Cercando esasperatamente il dire
di Stefano Zangrando
Non è facile parlare di La Luce Inversa di Mota (Wojtek Edizioni) senza scomodare certi aggettivi collosi in voga nella critica da social come “dirompente” o “straziante”. Dovendo usare una categoria o una designazione di genere, si potrebbe forse dire che è un romanzo dell’orrore. Del resto la citazione d’apertura, dal Calvino de Le città invisibili, parla d’inferno – a ragione: è un libro di finzione che muove dalle violenze sessuali subite nell’infanzia dai tre protagonisti Vanessa, Siddiq e Martin. Se vivi in tempo di pace (oggi occorre precisarlo) l’inferno è questo.
La cornice in cui è inserita la rievocazione degli abusi ha tuttavia qualcosa, in termini sia stilistici che catartici, di purgatoriale prima e poi di paradisiaco. I tre sono collocati nella «Camera a Luce Inversa» allestita in via sperimentale da una psicoterapeuta, la dottoressa Hollis, e a parlare per loro è unicamente la loro coscienza fattasi linguaggio. Lacan avrebbe forse qualcosa da dire al riguardo, ma qui la resa letteraria conta più della verità psicoanalitica, o meglio la comprende e la sopravanza. Tra le pagine migliori ci sono infatti quelle che descrivono la fusione delle tre figure in un’unico plasma, quello che rende possibili la regressione da un lato, e con essa la riemersione del vissuto, dall’altro la verbalizzazione di un’unità in cui l’io di ognuno va in pezzi e si dissolve: effetto uguale e contrario alla psicosi, che evolve di qui in un campo di energia fraterno, solidale e redentivo. Tutto ciò in una lingua che dà spesso l’idea di aver infranto una corazza d’indicibilità, capace di visione.
Quelle che rievocano i traumi, invece, sono le parti più disturbanti. Vanessa ha subito violenze dal compagno della madre a nove anni, ed è la voce che più veicola la meraviglia per lo stato di eterea simbiosi con gli altri in cui la getta l’esperimento. Siddiq è finito nelle grinfie perverse di un prete a otto anni, ospite di un istituto per minori, e adesso è quello più disposto al legame e al perdono. Martin da ancora più piccolo fu abusato più volte dal nonno paterno, e il frutto a venire è una rabbia che invoca vendetta: per questa ragione, è lui che più fatica ad accogliere l’opzione di una catarsi condivisa. La sua è anche la coscienza verbale di un ragazzo che, dopo una formazione scientifica, si esprime a tratti in modo concettoso e elucubrante – e qui un editing meno indulgente avrebbe forse ripulito alcuni capoversi. Peccato, perché poi è lui che sa dire meglio la «caduta» che la psiche conosce nell’abisso del post-trauma. Ma qualche piccolo garbuglio è perdonabile in un romanzo che non vuole dilettare, che non conosce velature o reticenza, ma cerca esasperatamente il dire, appena al di qua di un terrifico estetismo dell’abuso, oscillando allucinato, come una seduta di ayahuasca, tra i poli del tormento e della grazia.
Nella prima metà del libro, che è costruito per capitoli alterni narrati da ognuno dei tre, i confini tra le personalità e le rispettive regressioni sono ancora definiti; dalla metà in poi le coscienze e i ricordi debordano gli uni negli altri, mentre appare per converso qualcosa di simile a una corporeità astratta, e con essa una casa a più piani nella quale i tre dimorano, e un treno di un solo vagone che attende all’esterno, i binari che s’impennano in un cielo invisibile. È da qui che i tre riprenderanno la via della realtà, dopo che la Luce Inversa li aveva invece riportati «verso casa» – con tutto quel che c’è di infranto nell’idea di casa quando questa diventa l’inferno, dove chi protegge diventa carnefice e chi dovrebbe esser protetto diventa il catalizzatore incolpevole, e poi per sempre intriso d’insanabile vergogna, di un Male che sembra venire da chissà dove, ma che non è che l’uomo guasto, di generazione in generazione.
L’appello finale è un’uscita dalla finzione che l’autore si concede per restituire e invocare una comprensione a chi vittima lo è davvero. E se si è arrivati fin qui, sarà difficile non cedere a un deliquio di empatia. Il profilo biografico di Mota, sul risvolto, si compiace di non aver mai portato a termine una nota scuola di scrittura. C’era bisogno di dirlo? Nessuno che un giorno avrebbe scritto un libro così ha bisogno di mostrare che certi diplomi non fanno per lui. Carta canta, anzi urla.
NdR: un estratto del romanzo è stato pubblicato da NI qui