Pelle su pelle
di Federica Rigliani
Ci trovammo il tardo pomeriggio di un’estate agli sgoccioli, noi due. Su una spiaggia deserta e
sotto un cielo violaceo. Col borsone a farmi da cuscino e la sabbia fredda tra le dita dei piedi,
leggevo un romanzo; gli angoli delle pagine stretti tra due mollette per capelli perché non le
chiudesse il vento. Fu l’aria a portarmi l’afrore che emanavi. Svettavi sulla battigia tra due lame
azzurre: quella tersa del cielo e quella fluttuante dell’oceano, dorata solo lì, nel punto dove il sole
stava per tuffarsi.
Apparivi e scomparivi oltre i lembi del mio lungo abito bianco: nascondevano e svelavano i tuoi
tendini in rilievo, i muscoli densi, gli arti esili eppure robusti.
Eri forma fatta perfezione, gentilezza che aspettava di tuonare.
E nel fissare la tua regalità, risentii a una a una le parole di mio padre.
Avevano tutte la sua voce.
Non muoverti, sussurrò il giorno che caddi male.
Cavalcavo da anni, ma la pioggia ci colse di sorpresa e i cavalli mantennero la calma finché non
arrivò un temporale. Terrorizzata dallo sfolgorio dei lampi Perla nitrì di un grido quasi umano e,
indomabile, dopo aver sgroppato in avanti mi disarcionò. Respira, disse babbo riempiendosi i
polmoni, era in sella a Sauro e senza togliermi gli occhi di dosso mi invitava a imitarlo. Stai ferma,
disse allo schianto di un nuovo tuono, quando Perla si sollevò grattando con le zampe l’aria sulla
mia testa.
Rimase impennata davanti a me per un tempo sospeso: le mammelle oscillavano dal ventre,
solcato da un reticolo di vene prominenti, e le cinghie di cuoio scricchiolavano mentre il sottopancia
si allentava. Una statua a mezz’aria, fin quando gli zoccoli anteriori affondarono nella terra
melmosa schizzandomi il viso di fango, e le fibbie cedettero. Poi, scartando a sinistra, sparì al
galoppo tra il verde scuro degli alberi. Non avevo mai visto tanta eleganza maestosa e selvaggia.
Babbo mi caricò su Sauro e mi tenne stretta davanti a sé, tra cosce e braccia, mentre governava
con difficoltà il cavallo. Mi ero slogata una caviglia. Me la fasciò sotto la tettoia di un’area
attrezzata, dove trovammo riparo fino a quando le nuvole si alleggerirono e si fecero biancastre e
dove, non so come, tornò Perla. Ora era calma e aveva il dorso lucido d’acqua. La accarezzai, mi
rimase il pelo bagnato sulla mano, il suo odore forte, la voglia di montarla.
Pelle su pelle era da sempre una mia fantasia. Arrivava dai libri sugli indiani d’America e
celebrava il contatto ancestrale tra l’uomo e l’animale, consacrato dal soffio del Grande Spirito che
fonde in un unico equilibrio il tutto vivo. Erano stati un regalo di mio padre. Me li leggeva prima
che imparassi a farlo da sola e da ragazzina mi portava al maneggio. Risalivamo al trotto le colline
tra cipressi puntuti e fieno dorato, cavalcavamo sull’erba medica che si stendeva tutt’intorno,
gridavamo al vento. Io ero squaw dai nomi di Luna; lui Geronimo, Toro Seduto, il figlio di un
Grande Capo. Immaginavamo bisonti pascolare nella pianura, li cacciavamo con giudizio e dopo
averli uccisi rendevamo grazie a Manitù per il loro sacrificio. Poi tornavamo alle stalle, riponevamo
le selle, strigliavamo i cavalli.
Quel pomeriggio di fine estate, il formicolio che mi attraversò rinverdì il mio sogno solitario e le
parole di mio padre aprirono il sentiero delle possibilità. Oltre la paura delle prime volte.
Io sono come sono perché lui era come era.
Con la testa di pietra difendo l’anarchia che mi ha trasmesso.
Forse, anche per questo sono sola.
Non temere i pericoli, fanno parte del gioco della vita, diceva. Perché l’insidia è ovunque e anche
nella monotonia si può essere imprudenti: potevo aprirmi la testa scivolando in doccia o essere
investita sulle strisce pedonali mentre andavo a scuola. Quindi, mi invitava a sfidare la mia
curiosità, ché osare sfora i limiti, e farlo può schiudere sorprese meravigliose quanto ali di farfalla.
Però mi ha insegnato a ponderare l’impulso, valutare i rischi e mettere radici salde al mio ardire.
Come il giorno che mi ha calato con un piccolo canotto in una chiesa romanica sprofondata su una
sorgente. La navata destra poggiava sbieca sul terrapieno che l’aveva ingoiata, e la cornice di quella
che era stata una vetrata rimaneva a livello del prato, sbarrata da una X di un nastro rosso e bianco
che oltrepassammo mano nella mano. Seduti sull’erba, piedi penzoloni, quasi toccavamo l’acqua di
quella piscina cristallina, un mondo ondulante e sommerso che restituiva luccichii cangianti sulla
volta di tufo calcareo, integra e rimbombante di suoni per me misteriosi, quasi arcani. Avevo dieci
anni.
Nulla potettero gli ori e gli argenti appesi al collo e vinti a rana, a dorso e a stile libero nelle mie
competizioni Regionali, babbo assicurò il canotto a una fune e sentenziò Giubbotto salvagente e
niente bagno. Poi diede metri alla corda e quella sguisciò come una biscia dalle sue dita.
Sentivo lo scafo diventare freddo sulle gambe mentre scivolava in acqua senza lasciare scie,
rallentavo lo sguardo e trattenevo ogni dettaglio perché non mi sfuggisse la più piccola bellezza,
intorno e sotto di me.
L’eco dello sciabordio sulle pareti si diffondeva come respiro vibrante delle pietre, ravvivate da
lame luccicanti che fendevano la penombra per inabissarsi tra le alghe verde malva. Licheni sulfurei
di ogni forma sporgevano a grappoli dal muschio amaranto, ricoprivano in parte le pareti e ne
ammorbidivano le spigolosità. Su qualche Ex Voto ancora cementato, i ringraziamenti e il tipo di
grazia ricevuta; quelli sommersi erano spaccati in più parti con le scritte interrotte, accanto a lucidi
ciottoli bianchi, grigi, a tratti verdognoli, che si intervallavano ad antichi mosaici cosmateschi.
Bolle sorgive dalle rime della terra li plissettavano in un gioco di luminescenze, risalivano l’acqua
arricciate in un gorgoglio muto che ribolliva in superficie, mi esplodevano silenziose tra le dita per
dilatarsi in leggere e sempre più ampie increspature.
Immagini che lo stupore di allora rende ancora vive, regali rubati al no del diniego.
Quando babbo ha lasciato per sempre la mia mano, ho continuato a vedere le sue orme appaiate
alle mie nei crocevia delle incertezze: rifletto prima di osare e azzardo solo se cosciente delle
risposte da opporre all’imprevisto. Decisa e fiera. Come mi voleva lui di fronte alle sfide.
E ora, la mia sfida eri tu.
Lasciai cadere l’abito, tolsi le mutandine, disfeci lo chignon sfilando il puntale d’osso affilato, che
cadendo si conficcò nelle piccole dune adombrate a mo’ di meridiana. Pregavo che non te ne
andassi mentre schivavo conchiglie e ossi di seppia per evitare il più lieve dei rumori: i lunghi
capelli al vento, la brezza tra i ricci corti del pube, i capezzoli grinzosi come olive nere secche.
Ti raggiunsi con l’ansia in gola.
La mandai giù insieme alla saliva.
Con l’acqua alle caviglie sondammo occhi negli occhi la distanza che ci separava, tu scrollavi un
sopracciglio nel tentativo di scacciare una mosca, io mi guardavo riflessa nelle tue pupille verticali,
caverne d’ebano spalancate sulla mia immobilità. La tua criniera sventolava nella stessa direzione
delle mie ciocche libere, di un castano leggermente più chiaro dei tuoi crini. Quando la mosca si
posò sulla vena che discendeva verticale il tuo muso, dilatasti le narici con uno sbruffo infastidito.
Quello fu il mio la.
Un passo avanti e a braccia tese accolsi nelle mani le rientranze ossute delle tue guance,
gocciolavo dalle ascelle con un odore acre. Poi appoggiai la fronte sulla tua. Per rassicurarti. Per
rassicurarmi.
Schioccai la lingua e riempitimi i palmi della compattezza del tuo fianco, marrone come il fieno
più scuro, conficcai le unghie nel garrese bollente, rafforzai la presa, spinsi sulla sabbia come molla
e scivolai in una caduta goffa. Una volta e un’altra ancora.
A qualcosa dovevano pur servire le conoscenze di amazzone in erba che avevo, me lo chiedevo
mentre tu, docile e calmo, accoglievi con sguardo bonario ogni mio tentativo. Fino al salto decisivo,
quando senza bardature e finimenti mi pizzicasti i glutei, sui quali mi spostavo in cerca di
equilibrio, e le labbra tra le gambe. Ti strinsi tra le cosce in una morsa e mi inondasti di calore irto, un solletico sconosciuto che accolsi con stupore. Eri la mia sella e la tua pelle pulsava sulla mia.
Niente staffe. Niente morso. Ora dovevo fidarmi di me.
Sibilai shhh coi seni premuti sul tuo collo, intrecciai alle dita i crini più lunghi e venni su nell’aria.
Tirai a me il braccio destro, voltasti il muso da quel lato; provai a sinistra, rispondesti. Allora
deglutii e, gonfiato il petto, ti spronai con due leggeri colpi di tallone.
Fendesti al trotto la linea d’acqua e sabbia che sposava il mare alla costa, uno dietro l’altro
affondavi gli zoccoli ferrati nello sciabordio blu e bianco delle onde. Sorridevo al piacere del tuo
massaggio ispido e mi modellavo come terra bagnata sul tuo dorso morbido e legnoso. Le spalle in
un su e giù dinoccolato e le ginocchia nella stretta di un’andatura dolce che presto non mi bastò:
volevo sbattere con vigore le mie pieghe sulle tue. Quindi strizzai gli occhi, bussai così forte tra
ventre e fianco che ti infilai i calcagni tra le costole, e al grido Op! cedemmo al galoppo come
freccia allo schioccar dell’arco.
Gli stabilimenti balneari, smontati in assi di legno accatastate, facevano da cornice a deboli luci in
lontananza, e del sole, inabissato sotto un’aureola argentata, non rimaneva che un fulgore oltre
l’indaco scuro, solcato all’orizzonte da grandi navi e, sotto costa, da piccole imbarcazioni accese
dalle lampare dei pescatori. Entravamo nella notte che si avvicinava spaccando il vento e le onde:
deflagravano in mille gocce al tuo passaggio, esplodevano con bagliori grigio acciaio, incendiavano
l’acqua, mi riconsegnavano a pioggia l’oceano sulla bocca e sul corpo ramato. E goccia dopo
goccia, mi impastavo a te.
Non so dire quando il mio odore segreto si mescolò al tuo di paglia e di stalla, di stabbio e di
fango melmoso. Forse fu quando si amalgamarono i sudori, e io, inerme, assecondai l’eccitazione
selvaggia che mi colse. Battevo forte su di te. In levare perdevo aderenza e una freschezza invisibile
addolciva l’attrito tra le cosce, poi tornavo a combaciare col tuo caldo in un singulto. Un altro. Un
altro ancora. Vestita d’aria penetravo il soffio di Manitù e il suo tutto vivo, con la pelle indolenzita
da un diletto carnale rude e meravigliosamente brutale. Risucchiate dal tuo dorso e schiuse come
corolle, le labbra gridavano tumide e irrorate.
Socchiusi più volte gli occhi. Più volte ansimai. Finché, ormai molle, resi tumultuoso il
godimento, cedetti allo spasmo, strozzai un grido e il sale mio divenne tuo.
