Il nostro felice niente. Per Patrizia Cavalli
di Rosalia Gambatesa
È il terzo solstizio d’estate dacché Patrizia Cavalli continua a non esserci. È uscita di scena in un momento di requie astronomica come quelli dei suoi teatri di parole mossi dal cielo e catturati dai sensi. Quasi un anno fa, a luglio del 2024, a salutare il suo passaggio solstiziale, usciva, per i tipi di Einaudi e la cura di Emanuele Dattilo, Il mio felice niente, una ampia raccolta antologica di tutta l’opera poetica. Il libro è tale che, oggi, a un anno di distanza, le domande e le linee di riflessione tracciate continuano a richiamare l’attenzione sulla poesia di Cavalli, sulla sua cifra inconfondibile, emblematica dello snodo epocale tra vecchio e nuovo secolo. La sua poesia senza intellettualismi vi si mostra qual è, una pellicola impressionata da tutte le manifestazioni del cielo e dell’umano. Scorre insieme alla vita, nella benedizione e maledizione delle giornate, ora leggere e luminose e foriere di splendidi amori, ora oppresse dal cielo bianco senza speranza di pioggia e volti amati. Impegnata infaticabilmente nella ricerca di una parola vera, non smette, di volta in volta, di tracciare esattamente sulla pagina le giravolte della coscienza, innanzitutto della sua autrice, l’oggetto meglio conosciuto, e poi anche dell’essere così com’è.
Il mio felice niente, pur nelle forme di una raccolta antologica, restituisce appieno l’intensa vocazione conoscitiva di questa poesia di fine della modernità, della sua eticità e dunque della sua necessaria bellezza e felicità. Non sempre le antologie restituiscono la pienezza di un’opera. Talvolta possono suggerire che le poesie siano riflessi di illuminazioni del poeta, frammenti fluttuanti nell’assoluto, alcuni più riusciti, altri meno. Soprattutto per Patrizia Cavalli una raccolta antologica avrebbe potuto tradire la natura macrotestuale delle sue raccolte poetiche in cui i componimenti contano per sé stessi, ma anche per il ruolo svolto sulla scena nel suo insieme. In questo caso non vi è questo rischio e i lettori di Cavalli si sono subito accorti del dono ricevuto e l’hanno generosamente premiato, anche solo a stare alla lunghissima sfilza di post sui social. La preziosa possibilità di avere sotto gli occhi una visione a tutto tondo di una poesia tanto limpida, quanto inafferrabile, è parsa un’occasione imperdibile e l’ha riconosciuto sia chi è abituato da tempo a gioire della poesia di Cavalli, sia chi solo ora vi si sta accostando. Il curatore del resto attinge alle sette raccolte, apparse tra il 1974 e il 2020, col criterio dichiarato di «esporre un ritratto, il più possibile ricco ed esauriente, della poesia di Patrizia Cavalli» e con l’intento «anzitutto di restituirne la varietà dei registri e dei temi» (Nota al testo, p. XVII). L’antologia segue quindi fedelmente il suo io che per cinquant’anni riflette su tutto ciò che colpisce i suoi sensi mentre immancabilmente va e viene tra casa e città, da un divano a una poltrona a un letto, impegnato in una sempre rinnovata quête amorosa, ogni volta ciclicamente ripetuta. E, assai felicemente, acconsente alla gioia dello sguardo e dell’udito interiore sprigionati dal gioco poetico progressivamente più visionario e capriccioso. Lungo le sette raccolte il gioco si ripete e, nello stesso tempo, sorprendentemente, si trasforma generando forme e ritmi via via più ramificati e inattesi.
Non solo, però. Nella teoria dei testi antologizzati salta agli occhi il vero al cuore della ricerca poetica di Cavalli. Anche solo a contare tutte le parole che vi hanno a che fare, se ne trovano più di cinquanta. Ricopio alcuni dei tanti versi in cui le parole appaiono perché se ne possa cogliere, almeno in via esemplare, la portata: «È vero qualche volta / ti assenti» (p. 20) dalle Mie poesie non cambieranno il mondo, «ma in verità non lo farò» (p. 42) e «Ma veramente aspetto » (p. 44) dal Cielo, «Solo a sentire un verbo / che mi sembri vero» (p. 80), «[…] perché / non è vero che si torna, non si ritorna / al ventre» (p. 86) e «il dolore è vero, ma per un po’ lo vedo» (p. 90) dall’Io singolare proprio mio, «non era proprio vero ma era quasi vero […] / sì, ero così convinta che era vero» (p. 126) ) e «Beh, non ci credo, e fosse pure vero » (p. 152) da Sempre aperto teatro, «folle d’amore, questo unico tempo vero» (p. 160), «È tutto vero, ma è un pensiero sciocco» (p. 162) ), «mentre si gioca seri al Vero e al Falso» (p. 184) ), «forse per questo è meno vero? No, / continua ad esser vero» (p. 198) da Pigre divinità e pigra sorte, «in verità le occupa stabile e immensa» (p. 207) e «– aerei condomini davvero troppo umani» (p. 210) da Datura. Solo le parole col vero di Vita meravigliosa mancano. Non ce la si aspetterebbe una così grande presenza del vero nella poesia cavalliana, quale emerge tanto limpidamente dal Mio felice niente. Per la verità nemmeno negli scritti critici se ne parla di frequente. Il suo io è d’altronde un io continuamente soggetto al vento di scirocco, preso senza requie a ragionare delle proprie incomprensibili piroette sentimentali, da sempre rimproverato di eccessivo narcisismo e onnipresenza.
Scorrendo le poesie dell’antologia non solo saltano agli occhi le tante parole come vero, vera, veramente, davvero, avvera, ecc.. E, in apertura dell’Introduzione di Dattilo, un penetrante aperçu della poesia di Cavalli, lucido ed emozionato, fanno subito capolino le parole veramente e vere – «scrivere veramente poesie» e «vere poesie» – cruciali nel mito dell’investitura poetica ricevuta per telefono da Morante. Nella teoria dei testi antologizzati colpisce anche moltissimo, e questo è un valore per nulla secondario del libro, l’alternarsi apparentemente casuale della straordinaria varietà di forme che restituisce rigorosamente la minuziosa poikilia delle raccolte. La loro capricciosa mutevolezza conferma che «Patrizia si teneva alla sua lingua per non perdersi» (p. IX), priva di «interiorità e motivazioni o esigenze interiori», con un’anima «tutta fuori, tutta visibile e percepibile, dispersa nell’atmosfera» (p. VIII). Come non pensare allora che la ricerca del vero condotta da un’anima dispersa nell’andare e venire dell’universo non sia affatto in una qualche specifica verità espressa dalle sue affermazioni, cangianti del resto ad ogni cambiar di vento? Ma che, come scrive Dattilo, sia invece «integralmente, nell’esattezza del loro apparire, a volte abbagliante» (p. IX) sulla pagina, che riflette, nell’unica forma ogni volta esatta della lingua, ciò che colpisce il corpo-mente. Perché esattamente così sia, le forme dall’andamento quasi classico arrivano anche talvolta a torcere in modi inaspettati una lingua in genere priva di forzature. Ad esempio ci si imbatte in «Mi scompaio» (p. 27) dal congedo delle Mie poesie non cambieranno il mondo, con scomparire usato nella forma media non attestata; nel perdifiato dei diciassette versi senza principale della prima strofa di «Per simulare il bruciore del cuore, l’umiliazione» (p. 32), messi a specchio con un distico di chiusura impeccabilmente geometrico, dal Cielo; in «stellarti gli occhi» da Vita meravigliosa, con l’uso transitivo di stellare anch’esso non attestato.
Dell’esattezza di questa lingua si è parlato. Ma di fatto un affondo su questo finora non c’era. Dattilo ci si addentra osservando assai opportunamente che l’esattezza è il suo attributo principale, né la semplicità, né la difficoltà, tanto meno la quotidianità. La collega alla finzione, e non c’è da sorprendersi, in quanto è proprio la finzione a sottrarre ogni naturalismo alle sempre ripetute vicende sentimentali e ad aggiungervi un sovrappiù di realtà, e, io direi, anche di verità. Ebbene, la sua antologia da questo punto di vista è esemplare. Tra il piano del dichiarato dell’Introduzione e quello della sfilata delle poesie vi è una singolare specularità. L’evidenza linguistica dei testi antologizzati mostra ogni volta tanto l’artificiosità, quanto l’esattezza del dettato. Non poteva essere diversamente del resto in un lavoro nato da uno sguardo critico capace di stare vicino ai testi senza giudicare, né interpretare il loro io – «Eppure esiste, deve esistere un modo per parlare di Patrizia Cavalli senza cedere alla sua tentazione, senza ricorrere né alle distanze critiche né alle prossimità amicali, e dunque per uscire dall’equivoco del personaggio, su cui troppi si soffermano» (p. IX).
Anche il titolo Il mio felice niente è in linea con la prospettiva critica. Tratto da un verso assai evocativo della poesia di copertina di Vita meravigliosa («Cosa non devo fare / per togliermi di torno / la mia nemica mente: / ostilità perenne / alla felice colpa di esser quel che sono, / il mio felice niente» p. 237), non può, di primo acchito, non farmi pensare al niente dell’amato Leopardi. Sempre troppo poco chiamato in causa a proposito di Cavalli, lo ricorda una volta Berardinelli nella lontana recensione al Cielo dell’‘82 scrivendo del «semplice coraggio delle emozioni, un coraggio leopardiano della nudità e dell’aderenza» («Incognita», marzo, p. 72). È un titolo criticamente preciso perché ritorna a mio parere sulla questione dell’esattezza e del vero. Se la felicità è tradizionalmente pienezza, l’effetto ossimorico dell’accostamento tra la felicità e il non essere, fondamento del corpus poetico antologizzato, è un’altra maniera di ribadirne la verità dell’esatta manifestazione, ogni volta, della lingua. Gira intorno all’io come L’Io singolare proprio mio, titolo della terza raccolta e del suo poemetto eponimo, un io carnale, singolare o grammaticale, ma di certo non psicologico, e ha la «doppia simultanea pretesa, in fin dei conti impossibile da realizzare – conoscere e insieme essere ciò che si conosce». Ovvero richiama di questo io un’«insistita assunzione» (p. XIII) e insieme l’opposta natura di sismografo. E forse non è un caso se nella poesia di copertina dell’antologia se ne può scorgere uno svagato riferimento – «Sto qui ci sono e faccio la mia parte. / Ma io neanche so cos’è questa mia parte. / Se lo sapessi / potrei almeno uscire dalla parte / e poi sciolta da me godermela in disparte».
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Patrizia Cavalli, Il mio felice niente, 1974-2020, a cura di Emanuele Dattilo, Einaudi, 2024, XVIII – 270 pp., 14€.