Vivere è molto pericoloso… Conversazione immaginaria con Fabrizio Coscia
di Giuseppe A. Samonà
A proposito di:Fabrizio Coscia, Suicidi imperfetti, Editoriale scientifica, 2024.
Vorrei invitare i miei amici, le persone che mi sento culturalmente, umanamente affini, a leggere Suicidi imperfetti, di Fabrizio Coscia, ma ecco che per motivare questo mio invito mi trovo preso in tenaglia fra due tentazioni opposte. Da un lato, non ho da dire che tre parole: … perché è splendido! Dall’altro, vorrei impiegare tutte le parole del suo libro, un po’ nella prospettiva del Pierre Menard di Borges che riscrive il Quijote arrivando a un testo nel contempo identico e differente. Perché non c’è una sola osservazione, idea, parola appunto, di Coscia, che non mi abbia riecheggiato, risuonato dentro, che non abbia sentito semplicemente mia, anche dandomi voglia di riprenderla, commentarla, prolungarla. È un’esperienza, questa, capitatami solo con pochi libri, che continuano ad accompagnarmi: come se leggendo io avessi senza interruzione dialogato con l’autore, interpellandolo con domande o riflessioni.
Qui, fra le due tentazioni, provo a realizzarne una terza, e percorro una via più moderata, adeguata: non ordinatamente riassumendo e commentando il libro (mi sembrerebbe, come si dice nell’attuale critica cinematografica, di fare un imperdonabile spoiler), ma semplicemente evocando, con voluto disordine, alcuni stralci di questo mio dialogo solitario, cioè immaginario, per cercare di restituirne lo spirito. E vorrei farlo esponendomi anche personalmente, sentimentalmente, come mi sembra giusto: perché lui, Coscia, non si nasconde mai dietro la parete dell’erudizione, dell’accademia; ma, anche se non parla mai direttamente di sé, con onestà e coraggio delinea in realtà un suo modo di stare al mondo e di intenderlo, di intenderne la bellezza e il dolore, in altri termini, di amare, insieme interrogando il nostro, ad ogni pagina – un po’ alla maniera di Proust o Montaigne che usano gli altri per indagare se stessi e, soprattutto, se stessi per indagare gli altri, l’anima umana. Ed ecco, per cominciare, la mia prima domanda immaginaria a Fabrizio (Coscia), che chiamo pur non conoscendolo per nome, come lui fa con i suoi personaggi, rendendoceli più vicini, quasi li avessimo conosciuti, fossero nostri amici… E dunque : Proust lo nomini una volta sola, ma subito, nella tua introduzione; di Montaigne parli solo attraverso Rachel: quanto hanno contato l’uno e l’altro per arrivare a questo modo ibrido di fare « saggistica » (ma forse il termine non è adeguato)?
Già, Rachel, che è Rachel Bespaloff: le pagine che la concernono sono uno dei picchi della mia lettura, anche perché, per altre vie, Rachel è una mia autrice. Insieme ad altre sue opere, fra cui appunto uno studio su Montaigne, c’è infatti la sua rivoluzionaria, preziosa interpretazione dell’Iliade, che lei intende, in sostanza, come attraversata da una speranza, una possibile alternativa alla guerra. Non nel senso di un facile pacifismo, però, che come l’esaltazione della forza è una sorta di scorciatoia ideologica… mentre la guerra è come la vita, come il mare, il suo « fragore » dev’essere accolto prima che giudicato, anzi (questo, anche, è l’Iliade…), nella sua esaltazione del combattimento, con i corpi in lotta, che a volte sembrano danze d’amore, può persino, a tratti, rifulgere, incantare con la sua bellezza; e tuttavia serve solo a produrre infinito dolore e finisce per svelarsi nella sua radicale inutilità… Ma ecco che dentro la guerra esiste il suo antidoto: lo troviamo nel « resistente » Ettore, nel suo privato spazio d’amore con Andromaca, ma anche nel suo spietato « nemico », Achille, il guerriero per eccellenza, anzi, il guerriero selvaggio che stravolto dall’ira e dallo spirito di vendetta brucia le regole dell’onore, della cultura, e però ama teneramente la madre Teti, e l’amico Patroclo, e si commuove di fronte a Priamo, cui ha ucciso il figlio che gli aveva ucciso il suo Patroclo, o ancora canta, suona la cetra, quasi fosse una fanciulla (del resto, in un certo senso, lo è stato, una fanciulla, prima di partire per la guerra, proprio per cercare di evitarla) … Bespaloff analizza l’Iliade incrociandola con Guerra e pace e ancor di più con la Bibbia, impegnate tutte e tre, ognuna a suo modo, a stigmatizzare la hybris, nel senso dell’« orgoglio umano e della volontà d’onnipotenza ». Come non riflettere allora sul fatto che il greco Omero prova identica compassione per i « suoi » Achei e per i « nemici » Troiani? Può questo orientarci, esistenzialmente prima che politicamente, nella tragica attualità che viviamo in questo periodo, con il suo viluppo di devastanti conflitti? Ma oramai non si tratta più di Coscia, e neanche di Bespaloff; in realtà, senza accorgermene, sono approdato fra le mie riflessioni e parole: è un esempio delle risonanze di cui dicevo all’inizio.
Coscia invece – e non ci avevo mai pensato prima, e mi sembra un accostamento più che adeguato, necessario – sviluppa la sua analisi mettendo in parallelo Rachel Bespaloff e Simone Weil: entrambe ebree, entrambe costrette a espatriarsi a New York (anche se Weil poi riparte per l’Inghilterra, dove muore, a trentaquattro anni, nel 1943), rileggono l’Iliade nello stesso periodo, cioè sul finire degli anni Trenta, dentro la guerra e le persecuzioni che incendiano l’Europa, « senza sapere l’una dell’altra » (ma veramente, Fabrizio? a me viene voglia di approfondirla, questa coincidenza, questa mancata comunicazione…): anche se Weil, a differenza di Bespaloff, ne fa il poema in cui si rivela in tutta la sua necessità «la violenza brutale della forza ». Eppure proprio Bespaloff, che nell’Iliade era riuscita a scorgere una possibile via d’uscita e, a differenza di Weil, era sopravvissuta alla guerra, e non solo, aveva potuto salutare con speranza la nascita di Israele nel 1948, si toglierà la vita, nel 1949. Impossibile non pensare a Stefan (Zweig), altro personaggio del libro, che pur al sicuro e tranquillo in Brasile, si toglie la vita nel 1942, nel cuore della tragedia, di cui pur non può ancora cogliere l’incommensurabile ampiezza. O anche a Walter (Benjamin) e a Primo (Levi), che nel libro non ci sono, ma cui il libro, con altri, altre, è dedicato, i quali si toglieranno la vita, l’uno nel 1940, mentre dalla Francia oramai nelle mani dei nazisti fugge verso la Spagna franchista, l’altro nel 1987, più di quarant’anni dopo la fine della guerra, nella sua tranquilla Torino. Come se prima o dopo, anche molto dopo, nel pericolo o al sicuro, oramai confortevolmente installati nella vita, la catastrofe non lasciasse mai scampo, fosse inevacuabile.
Eh sì… Rachel, Stefan, Primo e Walter (che pur non essendoci ci sono…). Suicidi imperfetti – questo almeno va brevemente rivelato, anzi, avrei forse dovuto farlo all’inizio – indaga, racconta, con ritratti più o meno brevi, diciannove morti volontarie di artisti, scrittori, soprattutto, ma anche cantanti, pittori, attrici e attori. Con una prima sorpresa, che rapidamente mi è apparsa come un’evidenza, qualcosa che non poteva che essere così: le pagine che via via leggiamo, anche le più dolorose, sono piene di luce. Sempre! – e mai neanche un’oncia di curiosità malsana, di morbosità. E, quasi da subito, mi è venuta in mente una frase di Vladimir Jankélévitch (estratta dal suo La mort – l’avevo tradotta, poi all’ultimo momento la riscrivo in francese, che i lettori di Nazione Indiana leggono per vocazione, perché è così che, a distanza di anni, canta nella mia memoria): [La mort est] si simple que nous nous demanderons, le jour où nous saurons, comment nous n’y avions pas pensé plus tôt. L’avevo annotata a metà degli anni Novanta, a Montréal, dove dispensavo una parte del mio insegnamento in storia delle religioni antiche al Centre d’études sur la mort, con studenti che erano per lo più tanatoprattori, malati terminali, persone fortemente colpite da un lutto, infermieri in strutture di cure palliative, etc., quasi sempre giovanissimi. E sono stati incontri straordinari, momenti, oggi ricordi, fra i più forti della mia vita. Più volte mi sono tornati in mente, leggendo il libro di Coscia. Ad esempio, con Norma Jeane, meglio conosciuta come Marilyn Monroe, ho ripensato a quella lontana notte d’inverno… Ero uscito dal corso con Stéphane e Chantal, che erano a metà dei loro vent’anni, lui malato di AIDS, lei di cancro, oramai avanzato, innamoratissimi, e si corrispondevano non corrispondendosi: Chantal era piena di desiderio, Stéphane, omosessuale, di tenerezza e d’amore, ma al di qua, o al di là, del sesso – le voleva bene. Durante il corso aveva nevicato, tutto era adesso coperto da una coltre bianca, e continuava a nevicare, il rumore dei nostri passi era completamente attutito, c’era uno spicchio di luna annebbiato, sembrava di stare dentro una fiaba – e Chantal, guardando me ma pensando a Stéphane, al suo amore felice-infelice, ha detto (quasi a prolungare Jankélévitch sul campo) qualcosa come: La verità è che la morte è molto più semplice, tranquilla della vita, che non si capisce niente ma a volte, che meraviglia… (Chantal è morta qualche mese dopo quella notte). Incontri, incontri pieni di grazia. La stessa grazia che ho ritrovato in ogni pagina del libro di Coscia, che è la grazia – anche se a volte dolorosa, tragica – della vita.
(Ma perché mai le pagine su Norma Jeane / Marilyn mi hanno riportato a quella notte montréalese? Perché cominciano con la neve, certo, ma, ben di più, perché sono fra le più fisiche, corporee, sanguigne del libro. Attraverso la scrittura la rivediamo, in una scena del suo ultimo film, abbracciare l’albero, ubriaca, disperata e poi improvvisamente, il suo volto ci sta di fronte, trasfigurata dalla luce, come in preda a un’insensata, infantile allegria – e sappiamo che ha dentro la morte, non come ce l’abbiamo dentro tutti, ma con l’urgenza di quel che sta già per avverarsi. E ci viene voglia – parlo al plurale, credo che gli altri lettori, in quel momento, hanno avuto, avranno lo stesso slancio – di abbracciare con lei quell’albero, o di abbracciarla da sola, ma non per via della sua indimenticabile, sensuale bellezza, ma perché sentiamo che la morte, dentro quell’improvvisa luce, è in agguato, e ci struggiamo di tenerezza, di agape, vorremmo potere, magicamente, rassicurarla, e scacciarla via, la morte… E appunto, ho ricordato che avrei voluto abbracciare, con lo stesso spirito, Chantal, anche se il suo agguato era diverso, ma sempre di morte si trattava…)
Questo è il punto, fondamentale. La morte, in questo libro, non è l’obiettivo, o lo è nel senso letterale, di una lente attraverso la quale si cerca di cogliere la vita, che è ben più complessa. « In fondo la vita è molto più illogica della morte », lo dice anche Coscia, anche se una volta sola, incidentalmente, ma trasuda da ogni sua frase. Perché – e penso sempre a Jankélévitch, e in particolare al suo La mort, ma anche agli anni trascorsi a Montréal, in cui con la morte, per così dire, dialogavo sul campo – il tabù della morte è in realtà un tabù della vita, la morte vivendo di un curioso paradosso: è l’empêchement de vivre ma anche le moyen de vivre; in questa prospettiva, è il limite che dà forma e significato a quello ch’essa contiene, la vita. Così, siamo vivi, viviamo, solo perché siamo mortali, e in questo senso il est bien vrai que ce qui ne vit pas ne meurt pas ; mais c’est parce que ce qui ne meurt pas ne vit pas. Insomma, come ha detto Epitteto: « sia maledetta la vita senza la morte… » Come dire: chi nasconde la morte, nasconde la vita. Chi, invece, avendo pienamente vissuto, muore, accede all’unica – molto omerica – forma di immortalità, nel senso che, per citare di nuovo Jankélévitch, che è stata una delle principali scoperte libresche di quegli anni canadesi: Celui qui a été ne peut plus désormais ne pas avoir été : désormais ce fait mystérieux et profondément obscur d’avoir vécu est son viatique pour l’éternité.
Ecco, nuova risonanza, forse la più risonante di tutte: perché mettendo a fuoco la storia della deliziosa (è l’epiteto che mi viene sempre, naturalmente, da incollarle dietro…) Jean (Seberg) Coscia – veramente alla Pierre Menard – atterra letteralmente sulla mia scrivania, dentro la mia pagina, con una scena su cui mi sono già più volte soffermato, e che fa di nuovo parte di un mio lavoro in corso. Con parole diverse ma identiche. E, attenzione, non si tratta qui di quell’insopportabile vanità da salotto per cui, parlando di altri, uno ne approfitta per parlare di sé, bensì dell’esatto contrario: rivelo questa coincidenza per dare valore alla scrittura di Coscia. Leggendo, mi è balzato il cuore in gola – e non ho appunto altro modo, per dare la misura di questa risonanza, che raccontarla, mischiando le nostre parole.
E dunque: Coscia introduce alla tragica morte della giovane Jean nella realtà, soffermandosi, nella finzione, sull’ultima scena di À bout de souffle, il film di Godard (ma c’è anche lo zampino fondamentale di Truffaut !) che in qualche modo l’ha resa famosa e, letteralmente, immortalata. A morire adesso, ucciso da una pallottola, è il protagonista, Jean-Paul Belmondo / Michel, nel film perdutamente innamorato di Jean / Patricia, che lo tradisce, ma prima di morire, sdraiato per la strada, agonizzante, lui dice, guardandola, e lei lo guarda, e il gioco degli sguardi è il fulcro di questo movimento di immortalizzazione: Tu es vraiment dégueulasse… « Sei veramente schifosa », e muore. Jean allora si guarda intorno (ancora sguardi), e chiede alle persone che si sono radunate cosa lui abbia detto, non ha capito, qualcuno glielo ripete, e lei soggiunge (con quel francese così esotico, teinté di americano): Qu’est-ce que c’est dégueulasse ? « Che cos’è ‘schifosa’ ?», e di nuovo guarda, ma dritto davanti a sé, come nel vuoto, attraverso la musica di Martial Solal, di fronte ci siamo oramai rimasti solo noi spettatori in sala che già da un pezzo ce ne siamo innamorati, di quegli sguardi, di quell’accento esotico, di quella sua bellezza deliziosamente androgina, e si passa un dito sulle labbra carnose, e si volta per andarsene, mentre cala la parola fin… (Fabrizio, ma queste parole sono tue o mie? dov’è la frontiera? sono nostre?) Ma chi o cosa è dégueulasse ? Jean / Patricia? La morte che sta per portare via Jean-Paul / Michel? O forse, entrambe… Così, ovviamente (ovviamente per me) questa scena mi rimanda all’altra, precedente, « mia » scena… Patricia / Jean intervista insieme a un gruppo di giornalisti e ammiratori il famoso insopportabile scrittore-filosofo Parvulesco, impersonificato da un perfetto Jean-Pierre Melville – e proprio alla fine della serie di domande e risposte torna a chiedergli (glielo aveva già chiesto qualche attimo prima, senza ricevere attenzione): Quelle est votre plus grande ambition dans la vie ? E questa volta lui, dopo un attimo di riflessione, sentenzia: Devenir immortel, et puis… mourir ! … ‘Un attimo di riflessione’, in cui prima di parlare si leva gli occhiali da sole che non aveva fino ad allora mai tolto, rivelando finalmente i suoi occhi; e dopo aver ascoltato la sua risposta, se li leva anche lei, bellissima, i loro sguardi, di nuovo gli sguardi, riempiono lo schermo, restando sospesi nell’aria, intrecciandosi, di nuovo, all’onnipresente musica di Solal, che comincia proprio in quel momento – e la scena finisce. Quel puis sarebbe in realtà un anche, una contemporaneità… Non a caso, ricordo che quando ho visto il film per la prima volta mi son ricordato di Nausicaa, con Ulisse (di nuovo, Omero), in uno sceneggiato televisivo del mio tempo bambino, preceduto dall’inconfondibile voce di Ungaretti, perché… anzi no, questo lo racconto in un’altra occasione, altrimenti, come a scuola, rischio di andare “fuori tema”, o almeno, di addentrarmi in un terreno troppo vasto. Così, tornando al libro di Coscia, mi limiterò a sottolineare che il modo in cui è disegnato il tragico itinerario di Jean S., che si suiciderà ad appena quarant’anni, mettendo una accanto all’altra vita e finzione, sovrapponendole persino – belle, struggenti le righe che analizzano uno dei suoi ultimi film, Les Hautes Solitudes, di Philippe Garrel – è uno splendido esempio di « morte immortale » (le virgolette includono parole mie), nel senso del « sigillo di verità [posto] alla propria opera » (le virgolette includono parole di Coscia). Chi ha visto una volta À bout de souffle non può non tornare a vederlo e a rivederlo, anche, soprattutto, per risprofondarsi in quello sguardo, in quei lunghi primi piani che scolpiscono il volto di Jean, quasi che la sua bellezza androgina – è l’immagine che per sempre ce ne resta – fosse il sintomo di una palingenetica armonia, rendendo palese il « viatico per l’eternità » di cui parla Jankélévitch.
Ora però, è esplicito, è ovvio, e non è un dettaglio da poco, in questi ritratti di vite osservate attraverso la lente-morte si tratta di una modalità particolarissima, e tutta umana, del morire, si tratta appunto di suicidi. Una sorta di deroga alla legge universale che caratterizza la morte: mors certa, hora incerta. Sappiamo che dobbiamo morire, non sappiamo quando: il che è la caratteristica fondante del nostro passaggio sulla Terra. E se l’incertezza del momento si rivela peggiore della certezza dell’evento, se è l’aspetto più insopportabile della nostra condizione di mortali, scegliendo noi il momento della morte è un po’ come se la scardinassimo, la morte, ce ne appropriassimo, acculturandola. Questa prospettiva che accomuna tutte le morti di cui si parla nel libro – o meglio, come dicevo, le vite che le hanno contenute – può ovviamente essere dettata da motivazioni diverse, a volte opposte: pura disperazione, megalomania, affermazione di libertà e / o verità, rivolta contro o rifiuto di accettare il male, impossibilità di sentirsi dentro la propria vita, fatica del vivere, incapacità, o semplicemente allergia all’incertezza, alla minaccia, alla sofferenza, fisica o morale, individuale o collettiva, paura, come quando la nave affonda e i topi si buttano a mare (ognuna di queste diverse situazioni mi rimanda all’una o all’altra delle vite raccontate nel libro…). Le analisi tipologiche, a partire da quella paradigmatica di Durkheim, non mancano certo, e varrebbe la pena di considerarne alcuni aspetti, se quello di Coscia fosse un libro sul Suicidio, ma non lo è… Non è neanche, lo ripeto, un libro sulla morte, se non in quanto solo la morte – non solo come « lato oscuro », ma anche come limpido contenitore – fa rilucere la vita.
In generale, scendendo nella tragica concretezza di quelle esistenze, al di là delle astratte disquisizioni tipologiche, possiamo forse – ma con modalità diverse, dal felicemente realizzato Stefan Zweig, con dentro la devastazione della tragedia che sta disumanizzando l’Europa, all’irrealizzata, radicalmente precaria Marina Cvetaeva – adottare per tutti gli itinerari raccolti nel libro la formula proprio di Marina C.: «Soffro, in generale, di atrofia del presente – aveva scritto a Boris Pasternak – non solo non ci vivo: non ci càpito neanche di tanto in tanto». Un altro picco, per altro, Marina C., ultimo ritratto del libro. Il più bello ? Non saprei, probabilmente quello che avrei scelto, se avessi voluto fare un semplice compte-rendu, per illustrare la qualità e l’originalità della scrittura di Coscia, nel contempo sobria e struggente, asciutta e appassionata, lieve, capace in pochi tocchi di restituire gli strati più profondi di un itinerario di vita, impregnata com’è di un umanesimo non dogmatico in cui sento di riconoscermi. (Già, l’impossibile presente: come non pensare allora che il capolavoro del pieno di successo di Zweig sia Die Welt von Gestern, « Il mondo di ieri? »).
L’intelletto dell’uomo deve scegliere: la perfezione della vita o quella dell’opera, ha detto Yeats. Eppure, gli itinerari descritti da Coscia sembrano in qualche modo dire il contrario, vita e opera sono intrecciate, si scambiano continuamente i ruoli, in un percorso in cui sofferenza e felicità, assenza e pienezza, persino estasi, sono spesso separate da un millimetro, a volte sovrapposte. Non è del resto questa estrema vicinanza del buio e della luce, della presenza e della nostalgia una delle caratteristiche più imprescindibili dell’amore, la cui scintilla ogni volta fa ricominciare il mondo dall’inizio, come se fosse la prima volta? I never felt magic crazy as this, «Non ho mai provato una magica follia come questa », o anche, ancor più a fior di pelle, Non mi sono mai sentito così magicamente folle, come canta in Northern Sky Nick (Drake), in quella che Coscia definisce, a ragione, «tra le più belle canzoni d’amore mai scritte »; Nick che muore a ventisei anni, stroncato da « un’overdose di Tryptizol » – di nuovo, di quel fragile, breve percorso Coscia ricostruisce i sottili fili, l’equilibro doloroso fra insuccesso e purezza – ma io mi chiedo anche se quella spasmodica capacità di sentire ed esprimere l’amore, quasi Nick fosse mancato di pelle, di protezione, e l’amore gli fosse arrivato dritto dentro il cuore, non sia l’altra faccia dell’incapacità di difendersi dal male. E cosa dire allora, con un richiamo numerologico che dà i brividi, delle tre J della mia adoloscenza? Anche loro inizio anni Settanta, e vissuti solo qualche mese in più, accomunati dalla maledizione dei 27 anni: Jimi, Janis, Jim … – e cosa di Amy, vero e proprio amore della mia « maturità », morta nel 2011, anche lei a 27 anni? Non c’è niente da fare, il libro di Coscia induce alla confessione, all’eruzione dei nostri propri amori artistici e non solo, ed è parte non secondaria del suo fascino… Così, in equilibrio fra l’esaltazione dell’amore, nel senso del fantasma-passione, del sogno-illusione di pienezza, non dell’agape, e il suo potere distruttivo, mi viene da pensare anche all’insostenibile viaggio sentimentale a tre di Lou (Salomé, con di nuovo la magnetica, inafferrabile androginia), Paul (Rée) e Friedrich (Nietzsche) – ancora una volta restituito da Coscia con pochi tocchi, tutti indovinati con millimetrica giustezza. L’intenso momento di felicità, di pienezza, e il dolore, la perdita, il senso di abbandono, sono dunque così vicini da passare necessariamente dagli uni agli altri? Chiunque abbia vissuto, viva con intensità le proprie emozioni, i propri sogni, capisce di cosa si parli, qui – forse perché il dolore come il piacere appartengono alla vita, non alla morte, che è sempre più semplice, e in definitiva rassicurante. Del resto il gioco, proprio quando ci confronta con il rischio, non è l’esperienza più inebriante, più divina di cui siamo capaci noi umani? Il libro di Coscia, in questo senso, sembra anche una variazione di quel che dice e ridice Riobaldo, nel Grande Sertão: « Vivere è molto pericoloso. »
In questo, anche, mi sembra risiedere la chiave di Suicidi imperfetti. « Imperfetti – spiega Coscia – perché nessun suicidio, nemmeno il più lucido e programmato, si compie in una perfezione d’intenti », nel senso che le tracce del dubbio, cioè della vita, vi si insinuano sempre. Ma anche perché, mi verrebbe da aggiungere con Riobaldo, è la vita stessa a essere imperfetta, insicura, pericolosa appunto, ed è solo da dentro la vita, dunque imperfettamente, che si può decidere di sabotare, di governare la morte, bloccandone per anticipazione la sua indeterminatezza fondatrice. Eppure, è proprio nella sua imperfezione, cioè, molto concretamente, nel suo suo essere limitata dalla morte che, come si è già detto, la nostra vita umana accede a una sorta di immortalità: il limite infatti è anche « il viatico »…. Sì, la morte esalta la vita, la ferma, la rende per sempre (ricopio qui una frase annotata dentro il libro, alla fine dell’itinerario di Cesare…).
Del resto, a proposito di Cesare, cioè Pavese… No, qua mi devo proprio fermare! Perché mi rendo conto che sono scivolato nella sindrome di Pierre Menard, con la tentazione di riscrivere lo stesso libro, quello di Fabrizio Coscia, a modo mio; ogni itinerario mi suscita un ventaglio di riflessioni, di risonanze, e io non ne voglio rivelare più nulla, lasciando all’eventuale lettore il piacere di scoprirne gli itinerari, i risvolti ancora inesplorati. Tuttavia, al di là delle tante altre cose che appunto rinuncio a dire, almeno uno spunto, l’ultimo, il più urgente, vorrei molto velocemente accennarlo, a partire dal personaggio che più di tutti mi ha acceso il desiderio di « riscrivere la stessa storia ».
Nell’itinerario di Paul/ 1 (Celan – Paul/ 2 è, come si è visto, Rée), Coscia mette finemente in rapporto la poesia Corona con la prima sefirah della Cabala ebraica, Keter, appunto « corona », che nella prospettiva della gematria può rinviare al numero 20 (è il valore della lettera Kaf), il quale ricorre nel racconto di Coscia come importante strumento esegetico e anche, per così dire, calendariale (c’è fra altri l’enigmatico « 20 gennaio » che sarebbe inscritto in ogni poesia, di cui Celan parla in occasione del premio Büchner, attribuitogli nel 1960, e che Coscia cerca intelligentemente di interpretare; e il 20 aprile 1970, in cui il poeta si toglie la vita…). In particolare, il 20 « rimanda al Nulla prima della creazione », la quale, di fatto, proprio in quanto « esilio di [da] Dio » introduce alla Storia, al male (e ometto, sia pure a fatica, i momenti cruciali della vita di Celan, ricomposti nel libro, che sostanziano drammaticamente questa prospettiva diciamo astratta). Concretamente, « come continuare a fare poesia dopo Auschwitz »? e per di più nella lingua degli aguzzini? Marina Cvetaeva ha detto che « tutti i poeti sono ebrei », e Coscia la cita, proprio a proposito di Celan, per avvalorare il fatto che « la poesia porta il segno non solo della follia schizofrenica, dell’inevitabile dissociazione dall’Altro, ma anche il segno incancellabile dello sterminio. »
Ecco, da qui in poi (l’itinerario di Celan è fra i primi del libro) un pensiero mi si è affacciato nella mente, e si è via via arricchito. Delle diciannove vite di artisti che Coscia sceglie di restituire, tredici sono di scrittori (nel senso di scrittori e scrittrici, ovviamente, e includendo in questa categoria anche i poeti). Per alcuni di essi il legame con l’ebraismo è racchiuso nella biografia, è ovvio, e a volte irrompe prepotentemente nel progetto di scrittura; ma per altri, me ne sono reso conto ad esempio leggendo l’itinerario di Virginia (W…), sembra esistere in modo sotterraneo, sfumato (ci sarebbe da fare una caccia al tesoro attraverso gli indizi che Coscia – Fabrizio, volontariamente? – dissemina nelle pagine che la concernono; in particolare, fra altri temi, mi ha colpito la tensione fra la parola, la parola scritta, con la sua capacità di rendere reale il mondo, sia pur frammentariamente, quindi illusoriamente…, e il silenzio). Da qui, la domanda che mi sono fatto, e faccio anche a te, Fabrizio: non si potrebbe dire, come a continuare l’affermazione di Marina Cvetaeva, che, almeno nel mondo che a torto o a ragione chiamiamo Occidentale, « tutti gli scrittori sono ebrei », o se preferisci, per uscire dalle formule ad effetto, che hanno un legame inevitabile con l’ebraismo, come una sorta di luce che illumina la radicale solitudine in cui ogni scrittore si trova ? Lo dico non per fare una boutade ma, molto semplicemente, perché non conosco, sicuramente non alle origini del nostro percorso Occidentale (che molto deve anche alla straordinaria Grecia dell’« oralità »), un’altra cultura che abbia messo la parola scritta così « religiosamente » al centro della propria identità collettiva, trasformando il leggere e lo scrivere in veri e propri atti sacri, inventando, alimentando lo studio, il commento infinito, e nel contempo questionando il proprio rapporto ai testi. E poi, ripensando sul finire del tuo libro al mistico Celan, e al male della Storia che inevitabilmente accompagna la creazione, mi è tornato in mente il Midrash Rabbah, con un’immagine a commento del primo versetto della Genesi che dà le vertigini: « [In principio] Dio guardava nella Torah e creava il mondo ». Il Libro insomma preesisterebbe e dirigerebbe la Creazione! Nella prospettiva del tuo libro, la scrittura mi è dunque apparsa come un ponte verso il Prima del Tempo, o se preferisci verso il Nulla vagheggiato da Celan, un mezzo capace di penetrare il complesso groviglio di felicità e dolore che caratterizza l’esistenza umana, come anche, potendo idealmente posizionarsi prima della Creazione, di ricominciare a creare, mondi nuovi, diversi, che meglio ci si adattano rispetto a quello in cui ci è stato dato di nascere – in ogni caso, luoghi inventati, impalpabili ma ben reali, che ci orientano, ci aiutano, e ci permettono di vivere. Per altro, il testo, ogni testo, non è solo « creazione », ma anche dialogo, confronto, riscrittura, ricerca di significato…. Insomma, in questo senso, non è lecito pensare che ogni qualvolta ci mettiamo a scrivere, anche senza saperlo, partecipiamo di questo paradigma?
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P.S. L’appendice, le liste. I 19 artisti di Coscia, di cui come nel suo indice, indico solo i nomi, alcuni sono già sciolti qua sopra, altri dovrebbero, credo, potersi indovinare, per i restanti si potrà eventualmente leggere il libro (già, Fabrizio, perché in quest’ordine? non alfabetico, non cronologico, né per nascita o per morte… forse solo nell’ordine in cui li hai pensati ?): David, Cesare, Francesca, Paul/ 1, Enrique, Virginia, Nick, Yasunari (con Yukio), Philipp, Jean, Stefan, Paul/ 2, Sarah, Emilio, Rachel, Marilyn, Hart, Mark, Marina. Gli artisti che nel libro non ci sono ma avrebbero potuto esserci e a ai quali, con tanti altri, il libro è dedicato: Vitaliano, Sergej, Luigi, Sylvia, Lucio, Walter, Kurt, Violeta, Guido, Stig, Primo, Amelia, Vincent. Alcuni (solo alcuni) degli altri artisti di cui avrei voluto leggere o scrivere io (fra suicidi reali o solo in parte o chi lo sa) : Jimi, Janis, Jim, Salvador, Ingeborg, Hans alias Jean, Simone, e Franz, anche se fisiologicamente muore di malnutrizione e tubercolosi in un sanatorio vicino Vienna, poco prima di compiere quarantun anni, perché più di tutti incarna quel paradigma profondo di cui ho detto alla fine di questo mio testo.