Charming men. La storia degli Smiths
di Martina Panzavolta

Il nome “Smiths” abbraccia la coesistenza di violenza e delicatezza, evoca la nostalgia del passato come critica al presente, ma anche l’immagine di un mazzo di fiori – per la precisione, un mazzo di gladioli – che fuoriescono dalla tasca posteriore dei jeans e che roteano in aria per venire gettati sul palco. La band inglese, formata da Morrissey (voce), Johnny Marr (chitarra), Andy Rourke (basso) e Mike Joyce (batteria), ha respirato per soli cinque anni e quattro album, ma è stata fatale per un’intera generazione. L’«aspetto realistico» dei loro brani è stato certamente l’ingrediente – insolitamente – segreto del successo: gli Smiths hanno infatti saputo radicarsi a una dimensione profondamente quotidiana, in grado di raccontare qualcosa vicino a chi ascolta, pur senza rinunciare a disseminare i propri brani di citazioni raffinate, o meglio, rifinite da un wit e da uno charme alla Oscar Wilde (cfr. Rennis 2024, p. 295). Del resto, non stupirebbe se «We are all in the gutter, but some of us are looking at the stars» (“siamo tutti nella grondaia, ma alcuni di noi guardano le stelle”, Wilde 1892, p. 88) rientrasse fra le strofe dei loro testi, omaggiando esplicitamente la saggezza estetica dello scrittore inglese. A ragione, quindi, l’affiliazione artistica degli Smiths a Oscar Wilde è stata colta e sottolineata da Fernando Rennis, che ha posto la sopracitata espressione in apertura al suo libro dedicato alla storia della band.
Charming men. La storia degli Smiths, edito da Nottetempo nel settembre del 2024, non è semplicemente un percorso fra gli album e i testi degli Smiths, ma un intreccio di materiale storico e musicale in cui, oltre alle telecamere puntate sulla band, si fa “zapping” sul calderone incandescente degli anni Ottanta. In un certo senso, si può dire che, nel libro di Rennis, gli Smiths siano circondati da co-protagonisti e comparse: una menzione speciale va di certo a Margareth Thatcher, seguita dal trionfo del liberismo, dalla paura del nucleare della Guerra Fredda e dal dilagante disordine sociale a livello mondiale, in cui trovano voce i gruppi underground giovanili e le droghe a buon mercato. Nella narrazione degli Smiths, la cornice storica è fondamentale: non solo mostra alle lettrici e ai lettori la realtà messa in musica nei brani, ma soprattutto ricorda che l’espressione artistica può essere uno strumento di critica che contribuisce a muovere il presente e dare speranze – tutti aspetti che troppo spesso vengono tralasciati.
Fernando Rennis ha una penna piuttosto allenata all’intreccio fra musica e politica; fra i suoi testi sul tema, si possono menzionare Politics. La musica angloamericana nell’era di Trump e della Brexit (2018) e Patriots. La musica italiana da Berlusconi al sovranismo (2019); il suo penultimo libro è invece Un glorioso fallimento. L’eterno presente della Factory Records (2022). Sulla linea delle sue ricerche storico-politiche, Rennis dà avvio alla narrazione degli Smiths a partire da un flashforward: una seduta del Parlamento britannico. «Miserable Lie, I Don’t Owe You Anithing o Heaven Knows I’m Miserable Now: quali di queste canzoni avrebbero cantato i poveri studenti se il governo avesse portato a casa il voto sull’aumento delle tasse universitarie?» (Rennis 2024, p. 15). Kerry McCarthy lo chiese nel 2010 al primo ministro David Cameron, il quale rispose che «non gli avrebbero cantato di certo This Charming Man» (ibidem).
Le canzoni degli Smiths non avevano certo bisogno di essere menzionate a una camera parlamentare per divenire politiche: fin dai primi concerti, la band era solita invitare il pubblico a salire sul palco per prenderselo, già dimostrando che i riflettori del loro successo dovevano essere puntati sul quotidiano protagonista dei loro testi (cfr. ivi, p. 21). Agli Smiths non importava di dire o non dire qualcosa fuori posto, si trattava, piuttosto, di non fare qualcosa di omologato o senziente solo perché doveva essere fatto. Del resto, come diceva bene Wilde, «quando i critici non sono d’accordo fra di loro, l’artista allora è d’accordo con se stesso» (Wilde 1891, p. 7). Su questo, tutti i membri della band erano hand in glove, che in inglese significa “complici”, e camminavano letteralmente “mano nel guanto”; non a caso l’espressione è stata il titolo del loro primo brano di successo (Rennis 2024, p. 62).
Il loro essere alternativi non era semplicemente una moda, ma una postura vigile e critica: negli anni del thatcherismo, le arti che non avevano ambizioni industriali erano fuori dai giochi. Per questo, come sottolinea a più riprese Rennis, firmare per la Rough Trade, un’etichetta indipendente britannica, e scegliere di rimanerci anche nell’anno di maggior successo, fu un atto di protesta consapevole nei confronti delle grandi case discografiche che seguivano le linee guida di Thatcher relativamente ai valori di individualismo e liberismo. Al contrario, gli Smiths volevano un “lavoro etico”, coerente rispetto a ciò che mettevano in musica: «un sacco di soldi, se fatto bene» (p. 84). Del resto, la denuncia della pedofilia e della corruzione inglese non era affatto qualcosa da canticchiare con la leggerezza degli Wham!, l’altro volto della musica britannica: lo “Charming Man” che il duo pop impersonava era superficiale e finto, quello degli Smiths era tanto reale quanto erotico e pedofilo, come gran parte della borghesia inglese mascherata da gente per bene. Del resto, gli Smiths avevano a cuore la ricerca della “verità”, quella che riguarda l’umano e i suoi i sentimenti, e che molto spesso viene messa a tacere, soffocata dall’indifferenza e dall’alienazione. Per questo, come sottolinea Rennis, i veri «pugni in faccia» per il pubblico sono stati Please, Please, Please, Let Me Get What I Want e How Soon is Now (1884): due brani che ricordano la fragilità delle speranze e che, nonostante ciò, difendono il bisogno di sentirsi amati in un mondo che ci rende sempre più soli (ivi, pp. 144-145).
Questa “ricerca della verità”, per così dire, non aveva nulla di intellettuale: per gli Smiths, doveva prendere i cuori «dalla gente normale che vive con te» (ivi, p. 178), che è disposta a riaprire le ferite cicatrizzate dalla invulnerabilità apatica, per ricucirle, non senza dolore, nella speranza della rigenerazione di comunità più consapevoli e, di conseguenza più critiche e attive. La musica, per gli Smiths, doveva quindi puntare a e accendere un senso di frustrazione positivo nei confronti delle violenze subite; d’altronde, questo è stato dichiaratamente l’intento primario di Meat is Murder (1985), il secondo album degli Smiths che cantava in maniera assordante il senso di insoddisfazione.
Del resto, gli Smiths hanno partecipato attivamente, e non solo con i loro brani, ai movimenti di sinistra. Di fatto, sono saliti più volte – anche se non sempre al completo – sul palco del Red Wedge, un collettivo di musicisti che voleva appoggiare le politiche del Partito Laburista in vista delle elezioni generali del 1987, nella speranza di estromettere il governo conservatore di Thatcher (ivi, p. 203). Le loro canzoni dovevano raccogliere le voci del presente, non imbrattarle di finta felicità; a tal proposito, Morrissey e Marr raccontano che, davanti allo schermo della tv, mentre ascoltavano gli Wham! cantare I’m your man lo stesso giorno in cui Chernobyl è esplosa, hanno sbraitato: «che cazzo c’entra questo con la vita delle persone?» (p. 211). Il brano Panic (1986) fu il risultato di queste riflessioni.
Nella narrazione di Rennis è interessante anche il racconto della ricezione italiana della band. Per fornire un esempio si può citare Pier Vittorio Tondelli, lo scrittore camp per eccellenza degli anni Ottanta e Novanta, il quale affermava che gli Smiths avevano un fascino invidiabile: i testi di quel «geniaccio» di Morrissey riuscivano a tenere insieme quell’«immaginario ambiguo in cui piacere e dolore sono intrinsecamente uniti» (cfr. Tondelli 1985, pp. 123-125; citato in Rennis 2024, p. 182). Del resto, tale intreccio si trova all’apice della sua altezza nell’esplicita unione di amore e morte in un brano di The Queen is dead, l’ultimo pubblicato con la Rough Trade, il cui titolo è There Is a Light That Never Goes Out.
Tuttavia, contemporaneamente a brani definiti sempre più “traboccanti di fascino” (cfr. ivi, p. 226), per la band andavano acuendosi diverse crepe. Anche se nelle esibizioni sembravano ancora affiatati, nel 1986 l’intesa inaugurata dall’Hand in Glove si era ormai incrinata. Di fatto, come ripete più di una volta Rennis, gli Smiths non erano un gruppo di amici che poi ha deciso di mettersi a fare musica, ma quattro individualità che si sono trovate a parlare dell’Inghilterra e del mondo al momento giusto, e non più del tempo che per loro è stato giusto. Innanzitutto, nel 1986 avevano rotto gli accordi con la loro etichetta indipendente e avevano firmato per la EMI, una major, che di certo non rispettava l’idea etica di lavoro che si erano prefissati. Di più, Morrissey e Marr, non avevano più le stesse idee in merito al materiale musicale: se Marr voleva sperimentare ed era curioso delle nuove tecnologie in campo artistico, Morrissey non voleva abbandonare il “linguaggio naturale” della musica («Nature is a language, can’t you read?», “La natura è un linguaggio, non riesci a leggerlo?”, Ask, 1986). Così, nell’estate del 1987, Marr dichiarò la sua definitiva uscita, spiegando: «Non nego che ci fossero certi problemi all’interno della band […] Ma la ragione principale per cui me ne sono andato è semplicemente che ci sono cose che voglio fare, musicalmente, che non hanno spazio negli Smiths» (ivi, p. 265). Del resto, anche Morrissey, da parte sua, si era definito «preparato» alla dipartita del collega (ivi, p. 267). Molti articoli, come ricorda Rennis, hanno dichiarato che è stata la fine della band inglese più originale degli ultimi anni.
Negli anni successivi non c’è stata nessuna reunion: come spiega Rennis, anche questo fa parte «del loro charme, anzi del loro mito: cinque anni di attività, quattro album e un comunissimo cognome inglese che li incastra per sempre in un’insormontabile giovinezza» (ivi, p. 280). Per le lettrici e i lettori di Rennis, gli Smiths saranno legati anche a un’instancabile speranza legata all’avvenire musicale: l’arte può trovare ancora la sua voce. Loro lo hanno dimostrato: proprio mentre Margareth Thatcher affermava “there is no alternative”, riferendosi al capitalismo e alla globalizzazione, gli Smiths cantavano «Why do I give valuable time / To people who don’t care if I live or die?» (“Perché do tempo prezioso / A persone a cui non importa se vivo o muoio?”, Heaven Knows I’m Miserable Now, 1984).
Bibliografia
Tondelli, P. V. (1985), Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni Ottanta, Bompiani, Milano 2001.
Wilde, O. (1891), Il ritratto di Dorian Gray, trad. it. di L. Cecchini, Mondadori, Milano 2020.
Wilde, O. (1892), Il ventaglio di Lady Windermere, trad. it. diC. Dondo, Garzanti, Milano 2010.