Eppure vorresti essere un bruco

di Vittoria Groh

Squilla il campanello. C’è un filo di ruggine in quel suono che stride: una dimenticanza di Dino, che avrebbe dovuto ripararlo a giugno e a luglio già era tardi. Appoggiata al parapetto, Maude stringe forte la sigaretta fra le labbra e aspira la canicola estiva. Si volta appena verso l’atrio: è in ritardo, pensa con uno sbuffo di fumo, ora aspetta.

Dà un’occhiata rapida al tavolo della cucina e si assicura che la cassa sia ancora al suo posto. È ridicolo, come se possa muoversi da sola. Un vento lento gonfia il suo cardigan rosa. Maude nota una goccia rossa sull’orlo di un bottone. Eppure, ha strofinato con cura. Al diavolo, me ne occuperò più tardi, si dice tossendo.

La città accaldata è immobile e non emana odori. Le cucine sono chiuse, i proprietari altrove, distesi sui lettini che puntellano le spiagge di Ostia. Di nuovo il campanello: una volta, un momento d’esitazione, un’altra ancora; un’insistenza timida. Maude fa cadere la cenere sulla strada deserta. Si volta, lascia alle spalle la finestra e il ponte Milvio che galleggia nell’aria afosa. Poi appoggia gli anni al bastone di noce e con la schiena un poco curva raggiunge la porta.

La serratura scatta. Anna balza indietro.

Ma allora, hai paura di una vecchia?”, la voce della donna trema e anche la mano vacilla, sul pomello di legno della porta socchiusa.

Anna nasconde le mani nelle tasche della giacca, rovista e trova i dialoghi di convenienza; li ha annotati, ma tirare fuori i biglietti alla prima interazione le sembra inappropriato.

Ho paura delle bugie, creano emozioni non lineari”, dice seria. Lentamente alza gli occhi, cerca quelli della donna, prova a interpretarne lo sguardo,

le sue iridi azzurre ti fanno pensare a un cartone animato, ma non ricordi quale,

vedi sorpresa, stupore?,

non lo sai, leggere le persone non è come con i romanzi che,

attenta, non distrarti,

non puoi permettertelo, se vuoi portarlo a casa.

Quanti anni hai?”, le chiede la donna. “Quattordici”, risponde Anna. Una domanda semplice, una risposta semplice. Anna inspira, espira,

puoi riuscirci.

La donna la fa passare. Si dirigono verso la cucina, serpeggiando fra i libri che si ergono come funghi sul tappeto verde. La casa sembra un bosco. Un indizio di sigaretta appena spenta aleggia di fronte alla finestra, e poi un altro odore, più acre,

formalina?,

come i corpi delle rane nel laboratorio della scuola,

translucidi, gonfi,

cadaveri.

Ti fa male?”, la donna indica il polso sinistro di Anna,

te ne accorgi, te ne vergogni, la tua mano destra lo sta sfregando con forza,

pare una gomma su un foglio ricoperto di errori.

Anna risponde di no, che non le fa male, e rapida nasconde quel gesto involontario,

ma non è vero che non fa male, vorresti poterla avere davvero quella gomma, cancellare i ricordi,

però menti, continui a mentire,

anche se delle bugie hai paura.

Lei alza le spalle, come a dire come vuoi, poi sorride: “Io sono Maude”, e le versa dell’acqua in un bicchiere, che un po’ balla sulla tovaglia. A lei balla il viso, quando sorride, e ogni linea sembra sapere esattamente come muoversi, dove andare,

e vorresti avere le stesse certezze, ma non conosci ancora niente,

niente tranne il mare e il basilico che,

non distrarti, hai una missione.

Devi aiutarmi con questa”, e Maude indica una cassa che occupa l’intero tavolo da pranzo.

Una ragazzina, le hanno mandato, una bambina che appena ha scavalcato l’età della pubertà. Ha tagli sul polso, dice di non avere male. Forse è la verità, è tanto giovane per conoscere il dolore. Eppure, Maude vede in lei una anzianità dei gesti, una ripetizione quasi artefatta dei movimenti. Le studia il volto: è pallida, forse è la luce del neon, o forse davvero non si sente bene; è ferma, fissa il centro del tavolo in silenzio; i capelli lunghi, neri, sono legati in due trecce che le ricadono simmetriche sulle spalle rigide: pare pasta di zucchero racchiusa in una formina di Natale. Maude sorride di nuovo.

Ci volevamo bene, io e Dino, sai?”, dice Maude, “ma non è stato sempre semplice: abbiamo dovuto coltivare solitarie stranezze per poterci poi bastare in due”.

Anna non ascolta la vecchia. Si è seduta al tavolo da pranzo, di fronte alla cassa, e ripensa a questa mattina, al fondo del mare. Buttava fuori l’aria, le bolle le solleticavano il naso, stringeva le labbra, apriva gli occhi, pizzicavano, il sale. Tutto intorno, vedeva verde. Aveva pensato al tavolo da biliardo di Claudio, un verde che sembra un prato di montagna. Quasi le dispiace vederci rotolare le palle colorate. E la pianta di basilico davanti alla sua finestra, anche lei verde, ha l’odore della calma, le foglie lisce. Quando in casa tutto si aggroviglia, le brutte parole e le mani e le lacrime, Anna si immagina piccola, come un bruco si attorciglia alle foglie e respira il silenzio,

perché pensi a tutto quel verde,

concentrati, hai uno scopo, lo prendi e vai,

ma quelli sono dei bei verdi, pensa Anna: il tappeto, il tavolo, la pianta. Forse perché ci arriva la luce. Anzi, sicuramente, perché la luce fa cose incredibili, come trasformare gli scarti del mondo in zuccheri. Quando la maestra ha spiegato alla classe la fotosintesi, Anna non ha dormito per due notti: espirava, espirava, espirava e fissava il basilico, aspettava di vederlo crescere. Poi la terza notte si è addormentata e ha sognato la pianta che enorme copriva il cielo, la luna, il soffitto di camera sua, e lei abbracciava le foglie con il suo pigiama a pois. Non era più un bruco, era Anna, solo Anna,

eppure, vorresti essere un bruco,

non sempre, ma ogni tanto ci pensi a come sarebbe,

non avere i polsi, il dolore,

che la natura ti darebbe pochi giorni,

e tu non ne chiederesti di più.

Si era dimenata, aveva tirato calci all’acqua, ma le mani di suo padre, sulle spalle di Anna, erano troppo forti. Lei aveva cercato una via d’uscita, ma il corpo di suo padre era troppo pesante. Aveva guardato in alto,

avresti voluto creare degli anelli, di quelli che nascono stretti e poi salgono e si allargano fino a posarsi sotto la superficie,

i subacquei buttano fuori l’aria e fanno dei cerchi tondi e nitidi,

mamma ha una foto sul frigo, ti piace guardarla,

ma loro sott’acqua respirano,

tu avevi solo un naso che sputava: l’aria la perdevi e basta.

Un giorno suo padre ha perso l’anello, o così ha detto. Anna ha pensato Non ama più la mamma. Ma l’ha pensato a voce alta e la guancia ancora le brucia: suo padre non ama i pensieri a voce alta.

Anna avrebbe voluto creare un anello, solo uno, argenteo, brillante,

lo avresti regalato a mamma,

che poi lo darebbe a papà perché vederne uno solo la fa piangere.

Mentre pensava a mamma, suo padre l’ha lasciata andare. Anna ha nuotato, ritrovato il sole. Lo schiaffo gliel’ha dato un’onda, ancora quella guancia, la stessa,

lui lo sapeva: ancora un minuto sotto e ci saresti riuscita,

ma a fare cosa?, a creare l’anello?,

a risalire?,

davvero volevi risalire?

Erano tanti gradini, per un corpo inerte, ma chi avrei potuto chiamare?”, dice Maude. “A ottantadue anni l’hanno assalito i primi tremori, poi ha iniziato a sussultare. Così, vedi” e Maude si accascia sulla sedia della cucina, chiude gli occhi e finge uno spasmo, due spasmi, pare una caffettiera con il coperchio che all’improvviso sbatacchia. Poi Maude si rialza e riprende: “ha gridato, era seduto sulla panchina del parco e ha urlato “Maude!”. Il mio Dino, lo vedevo dalla finestra, il mio Dino”. Maude prende il bicchiere d’acqua di Anna e svuota quel che resta nel lavandino. “Gli ho detto di salire, ma era troppo tardi, sai. Ha respirato un altro poco nel parco, non ha neppure finito le parole crociate, gli mancava una risposta, quattro lettere, era una parola facile, gliel’avrei suggerita io se solo fosse salito. Ma alla fine sono dovuta scendere io”. Maude sistema la tovaglia, si gira verso Anna, che è sempre immobile; la chiama, ma lei non sembra reagire. Le sfiora un braccio, è freddo. È pallida e fredda. “L’ho messo qui dentro, il mio Dino”, dice Maude accarezzando la cassa. Poi si allontana dal tavolo: “l’annuncio dell’azienda diceva che potete aiutarmi a portarlo via”.

Anna guarda il vaso di fiori della donna: un lungo contenitore trasparente che riflette il verde del tappeto. Ricorda, quando era bambina, i tubetti che si illuminavano al buio. Doveva rompere il vetro all’interno dell’involucro di plastica e così, da grigio e noioso, il bastoncino diventava una provetta fosforescente, magica. I bastoncini più belli erano quelli gialli, ma anche quelli verdi non erano male; con quelli blu, invece, non c’era contrasto con la notte. Il padre li regalava a Marco e Anna quando festeggiavano il compleanno, a metà estate,

ci diceva che i subacquei li usano per ritrovarsi fra di loro al buio, in fondo al mare,

ma a noi non sono serviti, vero?,

papà l’abbiamo perso comunque,

e al sole, in superficie.

Marco era vicino all’amaca, sotto al cielo notturno, al grande carro: muoveva la bacchetta nell’aria e si sentiva uno Jedi. Anna teneva il bastoncino in una mano e osservava il fratello che agitava il suo: una scia di lucciole, un rumore di lenzuola che si spostano.

Maude le passa accanto, le sfiora un braccio: Anna non reagisce, ma scorge il bottone macchiato sul suo cardigan rosa,

ferma, non muoverti, non ancora.

Ad Anna, quando era bambina, piaceva indossare i vestiti di suo padre. Si metteva i guanti, il casco della motocicletta, le scarpe, la camicia che le arrivava quasi ai piedi. In mano teneva il portafogli,

ti dicono presto che il denaro è la linea di confine,

due banconote e sei subito adulta,

i guanti, le scarpe, il casco enormi non contano,

però il denaro sì,

e anche il dolore, non credi?,

forse, ma per quello non esiste una vera frontiera.

Anna chiedeva a suo padre di chiudere i bottoni della camicia, che con i guanti non ci riusciva. Era un momento che le piaceva, suo padre che si abbassava, raggiungeva la sua altezza,

ti sentivi importante,

al sicuro,

e poi i bottoni sono belli, legano due parti separate, le uniscono,

così ti rimangono addosso e non le perdi,

sì, non come il resto,

che si separa, si perde.

Anna indica la cassa: “La aiuto a spostarla?”, chiede alla donna. Non dice altro, il regolamento dell’azienda impone discrezione. Il suo silenzio è uno dei motivi per cui l’hanno assunta così giovane. Ma il motivo principale è il suo autismo: le consente di non empatizzare con i familiari dei defunti, di essere precisa, metodica nell’accertarsi dei consensi.

Maude è alla finestra, si volta e scuote la testa in un gesto quasi impercettibile. Lentamente accosta una sedia al tavolo, sale e ci si inginocchia. Anna non parla, ma la aiuta a scostare il coperchio della cassa. L’odore porta Maude a coprirsi il naso, la bocca, mentre Anna rimane impassibile, pare esserci abituata. D’altronde, lavora per un’azienda che trasporta i morti. Maude l’aveva letto sulle riviste di Dino, quelle che parlano di caccia, con i setter inglesi accanto alle tute mimetiche in copertina: la formalina è il prodotto migliore per l’imbalsamatura. L’odore, però, non lo menzionavano.

Con tenerezza, Maude si piega su Dino. Gli sussurra parole all’orecchio.

Anna si avvicina alla donna. Dalla tasca estrae un coltello, piccolo e fine,

è il momento, vai,

delicata, mi raccomando,

finge di risistemare la giacca dell’uomo, fa passare una mano sotto alla pancia della vecchia.

Rapida, senza esitazioni, taglia,

brava, l’hai preso, ora svelta, nascondilo.

Anna mette via il coltello e nell’altra tasca ripone il bottone.

Il suo cuore sussulta, come il coperchio della caffettiera, come quell’uomo, prima di morire. Chiede alla donna se è pronta, se ne è sicura. Le dice che il suo collega la aspetta al portone, la aiuterà a portare la cassa di sotto. La vecchia le sorride. Anna non ha bisogno di una risposta: le linee sul suo viso, come si muovono, sono la sua certezza e il suo consenso.

Si affaccia alla finestra, l’autista dell’agenzia è seduto sulla panchina del parco, lo chiama. Intanto, nella tasca della giacca, le sue dita tirano il filo del bottone, lo sentono ancora avvolto intorno ai quattro fori, attorcigliato come i bruchi alle foglie,

al sicuro,

legata per non perderti,

come vorresti essere tu,

sì, come vorrei essere io.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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