“Il dio dei puppi”: satira queer, autocritica e risate sacre
di Rosa Maria Di Natale
C’è un dio che non promette salvezza né castiga i peccatori. Un dio che non sta nei cieli, ma sul palco di una drag night. Un dio che detta comandamenti con glitter e rossetto e invita alla liberazione, ma solo se prima hai imparato a ridere di te stessə. Questo dio si chiama Il dio dei puppi, e abita le pagine dell’omonimo libro (Il dio dei puppi è grande e ti punisce) firmato da Alessandro Motta, insegnante, bioeticista e attivista queer, e Dario Accolla, insegnante e attivista gay (Villaggio Maori Edizioni).
È un testo che assomiglia a un culto improvvisato in un retro palco, a un sermone predicato tra ironia, identità e rabbia lucida. Ma più che offrire risposte, il dio dei puppi alza specchi. Non per vanità, ma per necessità: “La parola chiave, in un caso o nell’altro, è sempre quella: marginalità”.
“Puppi”, parola anticamente usata come insulto in siciliano, qui viene risignificata e fatta brillare. “Si è scelto il termine dialettale puppi sia per dare un nuovo significato a quello che era un insulto, sia per creare un nuovo termine in cui la comunità queer possa riconoscersi. Affinché il processo di nominazione non sia affidato al soggetto oppressore, ma a una risignificazione di chi quell’oppressione la subisce”
In una sola mossa linguistica, il dolore diventa potere, lo stigma si fa bandiera. Una lezione capitale: il linguaggio non descrive soltanto il mondo, lo costruisce. E se chi opprime nomina, allora la vera sovversione parte dal togliere la penna al carnefice.
Il dio dei puppi detta i suoi comandamenti – anzi, “suggerimenti”- con l’eleganza impietosa delle grandi icone queer: “Ti ho dato l’orgasmo. Godine!”; “Onora la madre, il padre, la madre e la madre, il padre e il padre, la madre e il padre. Ma solo se lo meritano”. È in questi passaggi che la satira si fa teologia alternativa, un breviario queer che dissacra per rivelare.
Motta e Accolla non risparmiano nessuno, neanche la comunità arcobaleno. Anzi, proprio lì dove la retorica tende a incensare, loro incidono: “Per troppo tempo la comunità queer è stata dominata da quello sguardo (del sistema ndr) che, storicamente, ha marginalizzato le altre identità”. Così, il dio dei puppi diventa anche giudice interno, capace di denunciare il culto della mascolinità tossica, il classismo dentro il movimento, la gerarchia delle accettabilità.
E se la religione ha bisogno di santi, il queer ha bisogno di icone. Ma anche qui il pantheon traballa. Judy Garland, “la madre di tutte le icone moderne”, che con Over the Rainbow regalava una via di fuga oltre i confini dell’eteronormatività. Madonna, che cantava nel 1992 In This Life per l’amico morto di AIDS, diventando una delle prime testimonial globali della lotta. E poi, naturalmente, Raffaella Carrà: “Bionda e non ne parliamo più! Un bel caschetto biondo con la frangia. Flessibile assai che deve fare certi movimenti che la gente dovrà dire: E si vede che questa l’ha creata il dio dei puppi”.
Ma l’adorazione cieca non convince, perché anche le muse cadono. Arisa, un tempo madrina dei Pride, poi indulgente con chi nega i diritti. Cuccarini, in bilico tra passato glitterato e dichiarazioni anti-matrimonio egualitario. “Essere icone non basta: serve coerenza”.
La satira del dio dei puppi tocca anche la più intima delle pratiche queer: il coming out. Un atto di rottura che, come nell’Esodo biblico, ha a che fare con l’uscita dalla casa del padre. “Lasciare la casa paterna è una necessità, soprattutto per quelle persone LGBTQIA+ che vivono in piccoli contesti”. Qui la città diventa la nuova Terra Promessa: Milano, Roma, Bologna, ma anche Palermo e Catania; spazi in cui esistere non è più trasgressione, ma sopravvivenza.
Fabio Corbisiero, sociologo e autore di Città arcobaleno, lo dice chiaramente: “La città, assieme ai suoi quartieri, è l’arena entro cui si articolano i discorsi e i movimenti della comunità omosessuale che, in maniera progressiva, chiede a quella stessa città di farsi carico delle proprie questioni, soprattutto del diritto a spazi pubblici più sicuri”.
Le metropoli diventano santuari, ma anche campi di battaglia. La visibilità non è solo diritto individuale: è pratica politica.
Nel cuore del testo si legge una verità semplice e feroce: “Il problema non è il desiderio omosessuale, ma la paura dell’omosessualità”. Guy Hocquenghem lo scriveva già nel 1972. E Foucault, pochi anni dopo, gli dava man forte: il sesso è terreno di potere, e il piacere è sempre politico. “Il patriarcato disegna il pentagramma, decide il tempo e la chiave, ma siamo noi a metterci le note e a cantarlo”. Il dio dei puppi, in questo senso, è un’orchestra queer che suona fuori spartito.
Il libro di Motta e Accolla non chiede l’adesione cieca, ma l’autoironia. È un testo che riporta la comunità LGBTQIA+ a fare quello per cui è nata: spostare l’equilibrio, rompere le righe, generare bellezza fuori norma. Ma serve moltissimo agli etero, sia perché il “pensiero eterosessuale dominante non ha molto rispetto per coloro che considera «eterosessuali», sia perché (sempre Guy Hocquenghem) “non esiste una reale distinzione del desiderio, tra persone omosessuali ed eterosessuali. Tale divisione è un costrutto sociale da mettere in discussione”.
Perché, come scrivono i due autori, “mentire è necessario. Lo so, lo sai. Ma non su chi siamo. Su quello, non si transige”. E se Dio, questo dio queer e sarcastico, esiste davvero, allora ci guarda mentre balliamo. E ride con noi.