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Memorie da Gaza #3

di Yousef Elqedra

Pronto yà ba , stiamo bene” 

“Siamo usciti sotto una pioggia di missili e bombe al fosforo bianco che ci piovevano addosso dagli aerei israeliani, correvamo senza portarci dietro nulla, passando sopra cadaveri e resti di corpi, mentre le fiamme oscuravano il cielo con masse enormi di fumo.”

Così, con la mente distratta, Abu Bilal si è seduto a raccontare la storia del suo esodo dalle torri di al Karama, a nord di Gaza, fino al suo ricongiungimento con la famiglia, dopo aver perso la casa e due nipoti ed essersi stabilito in un rifugio a Khan Yunis.

Dove sono le ragazze? 

Il sessantenne prosegue il racconto del giorno della fuga: “Abbiamo lasciato le nostre case così, senza la minima capacità di orientamento persino in zone che conosciamo a memoria, figli sulle spalle e donne in corsa al nostro fianco. Siamo andati avanti più che potevamo in tutte le direzioni, e ogni volta che avanzavamo di qualche metro e ci guardavamo alle spalle, scorgevamo la follia e l’isteria inseguirci.”

Solo una volta arrivati a circa un chilometro di distanza, i membri della famiglia hanno iniziato ad accertarsi se c’erano tutti e, dopo essersi riuniti, si sono accorti che all’appello mancavano la figlia e il figlio maggiore: una perdita durissima.

Abu Bilal continua: “Dopo mezz’ora è apparso mio figlio. Gli ho chiesto notizie sulle sue due ragazze: quando è scoppiato in lacrime ho capito qual era la risposta. Per cui ho suggerito a mio figlio di mezzo di andare avanti con la famiglia, di portare tutti il più lontano possibile, nei rifugi a sud di Wadi Gaza, mentre io e mio figlio maggiore siamo tornati a casa, metà della quale era crollata e l’altra rimasta sospesa in aria. Lì abbiamo cercato le mie due nipoti, sul posto c’erano molti cadaveri e molti feriti sanguinanti e le ambulanze non erano ancora arrivate”.

Questa è una tra le migliaia di storie e non è solo la storia della famiglia Abu Bilal. Cambiano i nomi, ma gli eventi e le storie del giorno dell’esodo da Gaza sono simili. Non c’è famiglia che non abbia perso alcuni dei suoi membri dall’inizio della guerra, e diverse famiglie sono scomparse del tutto senza un testimone che racconti la loro storia.

Abbiamo sepolto le due ragazze e abbiamo continuato la nostra fuga 

L’uomo prosegue: “Abbiamo trovato le due ragazze, annegate nel loro stesso sangue. Io ho sollevato la prima, e il padre la seconda, poi abbiamo camminato tra i feriti sanguinanti e le case in macerie, ammucchiate su sé stesse e sui propri abitanti. Abbiamo camminato circa due chilometri prima di trovare un’auto che ci portasse all’ospedale. Lì la situazione non era migliore: era affollato di persone in fuga dalla morte, vittime e feriti. Finalmente siamo arrivati ​​al pronto soccorso, ma era troppo tardi.”

La vicenda, così come la descriveva l’uomo, può sembrare assurda. I medici hanno confermato che le due ragazze erano morte e hanno ordinato di trasportare i cadaveri all’obitorio; lì hanno annotato i loro dati e poi le hanno avvolte in sudari. Aggiunge: “Abbiamo pregato per le due ragazze con le persone presenti in ospedale, poi le abbiamo trasportate con il carro funebre al cimitero vicino, dove le abbiamo sepolte.”

Di come fermarsi per un attimo sul proprio dolore sia considerato un pericolo e un ostacolo alla fuga, l’uomo dice: “Così in un lampo, senza il tempo di versare neppure una lacrima né di emettere un sospiro abbiamo sepolto le due ragazze. Tutto questo è avvenuto sotto il rombo dei droni di sorveglianza e tra i continui bombardamenti qui, là e ovunque.”

Stiamo bene, yà ba (papà) 

Le lacrime brillano negli occhi di Abu Bilal, che ha più di sessant’anni e bellissimi capelli grigi che gli coprono la testa, esaltandone l’autorevolezza; emette un sospiro che già mi scuote, prima di continuare il suo racconto.

Dice: “In quel momento non sapevo dove fosse la mia famiglia, chi fosse rimasto di loro, né sapevo dove andare. Mi aggrappavo a mio figlio, che aveva bisogno a sua volta di qualcuno a cui appoggiarsi: aveva appena sepolto le sue due figlie.”

Abu Bilal aveva cercato ripetutamente di contattare il figlio di mezzo, che aveva lasciato con la famiglia, per sapere dove erano arrivati ​​e come raggiungerli, dato che non avevano parenti né conoscenti nel sud. L’uomo prosegue: “Non sapevo in quel momento se si fossero effettivamente spostati a sud o se avessero scelto un’altra destinazione, così mi sono seduto sul marciapiede, aspettando una chiamata o una risposta. Infine, dopo due ore è arrivata la telefonata, che mi ha rincuorato:

– pronto yà ba, stiamo bene, siamo al rifugio della Mezzaluna Rossa Palestinese a Khan Yunis.

– Grazie a Dio, yà ba… vi raggiungiamo.

Abu Bilal continua a raccontare: “Ho riagganciato il telefono senza lasciare spazio per parlare delle due ragazze. L’arduo compito che dovevamo affrontare in quel momento era trovare un’auto che ci portasse da Gaza a Khan Yunis in mezzo ai bombardamenti e tra le strade interrotte. Ho provato con ogni macchina che passava, avanzavamo e chiedevamo un passaggio, avanzavamo e speravamo, avanzavamo e offrivamo somme di denaro raddoppiate, finché non è arrivato finalmente un automobilista che ha accettato”.

Un automobilista pazzo ci ha portati a sud 

Il tragitto non era facile, come lo descriveva Abu Bilal: molte strade sono state interrotte e distrutte dai bombardamenti. Un’ora dopo aver lasciato Gaza, l’uomo e suo figlio sono arrivati ​​in via Salah al-Din direzione sud.

Tutto ciò di cui la famiglia aveva bisogno in quei momenti era un luogo sicuro, che consentisse alla tristezza di uscire allo scoperto, lasciasse lo spazio al pianto, che bastasse per contare i membri della famiglia e sapere chi fosse rimasto in vita e chi no.

L’uomo conclude: “L’automobilista era allo stesso tempo prudente e spericolato fino alla pazzia e noi stavamo uscendo dalla stessa follia, volevamo arrivare in qualunque luogo, cercavamo un po’ di sicurezza e conforto e tentavamo di comprendere che cosa fosse successo. Tutto quel che ricordo è che eravamo al sicuro a casa, a prepararci per la colazione, prima che iniziasse tutta questa follia.”

 

*

 

Yousef Elqedra è un poeta palestinese residente a Gaza. Su Nazione Indiana appare nella traduzione di Sana Darghmouni e Pina Piccolo.

Memorie da Gaza #1

Memorie da Gaza #2

 

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Renata Morresi scrive poesia e saggistica, e traduce. In poesia ha pubblicato le raccolte Terzo paesaggio (Aragno, 2019), Bagnanti (Perrone 2013), La signora W. (Camera verde 2013), Cuore comune (peQuod 2010); altri testi sono apparsi su antologie e riviste, anche in traduzione inglese, francese e spagnola. Nel 2014 ha vinto il premio Marazza per la prima traduzione italiana di Rachel Blau DuPlessis (Dieci bozze, Vydia 2012) e nel 2015 il premio del Ministero dei Beni Culturali per la traduzione di poeti americani moderni e post-moderni. Cura la collana di poesia “Lacustrine” per Arcipelago Itaca Edizioni. E' ricercatrice di letteratura anglo-americana all'università di Padova.
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