La morte di Kafka

di Antonio Iannone

ai miei amici

Immagine di Jan Hladík

Ieri con alcuni amici abbiamo discusso delle cose di cui si discute tra amici. Se Kafka sia morto o no di morte naturale. Uno di loro ricordava ad esempio – sostenuto dall’altro – che Kafka si fosse suicidato. Che Kafka somigliasse nella sua morte a Benjamin – della cui morte discutiamo a ogni occasione –, a Morselli, a Simone Weil. Che ci sia stato intendo nella sua morte un che di volontà.

Può sembrare che non faccia differenza. Ma se ci sia o no volontà nella morte fa tutta la differenza del mondo. Uno dei miei amici ha detto che non si tende a considerare che Kafka sia morto. Kafka – ha detto – «dovrà essersi dissolto». Ho anch’io l’idea di Kafka – nell’età indefinita delle esangui immagini da cui è ritratto, solo o con qualcuna delle sue donne, con occhi remoti – che muore «nella neve», com’è morto Robert Walser e come allo stesso modo Fleur Jaeggy registra nei Beati anni del Castigo.

Io ero – e sono ancora – quello che tra i miei amici aveva torto. Ricordavo infatti che Kafka fosse morto di morte naturale, nel senso che la tubercolosi non ha che la morte a ultimo stadio. Una veloce indagine ci condusse a una verità parziale: sembra che Kafka sia morto a causa di una conseguenza della tubercolosi, che gli rendeva difficile nutrirsi. Sembra ancora che sul letto di morte gli sia stato trovato il racconto Un artista del digiuno. Ma l’ambiguità in cui la morte di Kafka è annegata non è contestabile. La morte allude (illude) all’eroismo. Un uomo che subisca – come Giobbe – un destino avverso ha del santo. Un uomo che cada nella morte senza significato, ha dell’ironico. Per non dire di chi muore in guerra, civile o soldato. Come una lunga convivenza tradisce la vita interiore, così la morte tradisce la vita degli organi.

La morte di Kafka fu una morte di convalescenza, cui nulla valse la dissoluzione. Quando ero all’università un docente di filosofia morale disse che si sarebbe dovuto scrivere un libro su come le malattie mortali dei filosofi tradissero la loro occupazione: Kant disorientato dalla labirintite, Freud ammutolito dal tumore… di questi libri ci sono soltanto frammenti nei libri altrui (Gli ultimi giorni di Kant, de Quincey; Goethe muore, Bernhard; Bela Lugosi, Franzosini). La morte del Genio è in effetti oggetto di interesse.

Una volta che i miei amici furono andati via chiesi a me stesso se credessi che Kafka si sia detto, un giorno, «Smetterò di nutrirmi», o se non abbia accompagnato allo stomaco cucchiaiate di brodi (ciò che si mangia da malati). Mi chiesi se Brod non abbia tentato – con l’estrema violenza con cui si sconta la vita – di ficcargli in bocca da mangiare, di nutrirlo a forza, di costringerlo a lavorare ancora. Mi chiesi se non abbia tentato di dissuaderlo. Posso immaginarlo Brod, nei tondi occhiali che indossa in un ritratto che ho adesso sottomano, dire all’amico: «Su, mangiate!». E anche mi è concesso immaginare Kafka voltarsi dall’altro lato. Questi tipici atti di volontà dicono tuttavia di una cattiva fede.

Cos’è quella forza che ci incatena ai nostri obblighi? Immagino sia la medesima forza – lo intendo in senso fisico – che ci fa scrivere. La scrittura non nasce dalla volontà. Quest’atto dev’essere stato ciò che ha guidato Kafka nei suoi ultimi mesi di vita. Mesi in cui – sappiamo – scriveva con lentezza. Con distrazione. La sua nolontà – che adesso ci guida nella scrittura – si sfibrava. Se qualcuno avesse l’ardire di scardinare l’angusta tana praghese in cui dimora, l’ardire dell’estumulazione, lo troverebbe ancora lì, intatto, né degradato né mummificato. Ancora lì lo troverebbe, ne sono sicuro. Ancora lì: a scrivere.

4 Commenti

  1. Sulla morte e il digiuno forzato di Kafka vale la pena di ricordare: Raoul Precht, “Kafka e il digiunatore”, Nutrimenti 2014, https://www.nutrimenti.net/libro/narrativa/catalogo-storico-narrativa/kafka-e-il-digiunatore/. Fu in effetti l’ultimo racconto che scrisse. Precht lo traduce, introduce, e ricostruisce la figura dell’Hungerkünstler, l’artista del digiuno, fenomeno di fin de siècle per fiere, circhi e teatri. Kafka ne era attratto, purtroppo sappiamo perché.

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davide orecchio
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Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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