Da “La luce inversa”
[Pubblichiamo un estratto di Mota, La luce inversa, Wojtek, 2025]
di Mota
Martin
L’essenza di questa sorta di guerra sta nel non dimenticare mai quanto si sia arrivati vicini a perderla. Malgrado la vittoria stessa appaia impossibile; sono piuttosto l’assiduità di un compromesso, la desquamazione dovuta all’addestramento e all’autodifesa, che nel proteggere una cosa inevitabilmente ne portano in superficie il nucleo fragile o indebolito, lo strato sottostante che non fa in tempo a rigenerarsi, prima che un nuovo scontro venga a comprometterne e a distruggerne i vulnerabili equilibri.
Sto per infrangere tutte le regole, le promesse, le buone maniere. Sto per rompere gli indugi.
Perché tutti, tutti noi, traiamo origine e sostentamento da un trauma.
Ho inchiodato il ricordo al muro di ossa che mi porto dentro, come un manifesto, e l’ho dissacrato attraverso la fame più assoluta che si possa concepire. Ho imposto al ricordo l’inedia implacabile, con essa l’ho torturato. Ma non moriva. Allora ho accettato che tra di noi fosse guerra perenne. Così l’ho risollevato dalla sua carcerazione preventiva, perché non potevo accontentarmi di un nemico azzerato. Una volta ripresosi, quel ricordo falciò e divorò tutti gli altri ricordi, tutti quelli buoni e perfino quelli mediocri, intridendo la mia casa di voci spettrali che ne infangassero e ne potessero maledire i risvegli. Tentò di manomettere ogni forma d’amore, o di semplice affidamento, e probabilmente ha ottenuto un successo superiore alle aspettative. E dopo anni di ingannevole pace, con appena un grammo di me da lasciare al rimorso, mi sono visto costretto ad azionare la macchina d’assalto, la fiamma carnivora del linguaggio che vuole solo oltrepassare, e a impugnare strangoli di ghiaccio e forbici da potatura stellare e a salire su giostre di offesa perpetua e a vibrare all’unisono con i sistemi nervosi dei terremoti; quando un uomo è sempre pronto a morire padroneggia la via, che sarà il pellegrinaggio dell’occhio dell’anima, e la via dei guerrieri.
L’oscurità possiede un colore, un caratteristico colore denso, abissale, una tessitura che il buio ordisce e regola, come se numerose mani di vernice fossero state sovrapposte dapprima caoticamente e via via con sempre maggiore metodo; una specie di riflesso negativo, che a fissarlo troppo a lungo ti si appiccica agli occhi.
Sdraiato nel suo letto, il bambino sta osservando il buio. È voluminoso, sopra di lui, una gelatina oceanica che occupa tutta la stanza. Il fratello minore dorme, respirando regolarmente, nel letto a due passi dal suo, verso la parete. Il padre dorme nella camera al di là del muro; la mattina si alza molto presto, all’alba, malgrado non sempre sia necessario, è solo un’abitudine inveterata, prepararsi il caffè e andare a comprare il giornale e la focaccia per la colazione dei figli; la porta della grande camera da letto dei genitori è appena accostata. La madre dorme in salotto, sul divano, davanti al televisore acceso; ma l’audio è al minimo, le voci e le risate e gli applausi e le sigle divisorie e consolatorie di quell’irraggiamento radiotelevisivo notturno si disperdono per la casa, ingoiate dalle tende e dall’intonaco, come molecole di suono troppo deboli per sperare di sopravvivere a più di mezzo metro di distanza dallo schermo. Richiami lontani, di naufragio. E furtivi riflessi azzurrognoli di lavatrici ultraeconomiche e serial killer sadici, sul pavimento.
Sembra una di quelle notti in cui si vorrebbe solamente gridare.
Non può continuare a osservare tutto quel buio e quel silenzio. Il bambino socchiude gli occhi, facendo affidamento su esili spiragli tra le palpebre per assicurarsi che nessuno volteggi o cammini o strisci lì fuori, che nessuno possa trasportarsi con un fruscio scheletrico da un lato all’altro della stanza, minacciando lui o suo fratello. Però, anche così, la profondità di quelle ore inanimate lo soverchia, e il bambino non possiede i mezzi per opporvisi. Pur riparato dagli strati di due trapunte, completamente nascosto, coperto fin sotto il mento, unicamente la testa fuori, la testa con il naso e la bocca per respirare e gli occhi per sorvegliare e all’occorrenza spalancarsi di colpo, nonostante quello scudo difensivo comune a tutti gli eserciti di bambini privilegiati dagli albori della civiltà privilegiata, questo bambino sente freddo e sa che il freddo non proviene dall’esterno; strofina i piedi inutilmente, e se anche il leggero rumore dei talloni che sfregano contro il materasso lo conforta un po’, l’ombra continua a essere troppo reale, troppo dura e malsana e traditrice, quell’ombra infinita che opera per farlo soccombere. Ma forse una tecnica c’è. Esiste un modo per racchiudere il suo letto e la stanza e la casa e il cortile, e la strada fuori incantesimata dalla nebbia, e la città e le altre città e perfino l’intero pianeta, racchiuderli in un involucro energetico infrangibile. Il bambino, imprigionato tra le lenzuola, con il rimbombo delle tenebre che si estroflette dal pavimento e dalle pareti come un’orda di braccia da una forra per cadaveri, lui che non può far altro che starsene lì immobile, sudando e avvertendo tra le gambe il pizzicore di quando si finisce irrimediabilmente con il pisciarsi addosso, temendo che quell’attimo debba durare per sempre, o per sempre anche solo possa, ora quel bambino chiude gli occhi, serra con una severità statica gli occhi incattiviti che non riescono a prendere sonno, abbandonando ogni cosa al proprio destino.
Gesù, inizia a bisbigliare. Gesù mio, so che sei qui. So che mi stai ascoltando.
Prega il Figlio crocifisso e non il Padre onnipotente, perché non sussistono dubbi su chi ispiri maggiore simpatia, tra il Figlio e il Padre. E il bambino, senza che nulla possa ormai disturbarlo o affliggerlo ulteriormente, o distoglierlo, intimidirlo, né l’intercessione, né la domanda, senza esitazione di fronte ai vizi di forma, alle questioni aprioristiche, la potestà di Dio, l’autenticità evangelica, con il sussurro più impercettibile di cui sia capace, il bambino ora prega per raggiungere semplicemente uno scopo.
Da quel momento, sembra che tutte le costellazioni del cielo e le contrazioni cardiache prodotte da ogni bestia mai nata stiano pulsando all’unisono. Per lui. Per riscaldarlo.
Anche se non sono stato bravo, so che mi aiuterai. Ti prego, Gesù, aiutami. Ti prego. Ecco, ho fatto di nuovo l’arrogante, come dice la maestra. Perdonami. Tu mi aiuterai se vorrai aiutarmi, sia fatta la tua volontà, sempre. Gesù, Gesù, potrai mai perdonarmi, ora che ho sbagliato di nuovo?
S’incrina, qualcosa di colpo s’incrina. Immediatamente quel buio argilloso e rampicante, al quale vengono date in pasto le anime difettose, difettose come la sua, quel buio si allunga e si rafforza, incalzandolo. Per un istante la realtà torna viva; il sudore che gli incolla il pigiama al corpo, il sonno costante di suo fratello, i suoni spiccioli che dalla tv si consumano in una lontananza sleale.
È il colore, è la pressione atmosferica dell’oscurità. Il bambino vorrebbe accendere la lampada sul comodino, ma è tardi, teme di svegliare sua madre, ha ben presente come reagisca in quelle circostanze, lei, destatasi di colpo sul divano, con una corsa spazientita oltre la soglia della cameretta, lei che gli chiede bruscamente perché ancora non stia dormendo, quella domanda che non è una domanda bensì un’accusa, un modo a doppio taglio di esercitare la premura; per cui ci ripensa, e non fa nulla. Come se l’insonnia, quando riguarda i bambini, meritasse piuttosto una condanna senza appello che non un moto di empatia.
Non sbaglierò più, te lo giuro. No, giurare è peccato. Te lo prometto, così va meglio. Ho bisogno del tuo aiuto, Gesù, e sai che ti seguirò per tutta la vita, pregherò e sarò buono e non dirò le bugie e da grande diventerò una brava, bravissima persona. Ma adesso proteggimi e non farmi morire. Proteggi quel mio fratellino che dorme tranquillo, non permettere che apra gli occhi in mezzo a tutto questo buio. Proteggi me e mio fratello, e mamma, proteggila sempre e non farla morire, e papà, proteggilo sempre e non farlo morire. Gesù mio, so che mi ascolti e ti ringrazio per tutto quello che mi hai dato. Perdona mamma e papà, forse loro non ti ringraziano spesso per tutto quello che ci hai dato, ma anche loro credono in te e sono buoni nel profondo del cuore. Dona loro la grazia e la fede, come dice il parroco, sii misericordioso. Ti prometto che starò zitto in classe e non riderò durante la messa, da oggi in avanti starò sempre zitto e non farò l’arrogante. Proteggimi e rendimi forte, non farmi morire, Gesù. Proteggi e non far morire la mia famiglia. Proteggi la maestra, i miei compagni, il maestro nuovo che in fondo è simpatico, proteggi i miei zii e i miei cugini e quelli della mia squadra di calcio ai giardinetti e anche quelli della squadra avversaria, e non farli morire. Proteggi i nonni e… Gesù, proteggi gli altri nonni e non farli morire… ma
lui
no… lui no…
Gesù, ti prego e ti supplico… lo sai quello che intendo, hai visto quello che fa… io lo so che deve andare all’inferno, e se sono stato cattivo e sono sporco allora andrò all’inferno anch’io, perché ho fatto la stessa cosa che fa lui. Non la farò mai più, Gesù. Lo sai, lo hai sentito, lui ha detto che è normale, che è una cosa normale, una cosa solo tra noi due, lui mi vuole bene, però se lo racconto a qualcuno andrò all’inferno con lui. Dice che siamo uguali, ormai. Dice che siamo maledetti. Mi fa schifo questa cosa che siamo maledetti, mi fa venir voglia di vomitare e vorrei urlare, e non so nemmeno se è la verità, Gesù, se fa star male, se è una specie di malattia, ma so che è una cosa sbagliata. Posso parlarne solo con te, lui non saprà mai che ne parlo con te. È un segreto. Tutto è un segreto. E non so se mi piacciono, i segreti. Lui mi ha fatto vedere il pozzo dove finiscono i bambini che raccontano i segreti, però ci ha messo sopra una lamiera perché dice che mi vuole bene, che mi vuole bene più di tutti gli altri messi assieme, non vuole che mi succeda qualcosa e io non devo assolutamente avvicinarmi al pozzo. Tanto non lo so a chi posso dire questa cosa, solo a te, nessuno mi crederebbe, non so proprio come dire questa cosa a mamma, mi vergogno, quando stavo per parlare con lei che mi sgridava ho sentito la gola che si chiudeva e mi mancava il fiato, mi viene il singhiozzo, mi manca l’aria, sento che sto per piangere e soffocare, qualcosa mi schiaccia la gola e il cuore si stringe e si blocca. Lui ha detto che mi succede così perché non devo dire nulla, è da quello che capisco che non devo dire nulla. Quando mi parla a bassa voce e si avvicina a me con quella faccia… non mi succederà niente, se mantengo il segreto. Mi starai vicino, Gesù? Posso mantenere il segreto per tutta la vita, se tu mi dai la forza, Gesù, se mi proteggi e non mi fai morire per questo. E se lui non tocca un altro. Nessun altro, ma prima di tutti mio fratello. Gesù… lui non lo tocca, un altro, io lo controllo ma devi controllarlo anche tu. E intanto proteggi tutti noi, e non farci morire. Ma lui non proteggerlo. Fallo morire se puoi. Fallo morire subito. Se lui muore, il segreto scompare, tutto scompare. Fallo morire. Non devo dirlo, è vero, è un brutto peccato. Perdonami, Gesù, continuo a fare l’arrogante, come dice la maestra, e a commettere peccati orribili, ma mi ricordo cosa ha detto il parroco dei peccatori. Che tu avrai pietà dei peccatori, che lo Spirito Santo scenderà anche su di loro. Dammi la forza, insegnami cosa devo fare per non commettere più peccati. Io voglio venire con te in paradiso. E ti chiedo scusa, Gesù, non tenere conto di quello che ti ho detto, cancella tutto. È colpa mia, colpa mia, colpa mia. Ho paura di morire e di andare all’inferno, ma sono nelle tue mani, così il buio va via e tu puoi salvarmi. Guarda dentro di me, vedrai che sono sincero, però… guarda dentro di me, guarda dentro di me, solo questo, Gesù. Perché se guardi dentro di me non ci sono più segreti, ma solo la verità… grazie di avermi ascoltato, Gesù. Grazie. E adesso fammi addormentare, ti prego, fammi addormentare. Amen…
Il bambino, al centro del buio, sente le lacrime che gli sfuggono dagli occhi chiusi, scivolano tra le ciglia, vanno a bagnare il cuscino. Ha sei anni, forse sei anni e mezzo. E certi aspetti del mondo non si possono recidere e gettare via perché il resto continui a sembrare incontaminato.
Ma adagio, sorgendo quasi fosse un ruscello, un’interferenza pacifica che si riversasse nella stanza in opposizione a quel ristagnare di tenebre, la stanchezza finale permette al bambino di allentare la tensione del collo e del torace, delle mandibole, delle gambe, di tutti i muscoli e i nervi dell’organismo; e il suo pianto è davvero corto, infinitesimale. Qualcosa dilaga nel buio, trasformandolo in un buio normalissimo, un buio nel quale sarebbe possibile perfino dormire.
E il bambino è talmente fragile, adesso, da credere che la salvezza sia reale. E, se non la salvezza, almeno una cura. Temporanea. Un sentimento, breve e indefinito, le cui conseguenze tuttavia apparissero, a un primo impatto, identiche alla salvezza.
Nuotiamo in questo cielo terso, dove non ci sono direzioni più valide di altre.
Luce Inversa, è così che si chiama.
Lo stato di regressione più avanzato ed evidente è quello di Siddiq. Ogni tanto perfino i lineamenti del suo volto paiono ringiovanire. Ma dal punto di vista fisico è quello che ha reagito meglio; si muove con agilità e scioltezza, si libra negli spazi come erba che dopo lo sfalcio venisse trascinata dal vento, le braccia che si dibattono con invidiabile sincronia, sbucando quasi fossero modanature di una carrozzeria brunita dalle maniche della t-shirt arrotolate sulle spalle. È qualche metro avanti a noi, costantemente qualche metro avanti a me e Vanessa.
Lei, invece, non riesco a inquadrarla. Il suo timore di perdere tutto non si armonizza con quella che riconosco come un’innegabile forza. Se per ora resiste, se avanza con noi, immagino che sia a causa dell’improvvisa paura di rimanere sola; la paura di deragliare, di smarrirsi. Ancora una volta.
Vanessa è bella, bella in quella che sembra l’unica maniera della bellezza, ed è caparbia. Ma voglio soprattutto che sia consapevole.
Qui non ci stiamo giocando un’opportunità.
Ci stiamo banalmente giocando tutto.