Intermezzo? Leggendo d’estate Sally Rooney

di
Lisa Ginzburg
Aspettavo di avere tempo calmo per calarmi nella lettura di Intermezzo, ultimo romanzo della scrittrice irlandese Sally Rooney, uscito qualche mese fa per Einaudi nella traduzione di Norman Gobetti. Ne avevo molto sentito parlare, in modi e toni diversi, e come accade con quel che è “sulla bocca di tutti”, la mia era curiosità impastata di prudente diffidenza. Il tempo calmo di una feria d’agosto, ed ecco ho divorato Intermezzo in due giorni o poco più. Una lettura rapinosa che mi ha lasciato sazia tanto quanto perplessa. Se la mia curiosità era stata ampiamente soddisfatta, la diffidenza invece era ancora lì, corroborata e in un certo senso più persistente di prima. Perché? L’occasione era utile a riflettere sugli strani processi per cui ci succede di venire accalappiati da un storia, ammirare la maestrìa tecnica con cui è stata costruita e raccontata, a quella storia ripensare più volte nei giorni successivi alla lettura – e tuttavia, non esserne per davvero convinti. In questo caso, anzi, poco.
Sempre impercettibile e difficile da articolare, il motivo profondo per cui da un romanzo ci sentiamo nutriti, trasformati, o invece no. Sally Rooney, potrei dire, per un certo verso mi ha stregata: mi svegliavo e già davanti al secondo caffè ero lì, pronta a leggerla fino a notte, pagine su pagine macinate senza sforzo, avida di capire come la vicenda da lei inventata e tanto bene imbastita sarebbe andata a finire.
Ma poi, ecco – però.
Faccio parte della chissà quanto esigua schiera di lettori convinti che la letteratura debba soprattutto nutrire il nostro bisogno di complessità. Persuasa che un “buon” romanzo, buono lo è se lascia in testa domande, deposita sensazioni da ricordare sotto forma soprattutto di tracce di interrogativi. Non che la scrittura di Sally Rooney diserti le complessità psicologiche, tutt’altro; eppure l’impressione conclusiva lasciatami da Intermezzo per me non è stata quella di avere seguito un processo di scavo. Leggendolo ho fatto un viaggio, ma come fosse un viaggio turistico, dove non si vede per davvero un pezzo di mondo in modo autonomo, con occhi propri, selettivi e liberi, bensì ce ne si fa un’idea sommaria, di facciata, un po’ “da cartolina”. Effetto voluto o meno, il passo narrativo di Rooney, in intermezzo almeno, mi è sembrato possedere un’andatura cauta, fedele ai chiaroscuri di ogni personaggio e di ogni dinamica di relazione, ma procedere in maniera non veramente coraggiosa. Passo fermo sul limitare, passo che non entra, non si addentra. Quanto ai chiaroscuri della vicenda, pagina dopo pagina si riflettevano nei miei occhi come giochi di luce dalle tonalità le più varie, perfettamente restituite dalle parole, man mano però affievolendosi sino a scolorare assestandosi su un tiepido grigio, per poi spegnersi del tutto in nome di un imperativo a “chiudere il cerchio”, monito chiaramente urgente per questa narratrice abilissima quanto in lotta (forse a sua insaputa) con la tentazione di una fuga dalla complessità.
Scrittura magistrale quanto a tecnica; dosata alternanza di voci precise e anche poetiche; nitide descrizioni di luoghi; dialoghi resi spesso in forma indiretta, sempre molto verosimili, efficaci. Eppure, e quasi parrebbe un paradosso, terminata la lettura ho sentito la mancanza di una sensazione fondamentale nel caso dei romanzi importanti, quelli che poi “restano”. La sensazione di avere lambito un enigma, un mistero: eccola perduta, aggirata, scivolata via, ineffabile come un’occasione persa. Senza avere avvertito, filtrato attraverso la trama del racconto, quanto la vita sia anche assurdità, insensatezza. Quanto il nostro sapercisi barcamenare equivalga alla capacità di accettare l’incompiuto, l’inconcluso, il non senso delle cose.
Due fratelli, a Dublino. Hanno perso il padre da poco tempo. Il fratello minore con il padre viveva, mentre il maggiore abitava lontano, in apparente dissidio dal genitore. Ora che quello è morto, entrambi i figli (uno molto più giovane dell’altro) soffrono e lo piangono. Il lutto li ha colpiti, sferzati, ed entrambi cambiano, e si allontanano: tra di loro, e ciascuno da se stesso, per poi nel corso del romanzo riavvicinarsi, tra di loro così come ciascuno a se stesso. Amano delle donne, donne del passato o appena incontrate, ci fanno l’amore. Tutto è cataclisma, tutto è vibrare, in una vertigine di tanathos e eros. Tutto prelude a un’epifania, che infattti puntuale alla fine arriva. A chiudere, sin troppo, il cerchio.
Molto sesso. Sesso sempre appagante, invariabilmente felice a prescindere dalle tristezze circostanti. “Oh che bello”, “che meraviglia”, a ogni penetrazione, già prima a ogni sfregarsi di genitali. In uno scenario di dolore, di rapporti lacerati tra due fratelli solipsisti, qualsiasi loro contatto fisico con le donne, invece una delizia.
Percezioni della natura, fruscìo di foglie, l’odore della neve, fatica di andare sotto la pioggia, desolazione di una Dublino stanca di sé stessa e semi-deserta, squallore protettivo di centri abitati più periferici. Il cerchio chiuso per cui ciascun personaggio è le sue sensazioni e i suoi contatti con il prossimo. Contatti che certe volte sono violenza (nella migliore tradizione, i due fratelli, scossi dagli avvenimenti, vengono alle mani). Altre volte, altro sesso – coiti come forme di conoscenza non solo delle amanti, conoscenza “in toto” del mondo. Nel più riuscito dei casi, amore per gli animali (un cane è il vero grande protagonista, il suo contatto con il più giovane dei due fratelli è unico caso di tenerezza davvero reciproca).
Nella lunga durata, la tecnica ineccepibile e “accalappiante” con cui Intermezzo è scritto mostra il nervo scoperto del suo punto debole. L’automatismo dello sguardo narrativo, impossessandosi di ogni possibile mistero, va a detrimento della potenza letteraria. Benissimo costruito, è però un romanzo che si scontra e nel finale si arena nello scoglio di una superficialità di fondo. Pare un ossimoro. Ma la “superficialità di fondo” non solo esiste: ci circonda. E saperla vedere, se pure amareggia, anche salva.
