“Che comodità!” La fatica di essere umani nell’era del comfort
di Giacomo Agnoletti
.
- Per forza o per comodo?
Se le nostre città non sono cosparse di monumenti alle nuove divinità tecnologiche, è perché quella in cui viviamo è una delle società più ipocrite della storia. Chiese, statue, abbazie? Tutta roba buona per i turisti. Dovrebbero piuttosto essere eretti templi e monumenti allo smartphone. E noi, con uno scatto di sincerità, dovremmo avere il coraggio di rivolgere le nostre preghiere non a una divinità trascendente, ma alla fin troppo umana capacità della tecnica di rendere la nostra esistenza meno faticosa e più confortevole, in una parola più comoda.
Ma come siamo arrivati a sviluppare quest’ossessione per la tecnologia? Piuttosto che chiamare in causa l’americanizzazione partita nel dopoguerra, vorrei invitare a una riflessione, chiedendomi quanto una cultura possa essere imposta attraverso i mezzi di persuasione, se non proprio occulta, almeno non del tutto dichiarata (ieri slogan e manifesti, oggi messaggi personalizzati sulla base degli algoritmi dei social). Chiediamoci allora chi dispone di questo tipo di forza: economica, politica, militare. Perché ci vuole la forza, quella dei cannoni e delle bombe, per legittimare socialmente un certo tipo di imposizione culturale. Secondo la celebre massima attribuita al linguista Max Weinreich, “una lingua è un dialetto con un esercito e una marina militare”; perché non potrebbe valere lo stesso per una cultura?
Ovvero, la cultura occidentale verrebbe imposta attraverso il potere militare, quindi di base quello americano, e su questa “cultura imposta” si innesterebbero varianti regionali che partono e si diramano dalla cultura dominante.
Quanto ci siamo è americanizzati dopo il secondo conflitto mondiale? Il modo in cui la società si è evoluta è osservabile attraverso i cambiamenti nel cibo di cui ci nutriamo, nelle case che abitiamo e che arrediamo, nei vestiti che indossiamo, nei mezzi che impieghiamo per muoverci. Fino ad arrivare, com’è ovvio, alla cultura con la C maiuscola, ovvero alla letteratura, al cinema, all’arte e anche ai modi con i quali definiamo che cosa sia la cultura, in primo luogo i programmi per la scuola e l’università.
Pensiamo allora a come siamo cambiati dal dopoguerra a oggi. Con uno sguardo inevitabilmente superficiale, si può osservare che gli italiani hanno largamente rimpiazzato giacche, gonne e cappotti con un abbigliamento decisamente più casual; che sempre più persone, a cominciare dai giovanissimi, preferiscono ormai cibi genericamente “fast” ai piatti della tradizione mediterranea; che lo stile delle abitazioni e dell’arredamento ricalca per molti aspetti il rigore e l’efficienza delle culture germaniche e scandinave; che i grossi SUV hanno sostituito le berline e che l’istruzione dell’obbligo, proprio come avviene negli USA, è sempre più improntata a una preparazione generica, mentre all’università lo spazio per le materie umanistiche si riduce anno dopo anno. Sono osservazioni approssimative, ma quello che mi preme è fornire alcuni esempi di massima per chiarire una tendenza che, con le mille distinzioni dei casi, mi sembra comunque evidente.
Gli americani hanno vinto, hanno la forza militare per imporre la loro cultura – ed è ininfluente che ciò avvenga attraverso i media tradizionali o i nuovi media elettronici. Tali media diffondono una cultura omologata, propagandano il sogno a stelle e strisce e il cittadino si adegua, consumando la sua razione quotidiana di simulacri forniti dal “sistema”. Sembra tutto molto semplice, persino troppo. È di fronte a questo tipo di rappresentazione del consumatore di cultura – e della cultura stessa – che Michel De Certeau ci ha ammoniti a non commettere l’errore di “considerare la gente idiota”.
Proviamo invece a rispondere alle domande implicite che emergono dalle osservazioni fatte poco sopra. Ovvero, perché molti di noi mangiano hamburger, sushi e poke, vestono come dei newyorkesi nel tempo libero, guidano un SUV e abitano in un appartamento super-climatizzato, pur vivendo in una cittadina italiana?
Ebbene, la risposta immediata a queste domande è di solito: “Perché è più comodo”. Non perché ci è stato imposto, militarmente o meno, né perché ci hanno persuaso con la pubblicità subliminale o con gli algoritmi di Elon Musk. Siamo noi, consapevoli o meno, informati o meno, che decidiamo di abbracciare un modello di sviluppo e dunque un’idea di progresso.
Credere nell’attivismo del consumatore significa allora pensare che nella miriade di scelte compiute da esseri anonimi nel quotidiano vi sia un arbitrio, che si esprime attraverso una percezione di utilità, vantaggio, comodità. Certo le nostre scelte sono tentativi, risposte, adattamenti, modi di usare quanto ci viene imposto dall’ordine economico dominante. Ma, al netto delle semplificazioni, ciò che mi interessa è mostrare quanto la cultura, più che su una base di imposizione, si definisca lentamente e “molecolarmente” (come diceva Gramsci) attraverso le scelte degli invisibili uomini e donne che abitano il nostro quotidiano. Ed è questo l’unico spazio in cui può emergere una resistenza.
- La macchina più comoda è quella che pensa per noi
Heidegger evidenziò come la tecnica non sia che uno strumento finalizzato al dominio. Ora, dall’osso degli ominidi di Kubrick agli ordigni che le industrie europee produrranno in luogo delle automobili a pistoni, mi pare che una certa volontà di dominio sia ravvisabile. Tuttavia, io preferisco guardare un po’ più in basso, spostando l’attenzione dai palazzi del potere alla vita quotidiana dell’uomo qualunque. Ma è proprio qui, ahimè, che l’ossessione per la tecnica si fa palese, concretizzandosi nella predilezione quasi ossessiva per ogni strumento che semplifichi o alleggerisca le nostre incombenze quotidiane: macchine e macchinette per ogni tipo di attività, dai robot per cucinare alle sveglie che monitorano il nostro sonno, fino agli onnipresenti, lisci e luccicanti dispositivi che simboleggiano la nostra epoca, gli smartphone. Senza quello che un tempo si chiamava telefono non si può fare ormai più nulla. Per testimoniare della nostra presenza non servono i documenti cartacei, nella loro inutile materialità: ci vuole uno strumento digitale, ci vuole lo smartphone.
Eppure, si tratta di congegni a noi totalmente estranei, lontani, inaccessibili. Cosa nasconde la superficie levigata dell’ultimo iPhone? Pochissimi, fra i miliardi di utilizzatori che sono pronti a giurare sulla comodità dei nostri devices, sono in grado di rispondere. Ma la tecnologia non è sempre stata questo. Non siamo sempre stati degli utilizzatori entusiasti, ma alienati[1], degli strumenti di cui ci serviamo. E non serve tornare all’amigdala degli uomini delle caverne, basta guardare agli anni ’80. I bambini-nerd, oggi cinquantenni, che smanettavano sul Commodore 64 o sul Sinclair Spectrum conoscevano più o meno bene sia i linguaggi di programmazione che l’hardware delle loro macchinette. Non erano utilizzatori di una tecnologia lontana, inaccessibile e superiore; o almeno, lo erano in una misura inferiore rispetto ai bambini e agli adolescenti che oggi dormono con lo smartphone sul cuscino. La domanda è allora: perché lasciamo che, giorno dopo giorno, si accresca la distanza fra l’uomo e i suoi prodotti industriali?
È dai tempi di Alan Turing che gli eredi di Comte ci ricordano che “Lady Lovelace aveva torto”[2]. La giovane figlia di Lord Byron aveva preso dalla madre, specializzandosi in matematica. Ma, saranno stati i possenti geni paterni o il clima culturale del XIX secolo, Lady Lovelace è ricordata soprattutto per un suo rassicurante commento riguardo alle primissime macchine calcolatrici, da lei considerate incapaci di creatività, apprendimento, pensiero.
Ma basta accendere la tv o leggere un articolo perché qualche scienziato si affanni a spiegarci, rubbing his hands with glee, che Ada Lovelace si sbagliava. Ovvero che le macchine creano, imparano, pensano come e meglio di noi, e che il loro livello di prestazione è Sovrumano[3] (ultimo libro di Cristianini). Sì, sarà vero. Le macchine sono sovrumane, e noi siamo inferiori. Sì, la povera Lady Lovelace, inconsapevolmente romantica a dispetto degli studi scientifici, aveva torto, ma allora Günther Anders aveva ragione, terribilmente ragione. Il “dislivello prometeico”, l’incapacità umana di essere all’altezza del “Prometeo che è in noi” (in quanto creatori di macchine) sta crescendo a livello esponenziale, e con esso crescono la vergogna e l’infelicità dell’essere umano, costretto a pensarsi costantemente come uomo-fra-le-macchine.
Qui è però necessaria una precisazione. L’infelicità dell’uomo al cospetto delle sue creazioni meccaniche non deriva dalla fin troppo decantata “imperfezione” umana, quotidianamente sottolineata dai media (vedi il caso delle pubblicità che mostrano corpi imperfetti). Questo tipo di compiacimento riguardo alla diversità umana viene, soprattutto negli ultimi anni, sfruttato dal sistema economico in quanto elemento individualizzante e de-socializzante, in questo utilissimo nel frammentare la società allontanando il rischio di rivendicazioni legate al lavoro. Una volta riconosciuto e catalogato, poi, viene facilmente indirizzato verso il consumo, ideale complemento di ogni diversità individuale (così ad esempio ci saranno creme per donne con la cellulite, per le persone anziane o altro).
L’infelicità che Anders preconizzava negli anni ’50 è quella di un uomo, o donna, costretto a vivere in un mondo pensato per le macchine e popolato da esse, costantemente esposto a un confronto e a un adeguamento che lo vede frustrato e sconfitto in partenza.
È sul dislivello prometeico che si innesta la “fatica di essere se stessi” su cui ci ha fatto riflettere uno psichiatra-sociologo come Alain Ehrenberg[4]. Perché la macchina, a differenza dell’uomo, riesce sempre, e con la massima facilità, ad assolvere al compito di “essere se stessa”, di “maturare”, di “realizzare il proprio talento”. Ciò che è “maturo”, nel senso di completo, pienamente realizzato, assume progressivamente il valore di imperativo etico tenuto nella massima considerazione dai sacerdoti del sistema, siano essi giornalisti, scrittori, musicisti o giullari mediatici. Accantonati, con la rivoluzione morale degli anni ’60, i vecchi sentimenti di colpa e disciplina, dalla musica rock ai libri per l’infanzia l’invito è perennemente quello a essere “diversi da loro”, a “realizzare il tuo sogno”, enfatizzando la capacità di iniziativa individuale. Ovunque veniamo invitati a uniformarci ai nostri desideri, a diventare “quello che siamo”, seguendo la massima riconosciuta dalle macchine,[5] che hanno sempre una specifica funzione, e in quella si definiscono e si realizzano con la massima efficienza.
Seguire le proprie inclinazioni, ascoltare la voce della propria interiorità è certo positivo per il benessere psichico. Ma in un mondo dove domina l’efficienza delle macchine pensanti, la voce dell’interiorità che ci impone di realizzare il nostro sogno diviene ben presto tirannica. Ne è un sintomo la crescente diffusione della depressione, malattia dell’insufficienza, della fatica, della mancata realizzazione del propri – spesso grandiosi – sogni. Malattia, in fondo, di chi resta indietro, di chi non riesce a reggere il passo di una società dominata dalla marcia trionfale del progresso, dell’efficienza e della produttività. La società “disumanizzante” allora, ci ammoniva Anders già settant’anni fa, non è solo quella borghese, fondata sul danaro e sul commercio, ma è anzitutto una società di uomini fra le macchine, in perenne e frustrante competizione con le sue prometeiche creazioni.
Eppure, tutto questo passa in secondo piano quando ci accostiamo ammirati all’intelligenza artificiale che svolge i compiti per i nostri adolescenti, seleziona curriculum, decide chi curare e chi mandare al fronte. E non importa che la macchina ragioni in maniera diversa rispetto a un essere umano, ovvero vagliando montagne di dati e filtrandoli attraverso complesse statistiche. La macchina pensa, e non importa che per farlo debba consumare acqua, energia e risorse minerarie in maniera spropositata. Quel che conta è che la marcia trionfale del progresso non si interrompa, continuando a produrre oggetti che lavorano, scrivono, pensano per noi, rendendoci così la vita più comoda. E la felicità umana? Questo sentimento, così indefinibile e scarsamente misurabile, deve per forza soccombere di fronte alla percezione di comfort che le sirene illuministe ci prospettano instancabilmente da duecento anni? Ogni idea che ci possiamo formare riguardo al nostro benessere psichico e fisico – perché a differenza delle macchine siamo fatti carne, ossa e sangue – deve per forza ridursi al concetto di comodità?
- Quale comodità
Giulio Bollati definì la modernità la “nostra sorte di terrestri industrializzati”. La nostra cultura, passo dopo passo, molecola dopo molecola, si va formando attraverso una difficile convivenza con le sempre più potenti creazioni umane; e forse, anche storicamente, una ricostruzione di questo complicato rapporto potrebbe avere un senso.
Che cosa cercavano i giovani rampolli della borghesia industriale nelle città italiane dell’Ottocento? Il Grand Tour non era solo un viaggio di formazione e istruzione: alla base del desiderio di esplorare nazioni sentite come socialmente ed economicamente arretrate c’era, com’è noto, la ricerca degli aspetti più quaint e picturesque dell’esistenza. Gli stessi giovani inglesi, americani o tedeschi che affollavano gli alberghi di Roma o di Firenze erano ben consci che le comodità di cui potevano godere in patria li avevano allontanati da una vita “autentica” e “umana” della quale speravano di cogliere un barlume in Italia. Il tema di una felicità tanto semplice quanto inafferrabile è centrale in Henry James, che appena giunto a Roma, scrisse al fratello William: “At last—for the first time I live! […] For the first time I know what the picturesque is.”
Ma, nella sua appassionata ricerca del pittoresco, James era ben conscio che “the picturesque is measured by its hostility to our modern notions of convenience”.[6] Ecco che, già nel XIX secolo, la “vera” vita – for the first time I live! – si definisce in opposizione all’idea di comodità, convenience. I giovani, nobili o borghesi, che visitavano le nostre città avevano avuto un’esperienza privilegiata e precoce dello sviluppo industriale, o per dirla con Günther Anders, della superiorità ontologica della macchina. Non è un caso che Daisy Miller, una delle eroine di James più rappresentative dell’ineluttabile attrazione verso l’Italia e la città di Roma, provenisse da Schenectady, una prospera cittadina industriale dello stato di NY (la General Electric venne fondata a Schenectady pochi anni dopo l’uscita del racconto di James).
Meno di un secolo più tardi, Pasolini constatava con scoramento che lo Sviluppo (industriale, capitalistico, consumistico) si era ormai esteso alla gran parte del mondo, comprendendo anche la penisola italiana e la città di Roma, simbolo e capitale del mondo antico. E oggi, come ha scritto Zygmunt Bauman in uno dei suoi ultimi testi, l’“angelo della storia” guarda oramai con terrore la tempesta che spira dal futuro, così rivalutando il passato, certo più arretrato, meno confortevole e comodo, ma al riparo “dai danni che il futuro ha prodotto ogni qual volta si è fatto presente”.[7] E ormai siamo tutti preda di una qualche Retrotopia: tutti cerchiamo conforto in letture, oggetti, pensieri rivolti al passato, cercando un effimero sollievo dalle angosce del capitalismo industriale, che condanna il sistema a una sorta di immobilità naturale, nell’angosciante certezza di un pessimo finale (ambientale, nucleare, sociale).
Certo, il “sistema” non può che continuare la sua marcia di sfruttamento e di progresso, e anche la tendenza retrotopica è stata, come ogni altro aspetto culturale, sussunta e gestita dal capitale: e oggi non esiste ambito commerciale in cui il prodotto retrò non sia disponibile, selezionabile, acquistabile, per rendere ancora una volta la nostra vita più facile e comoda. Cent’anni dopo il Grand Tour della prima borghesia industriale, il bisogno di guardare al passato per ritrovarvi un barlume dell’umanità perduta è divenuto di massa, ed è ormai l’ingrediente principale di tante strategie di marketing. Ma è paradossalmente proprio ora, mentre sentiamo di aver perduto tutto, che possiamo renderci conto di quel che significa aver concepito la comodità soltanto come un vantaggio immediato e percepibile, legato all’utilità del momento, senza conseguenze per il futuro.
Perché, se guardiamo all’etimologia della parola, la comodità non è sempre stata questa: nella sua prima accezione la parola latina commoditas significava proporzione, armonia, giusta misura dal sapore epicureo[8]. Concepire la comodità come proporzione significherebbe chiedersi quanto in una certa idea di progresso ci sia davvero di utile, comodo, vantaggioso, senza farsi abbagliare dalle sirene illuministe. Significherebbe mettere in dubbio l’oggetto tecnologico, la cui utilità è oggi considerata inevitabile e addirittura “naturale”, mentre ogni obiezione è derisa e guardata con sospetto. Significherebbe allontanarsi dal furore progressista che ha reso le macchine, e la loro luccicante perfezione, le divinità della nostra epoca.
*
[1] Andrea Inglese ha fatto notare come in tempi recenti all’opacità della macchina rispetto all’utilizzatore si sia aggiunta l’opacità degli algoritmi che organizzano i dati effettivamente prodotti dagli utilizzatori. https://www.nazioneindiana.com/2021/11/03/umanisti-del-nuovo-secolo-e-sottomissione-tecnologica/
“Si presenta dunque una sorta di doppia alienazione nei confronti del mezzo tecnologico: rispetto alla macchina, composta di hardware e di software dei quali l’utilizzatore non sa nulla, e rispetto all’algoritmo, sorta di super cervellone lontanissimo e inaccessibile. Anche di questa macchina l’utente non conosce e non può gestire nulla: eppure essa si nutre e prospera grazie ai dati che egli, con milioni di altri, gli fornisce quotidianamente.”
[2] Uso qui il titolo di un paragrafo del libro La scorciatoia. Come le macchine sono diventate intelligenti senza pensare in modo umano di Nello Cristianini, Il Mulino, Bologna 2023.
[3] Nello Cristianini, Sovrumano. Oltre i limiti della nostra intelligenza, Il Mulino, Bologna 2025.
[4] Alain Ehrenberg, La fatica di essere se stessi. Depressione e società, Einaudi, Torino 2010.
[5] Günther Anders, L’uomo è antiquato. Vol. I. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 2010, cap. 1, par. 5.
[6] Citato in Nelson Moe, The View from Vesuvius. Italian Culture and the Southern Question, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 2002, p. 19 (corsivo mio).
[7] Zygmunt Bauman, Retrotopia, Laterza, Bari-Roma 2017, p. XVII.
[8] Anche gli altri significati latini (momento opportuno, compiacenza) sono del tutto scomparsi, mentre l’accezione che avvicina la comodità al vantaggio percepibile, all’utilità degli economisti classici è invece ricorrente anche e soprattutto nelle varietà substandard, a dimostrazione della rilevanza del concetto nella società contemporanea.