Il mio nuovo compagno di classe

di Max Mauro
Tom arrivò a scuola a metà mattina, era quasi ora della ricreazione e tutti fremevano per scappare fuori. Io e Devis avevamo già pronte le squadre per la partita di calcetto con la palla da tennis, tre contro tre, sulla pista di atletica. I limiti delle porte erano fissati con dei sassi che alla fine della ricreazione lasciavamo ai bordi della pista, per evitare che qualcuno ce li buttasse via. Quel giorno avevamo ingaggiato Marco Tollis della prima B, era uno dei migliori calciatori della scuola, ed era la prima volta che giocava con noi sulla pista di atletica. Il quarto d’ora di corse e calci all’aria aperta rubato ai banchi della scuola media era, per noi, la cosa più memorabile della giornata.
Insomma, avevamo dei pensieri importanti a cui badare quando Tom si presentò in classe. Beh, non andò proprio così. Fu il preside, il professor Vidotto, ad entrare in classe e tutti si alzarono subito in piedi, come ci avevano istruiti a fare. Era la lezione di italiano con la professoressa Turchet, l’unica tra i prof che non mi mettesse a disagio, anzi spesso mi faceva stare bene, pur essendo io uno studente inguaribilmente distratto.
Il preside entrò e dietro di lui, nascosto dal suo corpo massiccio, lungo e largo come un armadio a due ante, si intravedeva un bambino, un essere piccolo, ma chiunque di noi sarebbe apparso minuscolo accanto al prof Vidotto, che da ragazzo aveva giocato a rugby perché era cresciuto nel sud della Francia. Noi in prima media non ci consideravamo più bambini, perché le medie erano per gente grande, le elementari erano per i bambini. Però Tom, come venne presentato dal preside, mi apparve un bambino, e un bambino piuttosto strano.
Indossava stivali di gomma, di quelli che si usano per andare nei campi quando piove o nell’orto in autunno. Erano piuttosto sporchi, come se fosse arrivato direttamente dai campi. Magari era quella la ragione per cui non era venuto a scuola al mattino, all’inizio delle lezioni, perché era stato nei campi ad aiutare i grandi. Ho notato prima gli stivali, gialli con macchie marroni di terra, di pantano, e poi la giacca. Era un giaccone, a dire il vero, forse passatogli da un fratello più grande, perché era fuori misura per lui, gli arrivava quasi alle ginocchia e le maniche erano arrotolate all’altezza dei polsi. Gli stivali e il giaccone sono state le prime cose che ho notato quando il professor Vidotto si è scostato per presentarlo.
Ragazzi – disse – questo è Thomas, ma chiamatelo Tom, il vostro nuovo compagno di classe. E’ appena arrivato dal Sud Africa.
Poi il preside rivolse lo sguardo alla prof Turchet, che da quando era entrato stava in piedi accanto alla cattedra immobile come una balaustra, e sorrise, un sorriso piccolo piccolo come quelli che fa il parroco quando passa per le case a benedire (e veramente l’unica ragione per passare è raccogliere la decima). Poi uscì.
Tom rimase in piedi, bloccato nel punto in cui si trovava, a mezza via tra la cattedra e la porta, sull’angolo della lavagna. La sua testa copriva parte delle cose scritte dalla prof Turchet: si leggeva “unzione”, stava spiegando la congi-unzione, la terribile congiunzione.
Tom aveva capelli biondi, lisci e piuttosto lunghi, anzi proprio lunghi. Nessuno di noi portava i capelli lunghi. Io, che avevo i capelli ricci, dovevo tenerli sempre corti. Vai a tagliarti i capelli, diceva mio padre appena notava lo spuntare di un riccio sulla fronte. E io andavo a tagliarli. Mi pareva fosse una cosa giusta da fare, tagliare i capelli, perché faceva contenti gli adulti, e poi gli adulti hanno sempre ragione, pensavo al tempo. Com’era possibile che Tom portasse i capelli così lunghi? Non aveva dei genitori che gli dicevano di tagliarli, che gli davano i soldi per andare dal barbiere o lo portavano direttamente?
Era abbronzato, anche se eravamo a febbraio. Beh, se era appena arrivato dall’Africa, ci stava che fosse abbronzato, pensavo io. Ma che posto era il Sud Africa? Quasi tutti, nella mia classe e nel paese, avevano parenti all’estero, e molti di noi erano nati nell’emigrazione. Io e Devis, per esempio, eravamo nati in Svizzera, come anche Sandra e Maurizio. Marino era nato in Francia, come il prof Vidotto, altri erano nati in Belgio. Io avevo parenti in Canadá e perfino in Argentina secondo una zia che non vedevamo mai e non sono nemmeno sicuro fosse mia zia. Ma il Sud Africa, chi mai andrebbe in Sud Africa, pensavo tra me.
La prof indicò a Tom un posto in uno dei banchi in prima fila e lui si sedette, con il suo giaccone addosso, e la testa coperta di capelli che cadevano anche sul viso. Da quel po’ che riuscivo a vedere del suo viso, mi appariva pallido, nonostante l’abbronzatura. Io al posto suo, con gli occhi di trenta bambini, anzi ragazzi, addosso, sarei diventato bianco come un cencio, sarei sparito sotto il banco. Se fosse arrivato all’inizio delle lezioni sarebbe stato diverso, non avrebbe avuto tutta quell’attenzione su di sé, ma così, a metà mattina, era un po’ difficile. Mi fece pena.
Tom non aprì bocca, nessuno ebbe modo di sentire la sua voce. Forse la prof Turchet, che era un adulto insolito, non voleva imbarazzarlo ulteriormente facendogli domande, e lo lasciò tranquillo. Forse non parlava bene l’italiano, e lei lo sapeva. Magari parlava la lingua del Sud Africa (ma che lingua parlano in Sud Africa? A scuola non lo insegnavano) e il friulano, come tutti gli emigranti, ma non l’italiano.
Suonò la campanella e la classe si svuotò rapidamente.
Non so se lui rimase seduto al banco in prima fila o si alzò come facevano tutti. Io scappai veloce verso la pista di atletica con Devis. L’unica cosa che mi interessava era la partita di calcio con la palla da tennis e mi dimenticai presto del bambino-ragazzo col giaccone troppo grande, gli stivali di gomma, i capelli lunghi, e del Sud Africa.
Il calcio con la palla da tennis era un gioco particolare. Non era come giocare a pallone, gli spazi erano ridotti e la palla piccola piccola, che non potevi distrarti, la dovevi guardare sempre perché non sfuggisse via. Quando la colpivi bene, la colpivi forte, faceva un suono come di uno sparo, PAM!, e schizzava a cento all’ora. Era troppo veloce e c’era il rischio che finisse nel canale che separava la scuola dai campi; quindi, avevamo stabilito come regola di non colpirla troppo forte. Le regole venivano decise dai giocatori, come è giusto che sia, anche se io e Devis avevamo più autorità; io perché avevo inventato il gioco e Devis perché portava la palla, che aveva preso (o rubato) dalla borsa da tennis del fratello più grande.
Quando tornammo in classe, sudati e confusi come sempre alla fine della ricreazione, trovammo Tom seduto al suo posto, nella stessa posizione in cui l’avevamo lasciato, con il giaccone e tutto il resto, non era cambiato niente.
Alla fine della lezione, vidi Alberto Zuffi avvicinarsi a Tom. Zuffi era di San Marchisio, il paese da cui veniva Tom, cioè era il paese di suo padre, che era emigrato da giovane in Sud Africa e ora era rientrato con il figlio. Chi mi aveva riferito la storia non aveva menzionato la madre, forse era rimasta là, forse era morta, nessuno lo sapeva. Zuffi, che era il migliore della classe ma non lo dava a vedere, era uno fondamentalmente buono. Quelli del suo paese mi avevano detto che era il capo dei chierichetti, portava l’aspersorio durante le benedizioni e la croce durante le processioni. Era sempre il primo nelle cose da grandi, ma nel calcio e nello sport, no, non era bravo, non credo fosse interessato. Per questo motivo io e Devis non gli davamo molta attenzione, però riconoscevamo che non era cattivo. Fu grazie a lui che conoscemmo Tom.
Zuffi lo aveva avvicinato perché avevano dei parenti in comune, suo padre era un mezzo cugino di sua madre, qualcosa di simile, e sapeva che sarebbe venuto alla scuola media. Però, anche lui fu sorpreso di vederlo arrivare a metà mattina.
Il giorno dopo, quando entrai in classe, Tom era già al suo posto, nel banco in prima fila. Non aveva più il giaccone addosso, lo aveva appeso sugli appendini lungo la parete, e non aveva gli stivali. Indossava delle scarpe da tennis che un tempo erano state bianche o chiare, ma erano molto usate, annerite sui bordi e sulla punta. Io guardavo sempre le scarpe delle persone, le scarpe mi hanno sempre incuriosito perché dicono qualcosa di quelli che le indossano. Portava un maglione di lana grossa di un colore incerto, un po’ marrone un po’ grigio, e come il giaccone mi pareva troppo grande per lui. Aveva dei jeans consumati sulle ginocchia, mi piacevano i jeans consumati sulle ginocchia, mia madre non mi avrebbe permesso di portarli. L’unica cosa che non era cambiata erano i capelli, lunghi e biondi, che gli coprivano parte del viso, e forse lui voleva così.
A ricreazione Marino invitò Tom a giocare con noi. Aveva parlato con Zuffi, erano dello stesso paese e Zuffi gli aveva detto che Tom giocava a calcio. Sul momento la sua iniziativa mi spiazzò, come si permetteva di invitare gente senza consultare me e Devis? Però quel giorno Uboldi era malato e ci mancava un giocatore, quindi non ne feci un problema.
Ma cosa parla? Chiesi a Marino.
Parla italiano – disse Marino – ma lo parla male. Il friulano non lo sa.
Ci presentammo e gli spiegai che nel nostro gioco non c’erano ruoli fissi, si giocava in tre e tutti facevano tutto, difensore, attaccante, portiere; il portiere vero e proprio non c’era perché le porte erano piccole, mettevamo i sassi a un mezzo passo di distanza uno dall’altro.
Ok, giusto – disse.
Mi accorsi che diceva “ok, giusto” per qualsiasi cosa. Tom era mancino e questo lo rendeva speciale. Nella mia particolare immaginazione delle doti umane, essere mancino era una delle più desiderabili. Nel calcio il mancino ha un vantaggio naturale perché la grande maggioranza dei giocatori è fatta di destrimani. Di solito i mancini sono dei buoni giocatori, dei giocatori creativi. E sono bravi anche a disegno, almeno quelli che conoscevo io. Io invidiavo i mancini. Però Tom era un mancino atipico. Era facile intuire quello che avrebbe fatto con la palla, non era molto agile. Però metteva foga, era una furia nel gioco, e voleva calciare a tutti i costi. Mi ero scordato di spiegargli la regola che proibiva i tiri troppo forti, soprattutto se la palla era alta. Alla prima occasione che la pallina da tennis rimbalzò di fronte a lui, mirò la porta e BAM!, la colpì con tutta la potenza che aveva in corpo.
Noi tutti ci fermammo, temendo quello che sarebbe successo. La pallina sfiorò i limiti immaginari della porta e continuò la sua corsa oltre la pista di atletica, attraverso la siepe, direttamente nel canale. NOOO, il canale! Urlò Devis. Senza pensarci su inseguimmo la pallina e Tom ci venne dietro, ignaro di quello che stava succedendo. Era troppo tardi, la pallina già galleggiava sull’acqua scura del canale, portata avanti dalla corrente. Il livello dell’acqua era basso, forse cinquanta centimentri, e il canale era largo circa due metri. La pallina navigava al centro, la seguivamo dalla riva a piccoli passi veloci ma nessuno sapeva come recuperarla.
DRIIIIIN. La campanella annunciò la fine della ricreazione. Proprio in quel momento Tom saltò dentro il canale. Con un rapido movimento del braccio recuperò la pallina e risalì la riva. Tutto accadde in un attimo. Strizzò la pallina dentro la mano, stringendola forte come fosse fatta di pezza, poi la diede a Devis, con in viso un’espressione tranquilla, di uno abituato a risolvere problemi. Gli altri erano già rientrati e anche noi ci avviammo veloci verso l’edificio scolastico.
Seduto al banco, il respiro ancora affannoso per la corsa e un po’ stordito per quello che era successo, rivolsi lo sguardo verso i banchi in prima fila. Sul pavimento, attorno alla sedia di Tom, c’era una chiazza d’acqua che sembrava allargarsi. I suoi pantaloni erano zuppi dal ginocchio in giù, le scarpe gonfie e gocciolanti. Lui, impassibile, guardava dritto verso la cattedra.