In risposta a “Riaprite i manicomi”

di Mariasole Ariot

Una preghiera per la riapertura dei manicomi: questo è quello che su Il Foglio auspica Camillo Langone pochi giorni fa.

La motivazione: tutti siamo malati di qualcosa: la differenza è che noi antibasagliani cerchiamo di non pesare sul prossimo. Un Basaglia, che, secondo l’articolo, ha inguaiato migliaia di famigliari malati di mente che da allora devono improvvisarsi psichiatri domestici, e magari impazzire pure loro.
Un articolo breve, brevissimo, la lunghezza, appunto, di una preghiera da recitare in coro.


Non occorre ripercorrere i passi di Basaglia, le sue motivazioni, la legge 180. O forse sì, come ho scritto qui in 180 passi indietro: occorre parlare di ciò che della 180 è stato fatto, su ciò che è stato smantellato, dei brandelli, delle zone ferite, delle dimenticanze, delle briciole rimaste.
Occorrerebbe dire che i manicomi che si vorrebbero riaprire in alcune zone sono già riaperti: zone silenziose, visitate troppo poche da “i sani” di cui parla Langone e che “potrebbero impazzire pure loro.” Zone buie, interstiziali, lontane dallo sguardo che si potrebbe incrinare.
Tralasciando i reparti psichiatrici in cui, come ormai si sa ma che forse si dimentica, i pazienti vengono ancora legati ai letti, reparti fatiscenti, di pareti scrostate e ruggine nei dentro e fuori dell’esistenza, dove il massimo che può pretendere una persona ricoverata, salvo rare eccezioni territoriali, è “un giro medico” al giorno e infermieri che non sanno dove e come comportarsi in casi di crisi, esistono le ctrp, comunità terapeutiche protette, dove i malati (imbottiti di farmaci – perché è questo che il sistema permette: la parola costa più di una pillola), possono passare anche venti, trent’anni della loro vita. E magari, quando il posto letto, per i tagli dei fondi, non è più garantito, dopo una vita trascorsa in un luogo che quantomeno è diventato famigliare, devono essere trasportati di edificio in edificio, dove si è liberato un posto letto, dove a una vita morta si sostituisce una morte in vita.


Molti malati sono costretti a vivere nelle proprie famiglie? Vero. E in condizioni pessime sia per i malati che per i famigliari.Vero. Famiglie in cui spesso, peraltro, il disturbo è nato, cresciuto, si è alimentato. Ma qui si apre lo scenario pietoso della Sanità Pubblica, che Langone certo non nomina: una persona psichiatricamente malata, ma questo vale anche per le patologie fisiche, se considerata “abbastanza malata”, inabile al lavoro, il ché significa con una percentuale che va dal 75% al 99%, viene aiutata dallo stato con 336 euro mensili.

Dando una breve occhiata – lo potete fare tutti – esistono precise tabelle alla cui diagnosi corrisponde un minimo e un massimo di invalidità.
Un esempio:

SINDROME SCHIZOFRENICA CRONICA CON DISTURBI DEL COMPORTAMENTO E DELLE RELAZIONI SOCIALI E LIMITATA CONSERVAZIONE DELLE CAPACITÀ INTELLETTUALI: invalidità tra il 71 e l’80%. Ciò significa che la percentuale del 75% potrebbe anche non essere raggiunta. Quindi: nessun aiuto.

A giugno 2020, finalmente, la Corte costituzionale, esaminando una questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di appello di Torino, una città particolarmente attenta alle difficoltà dei disabili, ha stabilito che un assegno di 285,66 euro (allora l’aiuto era questo) fosse inadeguato a soddisfare i bisogni primari della vita, quindi anticostituzionale. L’importo negli anni è aumentato, ma l’inadeguatezza è rimasta.

Può forse, una persona invalida, considerata non abile al lavoro, vivere di 336 euro? Pagarsi affitti, bollette, cibo, una vita minima? Non può – e allora resta alle dipendenze della famiglia, che con quei soldi può forse permettersi di pagare farmaci (perché no, non tutti i farmaci, anche quelli più importanti e salvavita vengono garantiti dal sistema sanitario: molti restano a carico del paziente) – né certo una struttura privata. E forse una minima parte investita per un aiuto che vada oltre il farmaco. Perché nei centri pubblici i pazienti, anche pazienti gravissimi, sono ricevuti mediamente una volta ogni due mesi. Due parole, un controllo, un rivalutazione farmacologica, una ventina di minuti che comprendono i dieci passati dallo psichiatra a battere a computer il referto della visita.

La soluzione per Langone – e per chi, i troppi, che con Langone sono d’accordo – non è certo quella di rafforzare l’aiuto economico per permettere a persone in difficoltà (in vera difficoltà: perché no: non siamo tutti malati, come scrive Langone), di avere una vita più dignitosa. La soluzione è quella di cancellare vite richiudendole in luoghi sommersi, gettare la chiave, chiudere gli occhi e continuare a mangiare la propria cena in pace, senza il pensiero dell’altro. Lasciando ai più l’immagine dell’altro malato come quella di un matto violento e distruttivo, che deve quindi essere rinchiuso. Una reclusione di cui si sa poco, che esiste ma resta sommersa, evitata agli occhi, distante, una gentrificazione dell’esistenza. Le comunità potrebbero essere un aiuto ai pazienti ma anche alle famiglie, ma i fondi per sostenerle vengono ripetutamente tagliati: è diminuito il personale, diminuisce la cura, diminuisce una vita degna di essere vissuta, diminuisce la parola a favore di una contenzione farmacologica, avvicinandosi a strutture manicomiali di vecchia memoria: quelle che Langone vorrebbe riaprire.

  • *immagine di Jonaas Sild da unsplash.com

11 Commenti

  1. Credo che le persone come Langone “giochino sporco”. Siccome mi rifiuto di credere che un giornalista intelligente e attento come lui possa aver dimenticato che cosa era la salute mentale prima della L.180, penso allora che le sue osservazioni facciano parte di un disegno più ampio che punta alla distruzione del SSN e che vede nelle attuali condizioni della “psichiatria istituzionale” un bersaglio perfetto cui rivolgere i propri strali. Le cose che scrivi nel tuo pezzo sono ahimè verissime e la sensazione di moltissime famiglie di “sofferenti psichici” è quella di essere abbandonati da uno stato che non ti permette nemmeno di vivere una vita degna di questo nome. Del resto, se la memoria non mi inganna, fu un governo Berlusconi a compiere l’attuazione di quella legge solo perché aveva capito che poteva realizzare un risparmio economico. Il fatto che il risparmio fosse sulla vita delle persone era un dettaglio ininfluente. Ci vorrebbe invece la piena attuazione di quella legge, la creazione dei giusto numero di CSM e di strutture di sostegno alle famiglie sui territori, l’assunzione di nuovi medici e psichiatri e infermieri e assistenti e il riconoscimento anche del valore economico reale di una vita che non può essere completata da un reddito derivante da un lavoro ( e non mi sfugge affatto la situazione reddituale di tutti i lavoratori) ma che non può ricevere come aiuto dallo stato una mancetta di cui si può solo vergognare anche perché serve veramente a poco. E le famiglie e le persone rimangono sole e nessuno le aiuta. Nessuno. Langone invece si dovrebbe vergognare delle cose che scrive e delle proposte che fa perché sono davvero nefaste, ovvero indicibili.

    • Caro Vittore, grazie di aver letto innanzitutto. Dici bene: “Ci vorrebbe invece la piena attuazione di quella legge, la creazione dei giusto numero di CSM e di strutture di sostegno alle famiglie sui territori, l’assunzione di nuovi medici e psichiatri e infermieri e assistenti”. È su questo che si dovrebbe investire, invece, taglio dopo taglio, il disinvestimento (anche sul piano della dignità della persona) è costante, e temo peggiorerà.
      Questo mio pezzo, infatti, più che una risposta a Langone è un tentativo di mostrare queste realtà che restano troppo spesso nell’ombra. Perché del pensiero di Langone sono in molti, purtroppo. Molti che sicuramente non hanno esperienza diretta o indiretta di queste realtà.

      • Sono d’accordo anche con questo tuo commento. Ho fatto, negli anni ’90, l’operatore sociale per una decina d’anni dentro il comprensorio dell’ex Ospedale Psichiatrico di Trieste nel quartiere di San Giovanni, sono figlio di uno psicologo e di un’insegnante di sostegno, ho seguito per diversi anni le lotte degli operatori delle cooperative sociali in tutta Italia, ho persone, amici e parenti con uno o più familiari “con problemi”, ho visitato i manicomi e gli ex manicomi in tutta Europa, ho visto le persone legate, ho visto le persone risolte ho visto le persone in crisi profonda. Ho cercato di consolare genitori di, fratelli/sorelle di, operatori che conoscevo da anni e nuovi assunti. Ho cercato di trovare (senza riuscirci) la soluzione di problemi piccoli e grandissimi a persone con storie molto di verse ma sempre molto complicate. Rileggo spesso Basaglia e anche alcuni basagliani e sono convinto che nella sua intuizione c’era una visione bellissima di società. L’oggi mi spaventa. Le persone come Langone mi ripugnano ma penso di poterle contrastare con il ragionamento, anche se sono convinto che quello che diffondono serve ad uno scopo preciso, lo smantellamento dell’esistente. Rimango spiazzato invece su come cercare di far ragionare “la gente”, cercando di spiegare cosa abbiamo davanti e cosa potremmo avere, sapendo che la “sofferenza” non può essere eliminata del tutto, ma sicuramente si posso aiutare le persone e le loro famiglie in maniera molto più dignitosa di quanto non venga fatto adesso. Grazie per quello che scrivi, per quello che fai. Io mi metto a disposizione, se puiò essere d’aiuto per cercare di cambiare lo stato di cose esistente.

        • Caro Vittore, grazie. La tua esperienza dice molto della situazione. Dice anche di chi, Langone apparte, appunto, ha questo stesso pensiero, avendo completamente dimenticato ciò che la 180 era/sarebbe.
          Durante un corso di filosofia (a distanza) tenuto da Aldo Rovatti, tra i molti interventi ci fu anche quello di Peppe Dell’Acqua, allora aiutante di Basaglia. Che dire: le mani sulla fronte rispetto a quello in cui quegli anni sono stati smantellati, la situazione in cui si ritrovano le persone in uno stato di disagio. Ci sono isole migliori, luoghi interstiziali dove qualcosa funziona(va) meglio. Ma qui si tratta di un reale sgretolamento della Sanità Pubblica, che va in una direzione che tutti ben conosciamo, al di là delle patologie psichiche. I tagli alla sanità sono ovunque, la mancanza di personale veramente capace e predisposto all’ascolto e non solo alla contenzione farmacologica o purtroppo anche fisica, peggiora le cose. Perché si potrebbe fare di più, si potrebbe – ma forse non si vuole. Grazie per il tuo contributo

  2. A questo signor Langone andrebbe ricordato, perché non ha vissuto nulla di quanto va dicendo, di cosa furono davvero i manicomi in Italia. Andrebbe ricordato quel criminale medico primario dell’Ospedale (Manicomio) di Collegno(To), che udendo un canto provenire dal basso, dalla voce di un ricoverato, forse da una cantina, urlò ad un infermiere: Portami su quello che canta! Poi fece legare il pover’uomo ad un termosifone.
    Correva l’anno dei manicomi 1968, forse ’69. Un mio amico poeta, Massimo Tosco, scrisse una tragica ma bellissima composizione intitolata appunto: “Portami su quello che canta” che fu letta in quegli anni per piantare nella memoria, nella mente degli ascoltatori questa e altre tragedie manicomiali.

    • “Portami su quello che canta” – e oggi, Mario, quel canto porta lo strappo delle voci tappate, come l’infermiere di allora di cui parli. E crescono piuttosto le voci di chi urla dall’altra parte. Forse, chi non ha vissuto quegli anni, non solo non ha voglia di averne memoria, di scavarla, ma non guarda nemmeno al presente che piange. E arrivano preghiere come urla, urla dall’alto che dicono: richiudeteli e ogni problema si risolverà.

  3. Grazie per questa riflessione. Sembra incredibile che esista un pensiero tanto disgustoso, che nutre le pulsioni più regressive e l’ignoranza più gretta e fa di tutto per distruggere lo stato sociale, spacciandosi addirittura per ‘preghiera’.

  4. Grazie Mariasole. Credo che queste riflessioni portino anche sul rapporto fra individuo e società, su chi viene considerato “a carico” (un peso), una cellula (malata?) da isolare, e chi, invece, come degno/a abitante. Fare sanità significa anche tessere un complesso sistema di relazioni, con le loro difficoltà e potenziale ricchezze, dove l’assimmetria (che tanto si presta a tante forme di abuso di potere) fra curato/curante, malato/sano, perde il suo assetto gerarchico, verticale, per trovare forme rizomatiche e reticolari di esistenza.

  5. Cara Elena, grazie innanzitutto di aver letto e del tuo commento. Cogli un punto fondamentale del rapporto fra individuo/società, in cui persone a carico – che peraltro può essere esteso anche a persone con malattie fisiche (il tema degli assegni di invalidità e degli aiuti dallo stato vale ovviamente per qualunque patologia, ma si può estendere a senza tetto, ad altre persone in difficoltà – porta a queste sorture: indegno vs degno. Che peraltro ricorda, seppur con le dovute differenze storiche e con situazioni veramente aberranti, a quelle “vite non degne di essere vissute” di tragica memoria. Purtroppo viviamo in un paese, lo dico perché in altri paesi all’estero non è così (penso al Galles), in altri purtroppo è invece anche peggio (vedi USA), in cui la presa in cura da parte della comunità e dello stato è vista semplicemente come un peso, un resto da scartare, gettare nel dimenticatoio, spesso con conseguenze nefaste. Ci sarebbero davvero molte analisi da fare, che vanno ben oltre una singola preghierina di un personaggio che peraltro ha una visione terribile e discriminatoria verso la maggior parte delle categorie più deboli (ti invito a cercare la sua voce wikipedia che fa tragicomicamente rabbrividire), si dovrebbe davvero aprire un grande dibattito. Che ora come ora, purtroppo, la sinistra non sostiene e per cui non lotta più.

  6. Mariasole, grazie per questo tuo intervento.

    “la parola costa più di una pillola” e “gentrificazione dell’esistenza” sono riflessioni che restituiscono l’atroce realtà del nostro metro di misura della esistenza umana, della esistenza del nostro simile: la produttività, l’efficienza, il successo nel raggiungere obiettivi promossi da un sistema capitalista, il consumo. Tutto quello che resiste a questa logica (in qualche modo anche tutti colori che hanno bisogno di cure e assistenza) diventano scarti.

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Mariasole Ariot ha pubblicato Essendo il dentro un fuori infinito, Elegia, opera vincitrice del Premio Montano 2021 sezione opera inedita (Anterem Edizioni, 2021), Anatomie della luce (Aragno Editore, collana I Domani - 2017), Simmetrie degli Spazi Vuoti (Arcipelago, collana ChapBook – 2013), poesie e prose in antologie italiane e straniere. Nell'ambito delle arti visuali, ha girato il cortometraggio "I'm a Swan" (2017) e "Dove urla il deserto" (2019) e partecipato a esposizioni collettive.  Aree di interesse: letteratura, sociologia, arti visuali, psicologia, filosofia. Per la saggistica prediligo l'originalità di pensiero e l'ideazione. In prosa e in poesia, forme di scrittura sperimentali e di ricerca. Cerco di rispondere a tutti, ma non sempre la risposta può essere garantita.
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