suo ultimo soggiorno a Monte Carlo davanti a tre coetanee che annuivano di concerto ogni secondo. Maddalena Galasso, riconoscibile dalla sua leonina criniera, era di un’importante casata ischitana, strategica per gli affari dei Lammatari nel mediterraneo.
Prima di sposare Gigino Teratornis, Maddalena era stata la sua cognata, ovvero la moglie di suo fratello. Il Condor l’amava come amava la sua Ford Mustang: era soddisfatto di possederla, ma non la sapeva guidare. Il boss nutriva però un desiderio malsano quanto irrefrenabile per la figlia di Maddalena: Carmela, sua nipote, diciassettenne di letale fascino.
Oggi era l’unica che mancava. L’avrebbe voluta al suo fianco, o per lo meno a portata di mano. Ma questa palesemente boicottava la festa. Gigino si appoggiò al parapetto e iniziò a frugare l’orizzonte con due occhi strizzati. A qualche blocco da lì c’era l’appartamento di Carmela. E sul tetto di quello, un corpicino volteggiava. Sembrava un pezzo di tessuto intrappolato nel vento. Era lei. Carmela. Ancora lì, su quel terrazzo rosso non calpestabile, da sola, a ballare per i gabbiani…
Gigino provò a distinguere meglio il corpo della ragazza, che sembrava nuda. Troppo miope per vederla con gli occhi, il Condor la ricreava mentalmente. Immaginava le gocce di sudore che scivolavano sulla pelle plastilinosa della sua pancia. La schiena scolpita, la nuca dritta e forte, il suo mappamondo a paniere… tutta Carmela si offriva a lui, nuda, immobile e sedata, in una luce arancione.
«Un giorno farò fuori tua madre» disse Gigino tra sé e sé, «e per te non sarò più né zio, né patrigno.»
Di certo un libro non si può giudicare completamente da solo il primo capitolo (o si tratta solo di un estratto, quello proposto?), ma non trovo nulla di interessante né nella trama né nello stile di quanto letto; al punto che mi chiedo come possano al Calvino aver trovato qualcosa di notevole in questo testo – mi hanno sempre detto che la giuria del Calvino badi molto alla qualità letteraria, che è forse rimasto l’unico concorso serio d’Italia.
Vista la giustificazione addotta per la segnalazione, potrebbe forse trattarsi di una buona opera commerciale? Oppure è una feroce satira del mondo criminale (che la possa quindi elevare alla dignità di opera d’arte)? Da questo articolo non saprei come rispondere.
Personalmente trovo l’incipit molto efficace ed interessante.