La mia bolla e Eichmann. Spunto per un’autoanalisi di gruppo.
NAZI WAR CRIMINAL ADOLF EICHMANN SITTING IN A GLASS CELL, AT HIS TRIAL AT BEIT HA’AM IN JERUSALEM.
di Andrea Inglese
Ve lo ricordate questo signore? Adolf Eichmann. Vi ricordate il reportage-riflessione di Hannah Arendt? Ebbene, vorrei che la mia bolla riflettesse a una cosa molto spiacevole, spiacevole per noi tutti. Anche gli eventi eccezionali ai quali stiamo assistendo, come il progetto di genocidio del popolo palestinese in questo XXI secolo, nascono all’interno di una realtà umana “normale”. Se togliete una minoranza di fanatici, di sadici, di pazzi, che sono riusciti a insediarsi in posti di potere, la maggior parte delle persone che li segue, che accoglie la loro propaganda, che crede alle loro parole e che obbedisce ai loro ordini è gente “normale”, gente che, socialmente, rientra nella norma, ossia non ha commesso in precedenza alcuna azione particolarmente detestabile o ignominiosa. Noi, che abbiamo almeno un certo coraggio e la lucidità, l’integrità mentale e morale, di denunciare questo progetto genocidario, e il bollettino di morti innocenti che ci fornisce giornalmente, dovremmo essere però coscienti di una cosa. Questo noi, che si è nei mesi scorsi rafforzato e che ha preso finalmente, tristemente, i caratteri di una parte sociale coesa e indignata, ebbene questo noi è fatto anche di molte persone, che vediamo all’opera ogni giorno, nel lavoro, nelle relazioni sociali, nelle istituzioni. Ebbene, in alcuni casi mi è capitato di domandarmi, ma tu che denunci con molta ragione e pertinenza certi terribili torti, ma tu saresti in grado, in una concreta situazione, di opporti a una maggioranza? Di opporti a qualcuno di più potente? Saresti in grado di aprire un conflitto, che minaccia certe tue comodità e vantaggi? Non dico questo perché valga, anche solo minimamente, come giustificazione di ciò che sta accadendo. Per niente. Lo dico, perché un lungo soggiorno con gli altri esseri umani, e quindi con me stesso, per l’immagine che gli altri mi hanno rimandato, mi ha fatto capire che la maggioranza delle persone che conosco non ama i conflitti, vuole in genere accedere a una posizione sociale o lavorativa migliore, e mette moltissima energia alla realizzazione di questo obiettivo. Inoltre non ama dover prendere partito di fronte a controversie, se questo può mettere a rischio la sua reputazione o posizione. Io per primo mi riconosco più o meno in questo ritratto. In ogni caso, riguarda anche me. Perché ricordo tutto questo, nel momento in cui parlo dell’indignazione e della denuncia sacrosante che vedo ormai diffuse sulla mia bolla social? Per dirvi che dovreste pensarci due volte prima di denunciare i massacri, gli assedi, le torture che l’esercito israeliano infligge alla popolazione di Gaza o della Cisgiordania? Assolutamente no! Ma pensiamoci due volte, prima di defilarci, di zittire, di spaventarci, ogni volta che assistiamo intorno a noi, anche in tempo di pace, a un’ingiustizia, una stortura, una prepotenza di qualche persona più potente. I cinici, a sinistra come soprattutto a destra, diranno: “Che v’indignate a fare, lo sapete che schifezza è l’uomo!” Noi potremmo approfittarne, invece, per dire: che il nostro comportamento quotidiano sia all’altezza delle giuste indignazioni di ordine geopolitico!
Piú vhe altro: noi tutti dovremmo *almeno* provare giornalmente un senso di orrore, almeno quello!, per rispettare le vittime della carneficina e della violenza bellica.
Invece ci accontentiamo, nel migliore dei casi, di formulare qualche frase di circostanza a prescindere. In altri casi balbettiamo qualcosa se proprio ci rendiamo conto che il contesto lo richiede.
Alttimenti vige un impegnato disinteresse, se non il senso di fastidio nei confronti di coloro che ci rovinano la quotidianità con i loro conflitti.
Ma costoro, cosa faranno quando la loro indifferenza avrà scatenato i medesimi orrori anche alle nostre latitudini….?
Io sono ricattabile. Se mi sospendessero lo stipendio sarebbe un disastro. Al momento sono fortunata, ho un lavoro in cui sono circondata di persone da storia e politica affini alle mie. Tuttavia chi lavora nella relazione (didattica, nel mio caso) sa bene che le energie negative e le critiche aperte esercitano una pressione enorme. Non c’è solo il ricatto, anche il mobbing. Se c’è un motivo per cui vale la pena continuare a indignarsi ad alta voce, credo, è per sostenere tutte quelle persone che sono invece sole, in contesti ostili, e si sentono in difficoltà e hanno bisogno di sostegno strutturale ma anche, diciamo, politico-affettivo nel senso più ampio.
Grazie Renata. In effetti, sono tanti i motivi per cui vale la pena indignarsi di fronte a un progetto di genocidio che si svolge sotto i nostri occhi, e quello che tu sottolinei è importantissimo. Ma la mia riflessione non riguardava i motivi per indignarsi qui di quello che sta succedendo laggiù. Per una fetta di persone questi motivi sono evidenti, ed è un bene che lo siano. La mia riflessione riguarda il modo in cui riusciamo a mettere in relazione l’indignazione per qualcosa di “eccezionale” con l’indignazione (e quello che comporta), per qualcosa di più ordinario, che non riguarda i palestinesi o altri popoli perseguitati, ma i nostri rapporti sociali e umani qui, in tempo di pace, in dinamiche di pace, tutti i giorni. A volte è avvilente constatare quanto non siamo capaci di farlo.
Caro Andrea, grazie per questo bellissimo articolo – al solito: intelligente, impellente, ben scritto. Tuttavia: “Noi, che abbiamo almeno un certo coraggio e la lucidità, l’integrità mentale e morale”…. è quel “noi” che non mi convincerà mai. E non per cinismo; non per appiattire tutto su una immutabile “natura umana”. Onestamente, del resto, tu stesso lo ammetti: “noi” non siamo molto diversi da “loro”. La differenza, se pure c’è, è infinitesima. L’altro giorno parlavo con un amico del privilegio che abbiamo, “noi” intellettuali, “noi” che accediamo al pensiero critico, alla poesia, alla musica, alla meccanica quantistica E lui – appunto, un prof. di meccanica quantistica – lapidario: io non mi sento affatto un privilegiato. Come se articolare i propri bisogni in modo da non dare priorità alla passione per la tranquillità, al bisogno di sicurezza; ai cosiddetti istinti egoistici; non richiedesse una lunga formazione culturale e umana a cui non molti accedono; e non necessariamente per virtù morale innata; né per educazione; talvolta solo per accidens. Ci piacerebbe che non fosse così; che almeno più persone, se non tutte, avessero le capacità di anteporre il bene – altrui, ma anche proprio – a tutto ciò che ci rende mostri. Ma non è così. Mi pare Sebald dicesse che, come le termiti, possiamo guardare alla distruzione del termitaio a fianco al nostro senza smettere di continuare nella nostra opera di sopravvivenza da termiti. In questi giorni non ci sono alternative. O si salta su una di quelle navi che tentano di portare soccorsi a Gaza; o ci si arruola in Medici senza frontiere; o si fa finta di niente, tappandosi occhi e orecchie ai telegiornali. L’alternativa giusta a queste possibilità, nel caso non si riesca ad agire per fare qualcosa di buono sarebbe: correre a seppellirsi sottoterra, smettere il desiderio di vivere. Già con le carneficine degli annegati nel Mediterraneo abbiamo sperimentato questa scelta. Agire o morire. La stessa scelta di quelli che in Germania abitavano a fianco ai Lager; o che obbedivano alle leggi di Norimberga. Una preghiera buddhista dice: le azioni sono l’unico terreno su cui poggio i piedi. Per me continuare a vivere in questo assedio di orrore è possibile solo così: cercando di stare in piedi su quella minuscola zolla di terra che sono le mie azioni. Non inoltrare troppo lo sguardo nell’orrore – ma agire, anche per un minimo. Non arrendersi al male, non darlo per scontato, non abituarsi, mai. Ho costituito un piccolo santuario di foto, a fianco al mio letto. Non riesco a inoltrare preghiere a nessun Altissimo. Ma a qualche umano che ha resistito al male senza commetterlo, sì. Nel mio altare ci sono, tra gli altri, Salamov, Mandel’stam, Pasolini, Florenskij… persone che nella devastazione più orrenda delle loro vite non hanno mai rinunciato a vivere cercando di non soggiacere al male. Queste sono le stelle polari
Grazie Paola. “Non arrendersi al male, non darlo per scontato, non abituarsi, mai.” Assolutamente si. E’ proprio questo. Ma io aggiungo: “anche quando non puoi o non riesci a fare niente”. Non solo non tutti siamo eroi, ma in alcuni casi non c’è neppure spazio per l’eroismo. Guarda le coraggiose e i coraggiosi che hanno preso il mare per arrivare a Gaza! Guarda quelli che hanno tentato di arrivarci da terra! Azioni intraprese, ma impossibilitate a realizzarsi. (Ma di certo non vane! Hanno avuto la loro funzione, malgrado il fatto di “fallire”.) Nel mio pezzo non sto accusandoci di non fare delle azioni più concrete contro il genocidio a Gaza. Contro l’occupazione, le uccisioni, le torture dei palestinesi in Cisgiordania. Alcune cose dobbiamo farle: dire, scrivere, manifestare! Sono le forma più “naturali” che abbiamo in una democrazia pur “diminuita” per fare pressione sui nostri governi europei, che sono oggettivamente “complici” a vari livelli del governo israeliano. Molto altro, la maggior parte di noi, anche volendo, non puo’ fare. A Gaza un forestiero non puo’ entrare senza l’accordo di Israele. Punto. Anche chi volesse farsi ammazzare con i palestinesi, dovrebbe prima ottenere l’accordo del suo assassino. Politicamente, da qui, potremmo fare di più. Disubbidienza civile. Ma appunto, già son state votate leggi per parare a questo tipo d’inconvenienti, con la dovuta repressione. Guardate come son stati trattati gli studenti che protestavano in occidente. Allora non ci resta che seppellirci? No. Io non lo credo. Ma che tutta questa merda e questo furore idiota, ci aiutino a essere più “presenti” nelle nostre quotidiane esistenze. Dove in realtà tremiamo all’idea di perdere certi vantaggi e certe comodità, dove siamo disposti a tollerare tutto e di più, pur di non creare conflitti, che ci potrebbero “danneggiare”. Anche noi nella nostra vita siamo spesso, e nello stesso tempo, forza di opposizione e di governo. Giochiamo su tutti i tavoli, senza voler rinunciare a nulla, sacrificare nulla. E questo avviene ogni giorno, indipendentemente dal fatto che ci sia o meno un genocidio in atto. Non sto esortando me e noi all’eroismo, ma almeno alle “decency”, che difendeva Orwell, vedendola come una virtù più facile da trovare nelle gente comune che tra gli intellettuali. Ora non so più se una tale distinzione vale ancora, ma il concetto di “decenza ordinaria” si.
Scriveva Orwell: “Il messaggio di Dickens è riassumibile in una constatazione di una colossale banalità: se la gente si comportasse come dovrebbe, il mondo sarebbe come deve essere. (…) In ultima analisi Charles Dickens non ammira nulla, se non la “common decency”, l’onestà dei costumi (leggi: attitudini)”.
Per avere qualche speranza di contrastare le grandi minacce, dovremmo almeno esercitarci a contrastare le piccole. Ecco tutto quel che volevo dire, Paola.
Grazie, condivido il contenuto e il tono e l’urgenza di questo intervento. C’è poi forse un paradosso che riguarda il mondo culturale, dove da anni le possibilità di ‘emergere’ e di mantenersi emersi sono di solito scarse e dettate dallo stato delle proprie relazioni intellettuali e professionali. Proprio chi fa parte – da protagonista o da comparsa – del mondo culturale, ha in molti casi gli strumenti per opporsi con pertinenza a questo indicibile, eppure gli abitanti del mondo culturale sono stati in questi molti mesi i più reticenti, i più riluttanti. Perché ovviamente la cassiera non viene licenziata per il tweet “antisemita” (anche se magari chi la paga non è in grado di distinguere le virgolette) mentre il redattore o il conduttore o il curatore di qualcosa sì (anche se magari chi lo paga è in grado di distinguere le virgolette). È un paradosso brutto, e paradosso per modo di dire, che nel caso del conflitto israelo-palestinese – dove la militanza per una parte è capillare per i motivi noti – diventa davvero troppo vistoso, troppo sconveniente e volgare. C’è un imbarazzo, o almeno c’è stato fino a un certo punto, un imbarazzo collettivo che inevitabilmente confluiva nella violenza verbale a cui tutti – escludendo le bolle dei santi – abbiamo assistito. Soprattutto la rabbia di chi ha le mani legate da relazioni non deteriorabili, e però è libero per statuto, la rabbia insomma della negazione. Per fortuna queste brutture sono in molti casi finite, e tutti si finge di non averle vissute. Anche per questo mi sembra molto giusto – come fai tu – porre la domanda in termini generici. Ma tu saresti in grado di… È una domanda che, più passa il tempo, più nella testa di molti troverà risposte di autofiction.
Caro Daniele, quando scrivi:
“Perché ovviamente la cassiera non viene licenziata per il tweet “antisemita” (anche se magari chi la paga non è in grado di distinguere le virgolette) mentre il redattore o il conduttore o il curatore di qualcosa sì (anche se magari chi lo paga è in grado di distinguere le virgolette).”
Ecco, il mio pezzo non si riferiva a chi rischia di perdere il posto di lavoro per aver criticato senza eufemismi la politica israeliana in un post su facebook o in un articolo pubblico, anche perché casi di questo tipo non ne ho conosciuti. Ho conosciuto l’accanimento mediatico e politico contro figure di spicco del movimento pro-palestinese (almeno in Francia, dove vivo). A me sembra che molta gente non ha parlato, e non parlerebbe in altre occasioni, di fronte a rischi MOLTO MINORI di quelli che citi. E questo lo si vede, purtroppo, non solo nel caso conclamato, internazionale, estremo del genocidio in atto a Gaza, ma lo si constata su episodi infinitamente meno gravi nel quotidiano. Quando parliamo di perdita di lavoro, per l’espressione delle proprie idee, stiamo già toccando uno scenario semi-totalitario. (Negli USA, ci siamo vicini o ci si è già arrivati.) La gente si autocensura per molto molto meno. Salvo, poi, in contesti “sicuri”, mostrare una grande sensibilità alle ingiustizie.
E in ogni caso, mi piace molto la tua ultima frase. Concordo corrosivamente.
Sì, sono d’accordo con te, Andrea, e ti ringrazio per la risposta: in effetti portavo un caso limite, reboante (la perdita del lavoro), ricavato da esperienze che si situano in zone intermedie e più silenziose. Ad esempio, perfino io, nel mio piccolo, ed è un piccolo veramente piccolo, ho perso una opportunità che avrebbe significato visibilità per il mio lavoro, a causa di un post sul conflitto israelo-palestinese – peraltro garbato, fondato su fatti – che tempo fa pubblicai sul mio profilo di Facebook, prima di chiuderlo per inutilità conclamata. È stata un’esperienza segnante. Mi ha mostrato che perfino uno che, a torto, si riteneva diciamo invulnerabile, non avendo di fatto niente da perdere, può avere qualcosa da perdere. Mi sembra che il campo sia appunto quello della “perdita di opportunità”: su una scala in cui il lavoro, l’impiego, si trova a un’estremità ma comunque in continuità rispetto all’insieme di quel che è possibile perdere dicendo il vero su Gaza, o come dici su questioni meno rilevanti che sfiorano l’interdetto. Opportunità, consenso, simpatia, sostegno, insomma tutto quel pezzo di campo semantico lì è messo in palio, nel dire. Quanto più il lavoro è traballante (e intendo lavoro non solo come fonte di sussistenza, ma anche di riconoscimento e di identità), e dipende da opportunità, consenso, simpatia, sostegno ecc, tanto più è a rischio in questi casi, situazione che nel mondo culturale non è così infrequente. Ma appunto sono d’accordo quando dici che si tratta perlopiù di una zona intermedia, dove il conflitto non sarebbe nemmeno tanto ‘eroico’ ma piuttosto la rottura di una comfort zone.