Il premio «Dar» e la letteratura russa – una conversazione con Michail Šiškin

 

©Igor Bitman

 

a cura di Giulia Marcucci

Lo scorso agosto, a Parigi, durante il convegno internazionale degli slavisti ho incontrato lo scrittore Michail Šiškin (1961), invitato lì per presentare il premio «Dar». L’ultima volta ci eravamo incontrati, almeno 15 anni fa, a Pisa, dove lui aveva tenuto una lezione all’università, o forse aveva presentato uno dei suoi romanzi – non ricordo con precisione. Di sicuro, in italiano erano già stati tradotti Capelvenere (2006) e La presa di Izmail (2007), e forse anche Lezioni di calligrafia (2009), tutti usciti per Voland nella traduzione di Emanuela Bonaccorsi. In quegli anni, la sezione di lingua e letteratura russa dell’università pisana era una sorta di seconda casa per alcuni fra i più grandi scrittori russi contemporanei, che venivano a trovarci, tenevano lezioni e con i quali non di rado instauravamo rapporti professionali (ideando progetti editoriali e di traduzione) e d’amicizia. Oltre al moscovita Šiškin, infatti, in quegli stessi anni ho avuto la fortuna di conoscere il poeta concettualista Dmitrij Prigov (1940-2007), la poetessa leningradese Elena Švarc (1948-2010), lo scrittore moscovita Evgenij Popov (1946) – tra gli ideatori, alla fine degli anni ’70 e insieme a Viktor Erofeev (1947; anche lui tra i presenti a Pisa), dell’almanacco «Metropol’» (che raccoglieva testi inediti e scatenò per questo un vero e proprio caso di risonanza internazionale), e poi Vladimir Sorokin (1955) e altri ancora. Tutte voci libere, che già avevano vissuto le contraddizioni sovietiche e già avevano lottato per l’affermazione di una letteratura libera dai vincoli del realismo socialista, sperimentando nuove forme di scrittura postmoderna e denunciando con ironia e sarcasmo, non sempre senza conseguenze spiacevoli, le storture del sistema passato. E il mio non è stato un privilegio esclusivo: questi scrittori organizzavano spesso dei veri e propri tour in altre città italiane, parlando liberamente di letteratura e cultura russa, senza imbarazzo e senza correre il rischio di equivoche censure.
Dopo i primi anni Duemila, sappiamo tutti del cambiamento nello scenario politico che ha investito la Russia; nell’autunno del 2014, dopo l’annessione alla Russia della Crimea, Šiškin ricorda il suo arrivo a una grande fiera dell’editoria in Siberia, paragonabile a quella di Francoforte quanto a dimensioni; era  positivamente impressionato dall’organizzazione dell’evento, ma al contempo rimase anche molto perplesso: a differenza di quanto avveniva in Europa, dove spesso gli ponevano molte domande su Russia e Ucraina, a Krasnojarsk tutti tacevano. Ora c’è una guerra che dura oramai da quasi quattro anni, e sappiamo che questa guerra ha spaccato nettamente in due la Russia: qualcuno è rimasto, in molti hanno lasciato il paese; c’è chi, rimanendo, resta nell’ombra e in silenzio (il silenzio è spesso un mezzo di sopravvivenza), oppure sconta pene durissime: è il caso, uno fra moltissimi, della regista di teatro Ženja Berkovič e della drammaturga Svetlana Petrijčuk, accusate di «apologia di terrorismo» per la loro pièce Finist jasnyj Sokol (Finist falco coraggioso). Mentre di settimana in settimana in Russia si ingrossa la lista dei cosiddetti «agenti stranieri», e dalle librerie russe vengono ritirati e definitivamente banditi i libri di grandi studiosi e studiose (anche loro oramai emigrati), di scrittori e scrittrici, fuori dai confini della Federazione sorgono intanto nuove case editrici indipendenti che pubblicano in russo, nuovi premi, nuovi movimenti, a testimoniare la vivacità di una cultura resiliente che merita maggiore attenzione. A Parigi ho conversato con Michail Šiškin, uno dei principali promotori di questa nuova fase culturale, un «agente straniero» che in Russia nei primi anni Duemila ha ottenuto i più prestigiosi premi letterari – Russian Booker Prize (2000), The National Bestseller Prize (2006) e il Big Book Prize (2006 e 2011) – e che nel 2022, ex aequo con Amélie Nothomb, ha vinto il Premio Strega europeo con il romanzo Punto di fuga (edito da 21lettere). Il premio «Dar» da lui ideato ci ha portati a parlare, più in generale, di cultura russa, del valore dell’emigrazione e della dissidenza oggi, e anche di alcune cambiamenti che, per il mercato editoriale in Russia e la libertà d’espressione, costituiscono un ulteriore giro di vite, mentre in Italia il dibattito è diventato sempre più fioco su entrambi i fronti: sia quello culturale interno russo sia quello, all’esterno, della dissidenza.
Šiškin è indubbiamente una delle voci più significative della letteratura russa contemporanea; la sua testimonianza è dunque oggettivamente importante e oggi necessaria, anche laddove potrà sembrare discutibile: è, come ovvio, un punto di vista precisamente situato, quello di un intellettuale russo che fin dagli anni Novanta ha scelto per motivi personali di vivere in Occidente e che non solo ha (con ottime ragioni) una posizione di condanna nettissima sull’operato di Putin, ma ha anche tesi molto nette sulla continuità fra il regime attuale e i metodi e le ideologie del periodo sovietico. Altri scrittori, che oggi hanno fatto altre scelte di vita, o riservano alla storia dell’Unione Sovietica un altro giudizio, hanno probabilmente un’idea almeno in parte diversa della cultura russa attuale. L’auspicio è dunque che a questo dialogo ne possano seguire altri – anche con scrittori e scrittrici che, appunto, hanno fatto scelte diverse. Ma per chi è rimasto in Russia oggi è verosimilmente impossibile rispondere liberamente; e dunque, perché le idee espresse da Šiškin in questo dialogo, come in molti suoi scritti, possano dar vita a un dibattito vero e fecondo, la condizione (e l’auspicio più grande) è – banale ma necessario ripeterlo – che finisca presto questa guerra.

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GM: Michail, subito dopo il 24 febbraio 2022, insieme ad altri scrittori e altre scrittrici russi e bielorussi sei stato tra i primi firmatari di una lettera, in cui chiedevate al popolo russo di non mentire e di non tacere di fronte all’aggressione militare della Russia all’Ucraina, di proteggere la dignità della lingua e della cultura russe (si veda qui). Da allora i tuoi interventi pubblici contro la guerra e in difesa della cultura e letteratura russe si sono moltiplicati, molti scrittori hanno definitivamente lasciato la Russia, nel frattempo nuove case editrici indipendenti sono sorte in Germania, Israele e altri paesi, a riprova di un “letteraturocentrismo” di tipo nuovo, che ha spostato il suo “centro” fuori dai confini territoriali russi. Che cosa sta accadendo in questo presente se lo mettiamo in relazione con il passato?

In Russia c’è di nuovo una dittatura e di nuovo questa dittatura porta con sé una guerra. Una dittatura non può esistere senza nemici, senza guerre, senza lo slogan «la madrepatria chiama!». Io sono uno scrittore e il regime di Putin vuole privarmi della mia lingua, trasformandola nella lingua degli assassini. Il regime mi ha dichiarato suo nemico e questo perché, da tempo, anche io mi sono autodichiarato tale. E non sono il solo. Di scrittori così, per i quali il russo è la lingua madre e che non sono disposti a cedere la propria lingua al nemico, ce ne sono in abbondanza.
Oggi si ripete la catastrofe culturale vecchia di cent’anni. La fine della cultura cent’anni fa, però, era solo parziale. All’epoca, una grande quantità di intellettuali non scelse l’emigrazione, e in molti, in modo ingenuo, appoggiarono le tenebre in arrivo, credendo nelle belle parole sul futuro socialista radioso. E alla fine le tenebre li hanno divorati. Con le classificazioni la situazione fu quasi subito chiara: la cultura si divise tra «cultura russa», che trovò la strada della libertà, e «cultura sovietica», che rimase dietro il filo spinato.
Nel «paese che leggeva più di tutti» i detentori della cultura furono annientati strato dopo strato.  Avrebbero raschiato fino al fondo, ma dopo la morte del «principale amico delle arti» [la definizione virgolettata si riferisce sarcasticamente a Stalin, ndt] hanno aperto un po’ il finestrino e attraverso la grata ha cominciato a fluire aria fresca. Il venticello ha portato con sé parole-semi di concetti forestieri: libertà, pensiero critico, dignità umana. Negli anni ’60 e ’70, sui miseri avanzi del campo letterario sono spuntati nuovi germogli. Siamo cresciuti guardando al Tamizdat. L’esistenza di una cultura libera dell’emigrazione era il nostro punto di riferimento, ci dava l’idea della normalità. Il centro della nostra civilizzazione era là dove si pubblicavano i libri, che ci restituivano la dignità umana, e da dove giungevano fino a noi le voci delle persone libere, che non portavano il collare.
E quando alla fine degli anni ’80, di colpo, anche noi siamo stati liberati da quel collare, ci è ingenuamente sembrato che le cose sarebbero andate in modo diverso, che sarebbe stato così per sempre, che il nostro paese avrebbe cercato di essere degno della sua cultura (che con tanto zelo era riuscito a umiliare); che avrebbe mostrato il suo pentimento. Gli autori che tornarono nel paese della Perestrojka furono accolti da vincenti; sale enormi, piene zeppe, standing ovations in segno di pentimento, di riconoscimento e di gratitudine per quella vera cultura che si era conservata durante l’emigrazione. Le case editrici tornarono a Mosca e a Pietroburgo dall’America e dalla Germania. Una vita letteraria libera è ripresa là dove si era interrotta per alcune generazioni: ricordiamo i festival letterari, le fiere, i premi degli anni ’90 e inizio anni Duemila.
Ed ecco che oggi tutto è tornato al punto di partenza. Dopo una leggera debolezza, la «patria-madre» si è ripresa e ha ricominciato a staccare a morsi le teste dei suoi ragazzi e delle sue ragazze. E sta ripulendo con il raschietto gli avanzi dello strato culturale. Questa volta raschierà via tutto. La differenza tra chi rimase allora, appoggiando il regime, e chi è rimasto in Russia oggi, ugualmente appoggiando il regime, balza agli occhi. Basta citare due nomi: Majakovskij allora e Šaman [cantante, sostenitore della guerra in Ucraina, ndt] oggi. Quelli che non vogliono indossare il collare, vengono spremuti, perseguitati, dichiarati agenti stranieri, estremisti. Non fa una piega: le persone che capiscono che cos’è la cultura, ecco chi sono i loro peggiori nemici.
Noi ci siamo ritrovati in una situazione che non esisteva cent’anni fa: gli avanzi del ceto culturale si sono di fatto interamente riversati nell’emigrazione. Dai tempi della Perestrojka, quante persone che possiedono il pensiero critico hanno abbandonato il paese? 20, 30 milioni? Di più? Davanti a noi sta avvenendo nel senso letterale del termine un cambiamento globale: il territorio e la cultura si dividono ancora e, a quanto pare, durerà a lungo.
Una cultura senza l’impero è sinonimo non solo della possibilità di respirare, ma è anche l’equivalente di una responsabilità che non si può scaricare su nessuno. La cultura può esistere solo se farai qualcosa per il suo sviluppo. È Belinskij che è uscito dal Cappotto di Gogol’. La società che ci ha partoriti, invece, è uscita dalla giubba imbottita del gulag e dal pastrano della guardia carceraria. L’iniziativa è privilegio degli uomini liberi. L’iniziativa dal basso, il sentimento di solidarietà è ciò che il potere russo ha ridotto in cenere e questo riguarda intere generazioni. Come «i russi non abbandonano i loro» lo vediamo ogni giorno sui canali Telegram nelle storie mostruose della totale deumanizzazione di milioni, cresciuti nella società con la mentalità del gulag: «Mors tua, vita mea». L’iniziativa, la capacità e l’esigenza di fare qualcosa di buono per gli altri, creare uno spazio per la libera espressione artistica è ciò che ci distingue dai «costruttori del comunismo» e dai loro epigoni, che dicono «La Crimea è nostra».

GM: A questo proposito, riguardo alla «creazione di uno spazio per la libera espressione artistica», ci racconti qualcosa sul Premio «Dar» da te ideato? Mi sembra significativo che il nome scelto richiami il titolo dell’ultimo romanzo in russo di Vladimir Nabokov, scritto a Berlino nel 1938, e al contempo questo premio mi colpisce molto perché valorizza insieme l’opera originale e la sua traduzione.

Sotto i nostri occhi oggi vediamo compiersi importanti iniziative a opera di persone per le quali la cultura russa è importante come parte della cultura mondiale, per questo è sorta l’esigenza di nuove case editrici non schiacciate dallo stivale di Putin. Ne sono comparse diverse in questi tre anni e pubblicano libri bellissimi in russo. Di case editrici del genere c’è bisogno in ogni grande città, che pubblichino libri con prefazioni di scrittori e organizzino eventi correlati. Servono fiere del libro, e a questo proposito ricordo che già ne sono state organizzate a Praga («La torre del libro») e a Berlino («Berlin Bebelplatz»), ma sono sicuro che iniziative come queste si moltiplicheranno presto in altri paesi. Servono progetti legati all’istruzione sull’esempio di «Marabu» per la matematica, che apre le sue porte a bambini e adolescenti in Francia, Serbia, America, Israele, Finlandia. Servono festival culturali in russo, come «Voices» a Berlino, «Kulturus» a Praga. Servono dei forum, come «SlovoNovo», che riuniscano sia gli esordienti sia i veterani di diverse sfere – letteraria, cinematografica, teatrale, artistica. Personalmente, sono molto felice del fatto che, grazie a degli entusiasti, si stia realizzando l’idea di una vita letteraria al di fuori del territorio di un impero che resiste sulle sue ceneri. Per fare questo bisogna praticamente partire da zero.
E così l’anno scorso con alcuni miei amici, slavisti svizzeri, ho fondato il premio «Dar» («Il dono»). Non è un premio russo, né un premio della letteratura russa. È un premio che vuole scoprire nuovi approcci alla letteratura e alla vita letteraria fuori dai confini di uno Stato arcaico; è un premio per tutti coloro che scrivono opere in russo indipendentemente dal loro passaporto e dal paese in cui vivono – Bielorussia, Lituania, Polonia, Georgia, Armenia, Israele, Germania ecc. Vi possono partecipare anche gli scrittori ucraini, che scrivono in russo, e gli editori ucraini – e questo per noi è molto importante.  Il russo, infatti, appartiene alla cultura mondiale e non alla feccia sul trono, non alla «madrepatria» che ha la bocca piena di cadaveri. L’obiettivo del premio è offrire la possibilità alla letteratura in lingua russa di un nuovo inizio, supportando in particolare gli scrittori più giovani per i quali l’accesso alla traduzione è praticamente precluso. Negli ultimi vent’anni è stata tradotta in diverse lingue una grande quantità di opere russe, e questo si spiega così: era Mosca a finanziare i progetti di traduzione. Oggi, in Russia nessuno dà soldi a un autore che prende posizione contro la guerra. La nuova letteratura in lingua russa – e non parlo solo degli scrittori emigrati dalla Russia, ma anche di scrittori che più in generale scrivono in russo in altri paesi – si è ritrovata di fronte al muro della traduzione. Bisogna abbatterlo questo muro. Il premio principale per il vincitore di «Dar», quindi, è un riconoscimento in denaro per la traduzione della sua opera in inglese, tedesco e francese. Per ora queste sono le lingue che abbiamo scelto per la traduzione. Le opere in concorso, tutte in prosa, vengono dapprima selezionate da un consiglio di esperti con a capo il critico Nikolaj Aleksandrov, poi iniziano i lavori della giuria che è composta da una trentina di esperti (critici, filologi, slavisti, traduttori, ecc.: qui); il voto è espresso in forma scritta, ma tutto viene poi pubblicato sul nostro sito in modo che, chi vuole, possa essere al corrente delle scelte di ciascun giurato.
Il nome, «Dar», mi piace molto perché è una parola corta, in cui coesistono significati importanti. E chi vuole potrà riconoscervi il titolo dell’ultimo romanzo scritto in russo da Vladimir Nabokov, che, per quanto mi riguarda, è il suo migliore romanzo.
La posizione sociale del premio è questa: tutti coloro che fanno parte dell’organizzazione (tra i suoi fondatori ci sono scrittori, poeti, musicisti, critici, registi e culturologi come Ljudmila Ulickaja, Boris Akunin, Michail Ėpštejn, Ivan Vyrypaev, Anton Dolin ecc.), e gli autori che ci inviano le loro opere sono contrari alla guerra, contro la dittatura e appoggiano l’Ucraina nella lotta per la libertà e l’indipendenza.

GM: Ci racconti come si è conclusa la prima edizione?

Alla prima edizione si sono candidati più di 150 libri pubblicati tra il 2022 e il 2023; il consiglio degli esperti ha selezionato 12 finalisti. La short-list è stata annunciata alla fine di gennaio 2025 e la giuria ha indicato il vincitore in maggio. La maggioranza dei voti è andata al bellissimo libro di Maria Galina, il diario Okolo vojny (Vicino alla guerra); la scrittrice si è trasferita da Mosca a Odessa immediatamente dopo l’inizio della guerra.
Sin dall’inizio è stato chiaro che il tema dell’Ucraina nella prima edizione del premio, durante la guerra, sarebbe stato centrale. Così come è stato subito chiaro che un premio in lingua russa al quarto anno di guerra avrebbe incontrato riscontri non univoci in Ucraina: lì gli scrittori di lingua russa subiscono le pressioni degli ultranazionalisti. Sin dall’inizio mi aspettavo che non sarebbe stato semplice, per questo sono rimasto colpito e mi sono rallegrato quando ho visto che editori e scrittori provenienti dall’Ucraina iniziavano a proporre le loro opere. Poi, però, tutto è andato a finire come temevo. I miracoli non succedono.
Marija Galina ha accettato che il suo libro venisse promosso, è apparsa alla televisione tedesca con un’intervista durante la quale ha sottolineato l’importanza del premio, ma, una volta saputa la decisione della giuria, ha deciso di non accettare il riconoscimento. È probabile che sulla sua scelta abbiano influito le pressioni all’interno dell’Ucraina sugli scrittori in lingua russa e il timore di un accanimento nei suoi confronti, come è accaduto con lo scrittore Jurij Andruchovič: dopo che siamo intervenuti insieme, i suoi colleghi hanno scritto in un post su Facebook: «Ogni russo, non importa se stia con Putin o contro Putin, è una merda. L’hai sfiorata e ora puzzi». Per cui, occorre avere comprensione per la rinuncia al premio da parte di Galina all’ultimo minuto. Lei poi mi ha scritto: «Caro Michail! Un grande grazie a lei per la comprensione e la pazienza! E per il sostegno che, dal primo momento, ha riservato all’Ucraina. In una situazione del genere, una posizione così ha richiesto non poco coraggio e fermezza. Questo resterà per sempre. Marija Galina».
Che cosa si può dire, tirando le somme, di questa prima edizione? Innanzitutto, che, nonostante tutte le difficoltà, il premio è nato. E questo è già un successo. Abbiamo attirato l’attenzione di molti lettori russofoni, e molti traduttori ed editori occidentali si sono interessati ai nostri autori e ai loro testi. Questo è un altro successo. Dopo il rifiuto di Galina, abbiamo ricevuto molti messaggi di solidarietà da parte del PEN International, che è tra i nostri sostenitori dall’inizio, da parte di editori e scrittori, anche ucraini. E noi andiamo avanti: il primo settembre è cominciata ufficialmente la seconda edizione. Staremo a vedere quali libri arriveranno. Ci saranno voci dall’Ucraina e dalla Federazione russa? Non sta a noi decidere, ma a chi scrive e pubblica là. Se arriveranno libri dalla Russia di Putin, sarà una responsabilità personale degli autori verso i loro libri. In Russia, ogni giorno aspirano via l’aria, prima o poi non ne resterà per respirare. È per questo che bisogna creare qui gli strumenti per garantire alla letteratura di continuare a vivere in un mondo libero; il premio «Dar» è uno di questi, ma ne occorrono molti di più.

GM: Oltre all’ideazione del premio, come continua la tua attività di scrittore dopo il 24 febbraio 2022?

La creatività artistica per molti scrittori dell’emigrazione diventa un atto per ritrovare un senso dopo la distruzione dei sistemi storici e culturali.
Persone diverse reagiscono in modo diverso a un forte stress. Se nel febbraio del 2022 fossi rimasto seduto ad ascoltare le notizie terrificanti alla televisione e alla radio, e non avessi fatto niente, non so come sarei sopravvissuto. Il mio cuore sarebbe semplicemente andato in pezzi, nel vero senso della parola. Per resistere mi sono buttato a fare quello che potevo fare, e io posso solo scrivere e intervenire pubblicamente. Ho iniziato a pubblicare articoli su testate internazionali, sono intervenuto alla radio, in televisione, nei meeting. Ho invitato le persone a essere solidali con l’Ucraina, a supportarla nella lotta contro l’aggressore.
Il modo di rapportarsi alla cultura russa nel mondo è profondamente cambiato. E quindi per i russi si è posto il compito di mostrare a tutti che a essere responsabile della tragedia a Bucha e a Irpin’ non è la letteratura russa. Di mettermi a scrivere un romanzo non mi è nemmeno passato per la mente. Come si può pensare alla bellezza della frase quando è stata dichiarata una guerra alle persone, e questa guerra ha invaso anche la bellezza, la cultura stessa? Tutti noi ora ci troviamo in uno stato di guerra contro la barbarie che avanza da ogni dove. Ora siamo tutti in guerra, anche chi è lontano dal fronte. Per anni, nelle mie pubblicazioni e durante i miei interventi pubblici, ho cercato di spiegare che il ponte verso Putin è un ponte verso la guerra. Non può essere altrimenti perché la dittatura vive di guerra, è il suo pane quotidiano, ma qui in occidente hanno chiuso gli occhi davanti all’evidenza. Volevo spiegare ai miei lettori di tutto il mondo la Russia e la sua guerra, per cui, ancora prima dell’aggressione, ho scritto in tedesco Frieden oder Krieg. Russland und der Westen [Pace o guerra. La Russia e l’Occidente]. In Italia è uscito con «21 lettere» con il titolo Russki mir: guerra o pace. Qui cerco di spiegare la Russia attraverso la sua storia e la storia della mia famiglia. Gli ultimi due capitoli sono dedicati al futuro, ho raccontato cosa sarebbe successo. In quel futuro, ora, ci siamo pienamente dentro, tutto sta andando come avevo previsto. Dopo l’aggressione russa all’Ucraina questo libro è stato tradotto in 20 lingue. Nel frattempo, non ho cambiato nemmeno una virgola, ho solo aggiunto una prefazione e una postfazione e ogni giorno che passa questo libro diventa sempre più attuale. Mi arrivano da varie parti del mondo reazioni di questo tipo: «Lei ci ha aperto gli occhi! Perché i nostri politici sono stati così ciechi?». Un lettore mi ha scritto: «Il suo libro ha aiutato il mio amore per la cultura russa, per la lingua russa, a non annegare nel sangue degli ucraini».
Io credo che sia giunto il momento di rivalutare tutti i valori della cultura russa. Occorre fermarsi e di nuovo analizzare daccapo tutto ciò che è stato scritto in russo prima di noi. Un risultato di questo esercizio è il mio libro Moi. Ėsse o russkoj literature [I miei. Saggi sulla letteratura russa]. È uscito nel 2024 per la casa editrice indipendente dell’emigrazione BAbook fondata da Boris Akunin. È come se non l’avessi scritto io questo libro, è venuto fuori da sé. Capita spesso che si viva una vita intera mancando la conversazione più importante – quella con i propri genitori. Capita spesso perché a colazione andiamo tutti di fretta, lo stesso vale per quando si cena – è appena cominciata la partita di calcio, e allora è difficile dire: stop, adesso ci fermiamo e facciamo la conversazione più importante della nostra vita. Questa conversazione con i miei, con mio padre e con mia madre, sono riuscito a farla solo dopo la loro morte, nei miei libri. E in I miei. Saggi sulla letteratura russa ho condotto una conversazione analoga con gli autori che hanno fatto la letteratura russa, cioè quei “genitori” che mi hanno formato per molti anni. Avevo bisogno di capire come fosse venuto fuori dal mio mondo quel male fetido e se per caso non fosse venuto proprio fuori da quei libri con i quali ero cresciuto. Oppure i miei autori avevano tirato su una difesa a tutto tondo in grado di tutelare la cultura dalle barbarie fino allo stremo? Loro hanno perso allora, noi abbiamo perso oggi. Questo libro è una mia conversazione con i miei scrittori sul perché e sul percome perdiamo, e sul perché, nonostante tutto, continueremo a tenere la guardia alta fino allo stremo.
Un’altra cosa molto importante per me, in questo momento, è intervenire insieme ai colleghi e amici ucraini. Sto preparando un programma musicale e letterario con il fondatore del festival «Odessa classics» e questa estate siamo intervenuti insieme in Germania durante il festival «Оdessa Classics in Elmau»; insieme a noi c’erano grandi nomi come il pianista Grigorij Sokolov e il violoncellista Miša Majskij.
Non siamo ingenui e bisogna essere realisti: sappiamo bene che la letteratura e la musica non possono fermare la guerra. Ma per noi è importante questo gesto simbolico, che parla di speranza. La cultura è l’antidoto alla paura, alla propaganda e all’oblio. Le nostre esibizioni congiunte, un pianista ucraino con un autore russo, sono un atto morale consapevole che richiede coraggio, poiché sotto l’attacco dei nazionalisti in Ucraina sono finiti anche Čajkovskij, Rachmaninov e Šnittke. I Putin vanno e vengono, ma la musica immortale rimane, e tutte le bombe del mondo sono impotenti al suo cospetto.
Ed è anche importante capire che la vera arte non parla di «politica attuale». Dell’oggi bisogna scrivere sui giornali e nei post su Facebook. L’arte, la letteratura, la musica non combattono contro il male di oggi, ma contro quello eterno. Il mio compito, come scrittore, è scrivere opere che aiutino il lettore a sentirsi parte della coscienza culturale mondiale, a risvegliare in lui la dignità umana. E allora l’uomo deciderà da solo per sé stesso – se è pronto a essere schiavo sotto una dittatura o a lottare per una riorganizzazione democratica della società. E purtroppo, non c’è alcuna certezza che davanti al lettore del futuro lontano non si porranno le stesse domande che si pongono oggi davanti a noi. E la principale tra queste sarà sempre la stessa: a cosa sei disposto a rinunciare per preservare la tua dignità?

GM: Nabokov, nel 1937, in una lettera alla moglie Vera, dopo un ritorno a Cambridge a distanza di anni, scrive: «Questa visita è una buona lezione – la lezione sul ritorno – e un preavviso: non bisognerà aspettarsi vita, calore, il risveglio impetuoso del passato, neppure da un altro nostro ritorno – in Russia. Come un giocattolo si vende con la sua chiave, così tutto è già avvolto nella memoria – mentre al suo esterno non si muove niente». Sono parole che non escludono la speranza di un ritorno, ma che al contempo parlano chiaramente dell’impossibilità di riprovare eventualmente le stesse emozioni, la stessa vita di un tempo (i Nabokov avevano lasciato Pietrogrado nel 1917 alla volta di Kiev e nel 1919 emigrano in Europa). Brodskij, costretto a emigrare nel 1972, definiva l’emigrazione un «tornare a casa», una casa cioè straniera e nuova, ma che gli aveva concesso la libertà, non solo creativa. Che cosa distingue gli scrittori che oggi vivono a Berlino, a Parigi, in Georgia ecc. dai russi delle precedenti ondate dell’emigrazione?

L’emigrazione diventa di nuovo un punto di riferimento, un punto di appoggio per chi è rimasto dietro la recinzione, per chi è di nuovo con il collare e però vive ancora con l’esigenza di respirare una parola libera, per le generazioni future. Quello che noi facciamo qui ora potrà dare loro un’idea e una nozione della norma, del vero, come è accaduto nella zona del «socialismo vittorioso». È importante che tutti capiscano, finché non è troppo tardi, che l’emigrazione è resistenza.
Un secolo fa una scrittrice e drammaturga russa emigrata nel 1920 a Parigi, Nadežda Teffi, nel titolo di un suo celebre racconto pose con leggerezza una domanda seria: Que faire? La risposta è ancora attuale: non occorre sperare nel ritorno, bisogna vivere qui e ora. Più semplicemente ancora, bisogna vivere con dignità. È tutto semplice: ciascuno deve fare ciò che può fare, e se non c’è verso di salvare il proprio paese, bisogna continuare la vita di una cultura libera dalla «maledizione del territorio», e il corpo di questa cultura è la nostra lingua.
Rispetto all’emigrazione del passato due cose in particolare ci differenziano: da un lato, appunto, la consapevolezza che non ci sarà un ritorno; dall’altro, la possibilità di continuare a vivere in uno spazio particolare che coloro che sono emigrati un secolo fa non possedevano. Loro non avevano lo spazio virtuale che abbiamo noi e che ci permette di sentirci parte di una cultura mondiale, né avevano i nostri dispositivi elettronici. E così noi, che crediamo importante proteggere la dignità della nostra lingua, creiamo online quello spazio di protezione che forse offline non è nemmeno possibile.
Comprendo molto bene quegli scrittori tedeschi che sentivano l’impotenza di fermare il proprio popolo, che con entusiasmo seguiva il Führer verso l’abisso. Stefan Zweig per disperazione si suicidò. E Thomas Mann tenacemente continuava i suoi appelli radiofonici. Sembrava che le sue parole volassero nell’aria, nel vuoto, non influenzavano in alcun modo l’andamento delle operazioni militari. Ma erano molto importanti, perché la gente sapesse: esiste anche un’altra Germania, non hitleriana. La Federazione Russa oggi è uno stato fascista totalitario. I libri dei cosiddetti «agenti stranieri» non li bruciano ancora, ma li ritirano dalla vendita e dalle biblioteche. Cosa dobbiamo fare? Io per me ho risposto così a questa domanda: se non puoi salvare il tuo paese, bisogna salvare la sua cultura.

GM: A proposito dei libri degli «agenti stranieri» (non importa se scritti, curati, prefati e perfino tradotti da uno di loro), fino a fine agosto potevano essere venduti, purché rigorosamente incellofanati per impedire alle persone di sfogliarli, e previo controllo della maggiore età dell’acquirente; dal primo settembre, invece, la normativa russa riguardo agli «agenti stranieri» rende poco chiaro il destino della vendita dei libri in cui compiano questi autori, che oramai sono tantissimi. Di fronte a queste ulteriori restrizioni, quale destino possiamo ipotizzare per la vita letteraria in Russia?  

Niente di nuovo sotto il sole – abbiamo già visto tutto questo. Lo stato sosterrà la letteratura «patriottica» fedele al potere, mentre i veri scrittori scriveranno i loro testi «nel cassetto» e li pubblicheranno con le case editrici libere in Occidente.
I boss al potere sono convinti di detenere il monopolio su tutto – sul territorio, sulla popolazione, sulla cultura e sulla lingua: chi parla russo è loro servo della gleba, dove si parla russo è la loro terra. Se invece di baciare patriotticamente lo stivale della patria, li mandi al diavolo in russo, ti dichiarano «agente straniero». Per loro essere russo ed essere loro schiavo sono sinonimi. Io sono russo, ma non ho intenzione di essere loro schiavo.
Il potere ha bisogno solo di chi, sottomesso, mette la testa sul ceppo con un sospiro: «lo zar sa meglio». C’è solo una medicina per la coscienza servile – il pensiero critico, che arriva solo con l’educazione, l’istruzione: proprio per questo la cultura e i suoi portatori «contagiosi» devono essere distrutti per primi. Asili e scuole là oramai esistono solo per educare al «dono dell’obbedienza» (il concetto, introdotto da Nikolaj Danilevskij, è un eufemismo per l’ardente servitù patriottica), l’obiettivo della “letteratura” di cui il regime ha bisogno è educare al «patriottismo» servile. Ci odiano, noi uomini e donne di cultura, perché miniamo il loro monopolio sul potere.
Il principale nemico della cultura russa è lo stato russo. E Charms, e Mandel’štam, e tutti coloro che tentavano di fare letteratura libera, erano oppositori del regime già per il fatto che volevano togliergli il monopolio sulla lingua russa. Gli «ideologi» putiniani usano la lingua russa come arma nella «guerra ibrida» totale. Lo scrittore, canale per la lingua, deve, secondo i loro concetti, irrigare con le parole i campi patriottici, spiegare chiaramente ai lettori che intorno ci sono nemici assetati di sangue; quindi, «non dobbiamo risparmiare i nostri averi, non dobbiamo risparmiare niente, non dobbiamo esitare a vendere  le case, a impegnare mogli e figli, a prostrarci dinnanzi a chi si batte per la vera fede ortodossa ed è nostro capo» – come avvenne con il famoso appello di Minin nel secolo XVII per raccogliere la milizia e liberare Mosca dai polacchi.
Tutti i regimi hanno oppresso i veri scrittori: al tempo sovietico avevano bisogno di lacchè «scrittori sovietici», e ora di lacchè «scrittori-patrioti». Questo è uno stato criminale, che tollera gli intellettuali solo come subordinati. Vuoi emanare «patriottismo» – ecco il teatro, emana. Non vuoi – sei un «agente straniero». Altrimenti stai zitto-zitto.
Il regime ha sempre usato il patriottismo come una trappola per la popolazione, e la cultura come esca. Il pensiero critico, il rispetto per la personalità si educano attraverso generazioni – e questo a condizione di accettare che è davvero necessario un enorme lavoro minuzioso, vòlto a educare le qualità del cittadino libero in ogni scuola, in ogni asilo, in ogni famiglia. Tuttavia, il compito del ministero dell’educazione in tutti i tempi russi è stato completamente diverso – tirare su «soldati della patria». E in generale, il principale educatore là è sempre stata la strada con la sua mentalità carceraria e le sue leggi. E l’éducation sentimentale la completava il servizio obbligatorio nell’esercito. Chi c’è stato, sa cosa intendo.
Penso spesso a mio padre. Aveva 18 anni quando andò a combattere contro i tedeschi. Credeva di difendere la patria, in realtà lui e milioni come lui furono usati – difendeva il regime che aveva ucciso suo padre, mio nonno morì nel gulag. Mio padre per tutta la vita è stato orgoglioso di aver liberato l’Europa dal fascismo. E non poteva in alcun modo accettare che avesse portato ai popoli liberati semplicemente un altro fascismo. «Come, noi fascisti?! Noi siamo russi! Loro sono fascisti!» Lui, e tutto il paese si identificavano in questa vittoria. E cosa gli ha portato la «grande vittoria sul fascismo»? Sono diventati solo ancora più schiavi del regime. La gente si identificava con la grandezza dell’impero, così la servitù di corte provava orgoglio per la ricchezza e il potere del padrone.

GM: Uno dei tuoi saggi di cui ci hai parlato in precedenza è dedicato a Čechov. Riportando il suo pensiero, scrivi che la sua è la «diagnosi del medico»: la Russia è malata di schiavitù nella sua forma più acuta, cioè di schiavitù inconsapevole; e ricordi che per Čechov la cosa più terribile nelle persone era la loro incapacità di distinguere il bene dal male. Nella giovane protagonista di «Voglia di dormire» che, dopo una giornata di duro lavoro, soffoca il piccolo cui dovrebbe badare, vedi l’antesignano di una Russia che durante la costruzione del glorioso, felice avvenire, avrebbe soffocato nei gulag altri milioni di suoi figli. E ancora ti chiedi se il villaggio di Ukleevo, dove è ambientato «Nella bassura», sia veramente solo il simbolo della Russia di Čechov; ti chiedi come poter vivere nella bassura russa, conservando la dignità personale e distinguendo il bene dal male. Un patriota della dignità umana, così definisci Čechov. È davvero possibile che la letteratura perda sempre?   

Il problema è che la maggioranza della popolazione russa vive ancora con una coscienza tribale patriarcale: «Noi siamo russi, e intorno ci sono nemici che vogliono distruggerci, quindi dobbiamo difendere la nostra madrepatria, la nostra lingua, il nostro Puškin, dobbiamo sacrificare tutto per la conservazione della nostra amata Patria». Bisogna capire che l’umanità nel suo cammino dal mondo animale ha fatto solo mezzo passo. Non contano i computer e le navicelle spaziali: entrambi si possono usare anche per la distruzione barbarica. Tutto sta nel passaggio dalla coscienza tribale primitiva a quella individuale, nello sviluppo della personalità, che si fa carico della responsabilità per ogni cosa, e non la scarica sul potere. Non sono il popolo o il presidente regnante a dirti cosa è bene e cosa è male, ma solo tu stesso decidi cosa lo è e cosa no. Se vedo che il mio paese e il suo «popolo portatore di Dio» commettono il male, sarò contro il mio paese e contro il mio popolo.
La maggioranza dei miei ex compatrioti si strangola con questa coscienza patriarcale, е metterà la testa sul ceppo: «la madrepatria chiama». L’unico strumento per trasformare la coscienza tribale in individuale è l’istruzione. Perciò lo stato in Russia è sempre stato il principale nemico della cultura, e nelle scuole la materia principale è sempre stata pensare in fila e parlare al passo.
Questa guerra infame la popolazione russa la sostiene non perché si è nutrita di Čechov e ha sentito Rachmaninov, ma perché la vera cultura, che è il mezzo per risvegliare il senso della propria dignità, è sempre stata oppressa, mentre alla popolazione versavano nella tinozza la brodaglia patriottica. Nessun insegnante in tutto l’enorme paese appenderà nel suo ufficio, sotto il ritratto di Tolstoj, le sue parole: «Il patriottismo è schiavitù». Riportare la gente allo stato di tribù che confida nel Führer è più semplice che educare la personalità libera. L’abbiamo visto nella Germania nazista, lo vediamo ora nel paese che in eredità da tutta la cultura mondiale ha scelto per sé solo la lettera Z [allusione alla Z sui carrarmati russi, diventata un simbolo ufficiale dell’invasione russa all’Ucraina, ndt].
Nell’infinita lotta tra cultura e barbarie sul territorio del «paese che legge più di tutti», noi, «ceto culturale», perdiamo sempre – la forza spezza la paglia. Ecco, abbiamo perso di nuovo. Ora il nostro compito è conservare la cultura in lingua russa nell’emigrazione. E il «nevoso mostro» – secondo Majakovskij – continuerà oltre, a riprodurre sé stessо, dall’interno non può rigenerarsi (è impossibile immaginare che il regime hitleriano mutasse dall’interno trasformandosi in senso democratico), e senza sconfitta militare esterna, ahimè, non ci sarà niente.
Il regime putiniano si può distruggere solo con la sconfitta militare, come la Germania nazista, ma la presenza di armi nucleari rende questo impossibile. La malattia russa è la futurofobia, paura del futuro. La saggezza popolare russa «non si può augurare la morte a un cattivo zar» è attuale come non mai. La vera democrazia presuppone una rotazione costante del potere. L’arrivo di nuove persone al potere, elette dai cittadini, garantisce il cambiamento del futuro. La nuova élite criminale russa, arrivata al potere negli anni ’90, non ha intenzione di cedere questo potere a nessuno. Il suo compito consiste nel prolungare lo status quo per il più lungo tempo possibile. In una parola, annullare il futuro.
Per la cultura, per la libera creatività quel territorio è ostile. Di generazione in generazione, da regime a regime tutto ciò che è vivo là è stato soppresso, distrutto o spinto nell’emigrazione. Io odio tutto ciò che è ostile alla cultura, alla libertà creativa. I miei libri sono una dichiarazione d’amore a quella forza della libera creatività che si fa strada verso la vita, senza sé e senza ma.
Non dubito che su questa guerra si scriveranno molti libri. I libri che scriveranno gli scrittori ucraini saranno sull’eroismo, sulla lotta contro il male evidente. Gli scrittori in Russia dovranno rispondere a questa domanda: perché la popolazione russa nella sua maggioranza ha sostenuto questa guerra infame? Finché non ci sarà pentimento per quello che è stato fatto sia da questo regime sia da quello sovietico, il paese non uscirà dalla palude sanguinosa.

 

1 commento

  1. Alla fine degli anni ’70 un altro grande scrittore costretto all’esilio dal soffocante giogo sovietico così scriveva: «Vogliono fare del male a chi si trova oltre i confini del loro mondo, soltanto per esaltare il proprio mondo e le sue leggi» (Milan Kundera, “Il libro del riso e dell’oblio”, tr. Alessandra Mura). Parole davvero potenti quelle di Šiškin: grazie per questa bellissima intervista!

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Ornella Tajani insegna all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di critica della traduzione e di letteratura francese contemporanea. È autrice dei libri Scrivere la distanza. Forme autobiografiche nell'opera di Annie Ernaux (Marsilio 2025), Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS 2021) e Tradurre il pastiche (Mucchi 2018). Ha tradotto, fra i vari, le Opere integrali di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato opere di Rimbaud, Jean Cocteau, Marcel Jouhandeau. Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
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