Argento

 

Foto o.t.

 

di Angela Maria Galluzzi

Erano arrivati a casa solo da un’ora, ma Lucia era già brilla.
Durante la messa commemorativa la voce del prete era bassa e luttuosa. Per qualche minuto aveva considerato la possibilità di pregare ma l’idea di Dio le era estranea, così aveva trascorso il tempo studiando il programma della funzione. Si trovava in quella chiesa perché l’avevano portata i suoi fratelli.
Lucia si lisciò il vestito sul seno scarno e i fianchi spigolosi, lottando contro l’impellente bisogno di piangere. Tutte le volte che camminava in quella cucina si sentiva triste. Per nessun motivo in particolare, solo perché una volta era vissuta in quella casa. Di lei in famiglia si diceva che era stata una bambina timida e poi una ragazza malinconica.
Attraverso la porta socchiusa le voci dei fratelli le arrivavano come il sottofondo di un film:
“vendere, prima che il mercato crolli”
“e perché poi dovrei vendere?”
“questa casa sta andando in malora”
“non sono io ad avere bisogno di soldi”.
Bevendo quello che restava del Sangiovese, Lucia guardava dalla finestra aperta il tiglio che aveva piantato suo padre.
Appoggiò il bicchiere vuoto nel lavello.
Erano le sette e mezza di un martedì di settembre. C’era ancora luce e si era alzato un vento umido di pioggia. Le carrozzerie delle auto dei suoi fratelli scintillavano sul vialetto di casa.
L’anno prima i suoi genitori erano andati a fare il bagno e non erano più tornati a riva. Era in seguito venuto fuori che altre persone erano già morte in quel lago. Le correnti erano forti e fredde e potevano trascinare a fondo, soprattutto se ci si avventurava alla fine dell’estate, verso il tramonto, quando la luce radente faceva perdere l’orientamento. Lucia aveva assistito da una sedia a sdraio sulla terrazza della pensione dove alloggiavano, al limitare del lungolago. Li stava guardando quando sua madre aveva sollevato in alto le braccia. Era andata sotto poi era ritornata su, aveva colpito l’acqua con i palmi delle mani, era scomparsa. Suo padre aveva allungato un braccio verso di lei, poi fuori dall’acqua come per aggrapparsi al cielo. Aveva aperto la mano che stringeva l’aria ed era scivolato giù. Eppure la madre era stata una nuotatrice, il padre un atleta.
Erano passati due giorni e due notti prima che venissero riportati a riva. I corpi viscidi di fango e alghe. L’addome gonfio e pesante, la pelle grinzosa, le palpebre semiaperte sugli occhi gelatinosi. La prima sensazione che Lucia aveva provato era stata il sollievo che li avessero trovati, che non sarebbero rimasti in fondo al lago per sempre. Nei mesi successivi all’annegamento anche lei si era sentita l’acqua del lago nei polmoni. E ancora le capitava di svegliarsi in preda all’incubo di essere sott’acqua e non riuscire a emergere.
Dalla stanza accanto continuavano ad arrivare scricchiolii di sedie e rumore di passi, frammenti di discussioni:
“sei sempre così arrogante”
“non ti sbagli mai su nulla, vero?”
“lascia perdere”
“ancora con questa storia? Non cambia mai niente”.
Sciacquò il bicchiere.
Una volta anche lei aveva nuotato nel lago. Il suo corpo caldo di sole si era mosso flessuoso nell’acqua lucente. Ora era paralizzata dal terrore di essere trascinata a fondo. Pensò che forse stava impazzendo. La mattina faceva fatica a tirarsi giù dal letto. Uscire di casa era un problema. Provò il desiderio di sdraiarsi sulla graniglia del pavimento, immaginò di sciogliersi. Vide il suo corpo liquefatto impastato con la polvere e lo sporco fra una mattonella e l’altra.
Aveva iniziato a piovere. Le gocce picchiettavano lievi e irregolari sugli alberi. Era un suono che pareva arrivarle dal tempo in cui era bambina. Ora la desolazione la travolgeva. Era una donna di quarant’anni. I suoi genitori erano morti e nella stanza accanto i fratelli litigavano per soldi.
Rimase bloccata accanto al lavello: inerte, le braccia abbandonate lungo il corpo, lo sguardo rivolto alla strada. Sotto la luce livida del lampione le falene disorientate sbattevano e si bruciavano le ali.

 

La settimana seguente tornò nella casa.
Salire le scale, entrare nella stanza dei genitori, essere sola con i loro abiti, le scarpe, gli oggetti, era stato il pensiero fisso dell’ultimo anno. E ora stava succedendo.
I fratelli e le cognate avevano trovato un punto d’accordo: la casa andava svuotata. Un passo in avanti verso la vendita che comunque non era stata ancora decisa.
Lucia si appoggiò allo stipite della porta. Era in preda a un’inquietudine terribile, ma nello stesso tempo una forza viva la attirava dentro la stanza che era luminosa, con le due finestre ad angolo spalancate. Lo smalto bianco delle cornici era screpolato e qualche frammento giaceva sul pavimento.
Le cognate avevano aperto i cassetti e ora stavano spalancando le ante degli armadi.
“Da dove iniziamo?” chiese una.
“Dall’armadio di mamma” decise l’altra.
Lucia deglutì. In quella camera il senso di vuoto era una pietra. I vestiti appesi sulle grucce delineavano la sagoma dei corpi, definivano l’assenza. Nei cassetti le camicie e le maglie erano ben piegate, i guanti appaiati, le cinture arrotolate.
Fece un passo incerto, si fermò.
Le cognate sfilarono abiti, tailleur e cappotti dalle grucce e li accatastarono sul letto; iniziarono a svuotare i cassetti. Alcuni indumenti caddero sul pavimento.
Erano indecise su cosa tenere, regalare, buttare.
Una cognata la vide. “Ah, Lucia. Eccoti, finalmente.”
Lucia non rispose. Si inginocchiò ai piedi del letto, infilò la testa nella catasta di indumenti, si confuse con la stoffa dei vestiti e la lana dei cappotti. Fece una tana che aveva l’odore di sua madre.
Le cognate si fermarono, sconcertate, bisbigliarono fra loro.
“Che succede, Lucia?”
Per gentilezza – in fondo era la figlia – le chiesero “C’è qualcosa che vuoi tenere?”
Lucia tirò su la testa e proprio in quell’istante i suoi occhi si imbatterono in un luccichio. Era un pezzo di stoffa argentato e aveva un fiore di voile verde appuntato sopra con una minuscola spilla da balia.
Tutt’a un tratto sentì un brivido correrle lungo la schiena. Un ricordo le cadde addosso. Una sera, sua madre, avvolta in quel bagliore, profumata di fiori, si era chinata su di lei che dormiva nel suo lettino e le aveva dato il bacio della buonanotte. Lucia aveva percepito un soffio caldo e aveva schiuso appena gli occhi. Aveva udito un bisbiglio “Dormi, tesoro”, e il picchiettare dei tacchi che si allontanavano, come una sequenza di accordi.
Quanti anni avrà avuto? Cinque? Sei?
Lucia sentì una gioia interiore che mai avrebbe voluto né potuto condividere con qualcuno. Fu questione di un attimo, niente di più. Scacciò i pensieri malinconici.
Le sue mani si aprirono un varco in mezzo alla montagna di vestiti, afferrarono la stoffa, sfilarono un vestito da sera di lamé.
Le cognate la guardarono. Erano due donne pratiche, non perdevano tempo.
“È un vestito particolare.”
“Vuoi portarlo a casa?”
“Cosa dici, lo pieghiamo, lo mettiamo in un sacchetto?”
Lucia si strinse all’argento del vestito, si vide riflessa nello specchio appeso sopra al comò: brillava come un gioiello. Un raggio di sole si moltiplicava e si rifletteva sulle pareti della stanza ricoperte da carta da parati a righe bianche e crema, strappava scintille rossicce dai suoi capelli. Il sangue le arrossava le guance. Il suo aspetto fiammeggiante le parve nuovo e interessante. Gli occhi le sembrarono riprendere vita. Con un lampo di sfida scivolò dentro il vestito che sopra i pantaloni e il dolcevita la fasciò come una seconda pelle.
Davanti alla sua figura bizzarra una cognata si lasciò sfuggire “Vuoi uscire così?”
Lucia aprì la corolla del fiore di stoffa verde che era spiegazzato e giaceva piegato sul seno. Si ammirò estasiata allo specchio, le spalle sostenute. “Se ne ho voglia di uscire così? Oh, sì, tantissima!”
Un altro momento e decise di avviarsi verso la porta. Sgusciò fuori dalla stanza, scivolò lungo il corridoio.
Uscì lanciando bagliori argentei nella luce del tardo mattino. Il sole cadeva obliquo dai tetti. Si fermò al cancello, vicino al vecchio olmo. Abbassò gli occhi. La sua ombra era lì, accanto a lei, disegnata nitida. Un’ombra in pieno sole. Una immagine scura che veniva da lei eppure sembrava vivere di vita propria.
Corse in strada, aspettò che il semaforo fosse verde per potere attraversare.

1 commento

  1. Un bellissimo racconto che incanta per il ritmo soave e penetrante con cui accompagna il lettore ad incontrare la protagonista nello sconvolgimento di un “sogno” che diventa risveglio e cura del suo dolore.

I commenti a questo post sono chiusi

articoli correlati

L’insostenibile incertezza dell’età

di Paola Ivaldi
"Provai uno strano miscuglio di malinconia e di speranza e mi chiesi se un ricordo è qualcosa che hai o qualcosa che hai perduto. Per la prima volta dopo tanto tempo mi sentii placata". Così termina la sequenza conclusiva del film di Woody Allen "Un'altra donna" (Another woman, 1988) magistralmente interpretato da Gena Rowlands.

Mots-clés__Foglie

di Paola Ivaldi
Foglie _ Serge Gainsbourg, Kaurismaki, Nazim Hikmet

Distanza, speranza. In scena a Napoli «La Distance» di Tiago Rodrigues

di Ornella Tajani
Che cos’è la speranza? L’irraggiungibile traguardo di una lotta costante, che quotidianamente si confronta con l’imperfezione del mondo, o l’ideale di una vita drasticamente migliore, seppur svuotata di storia, di arte, di quanto insomma definibile come cultura umana?

Le parole “mondo” dei Greci

di Neil Novello
Noi ritorniamo da dove siamo venuti. L’adagio figura due immagini di un medesimo fenomeno culturale. Anzitutto narra che la «parola», la vivente parola greca, allo scopo di fondarla risale la via della cultura occidentale. E racconta che la stessa parola...

Dove finisce questo teatro inizia forse il mare: su “Il mare nascosto” di Luca Calvetta

di Ornella Tajani
Se è vero che il sud è una regione dell’anima, come diceva Ettore Scola, Il mare nascosto si configura come un viaggio in una Calabria dai tratti sfumati, che per sineddoche diventa uno dei tanti sud del mondo

Mots-clés__Visitatori

di Federico Spagnoli
Interessante. I suoi visitatori. Chiunque essi siano. Cosa mi può dire di loro? A questa domanda non so mai cosa rispondere.
ornella tajani
ornella tajani
Ornella Tajani insegna all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di critica della traduzione e di letteratura francese contemporanea. È autrice dei libri Scrivere la distanza. Forme autobiografiche nell'opera di Annie Ernaux (Marsilio 2025), Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS 2021) e Tradurre il pastiche (Mucchi 2018). Ha tradotto, fra i vari, le Opere integrali di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato opere di Rimbaud, Jean Cocteau, Marcel Jouhandeau. Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: