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Eppure vorresti essere un bruco

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di Vittoria Groh

Squilla il campanello. C’è un filo di ruggine in quel suono che stride: una dimenticanza di Dino, che avrebbe dovuto ripararlo a giugno e a luglio già era tardi. Appoggiata al parapetto, Maude stringe forte la sigaretta fra le labbra e aspira la canicola estiva. Si volta appena verso l’atrio: è in ritardo, pensa con uno sbuffo di fumo, ora aspetta.

Dà un’occhiata rapida al tavolo della cucina e si assicura che la cassa sia ancora al suo posto. È ridicolo, come se possa muoversi da sola. Un vento lento gonfia il suo cardigan rosa. Maude nota una goccia rossa sull’orlo di un bottone. Eppure, ha strofinato con cura. Al diavolo, me ne occuperò più tardi, si dice tossendo.

La città accaldata è immobile e non emana odori. Le cucine sono chiuse, i proprietari altrove, distesi sui lettini che puntellano le spiagge di Ostia. Di nuovo il campanello: una volta, un momento d’esitazione, un’altra ancora; un’insistenza timida. Maude fa cadere la cenere sulla strada deserta. Si volta, lascia alle spalle la finestra e il ponte Milvio che galleggia nell’aria afosa. Poi appoggia gli anni al bastone di noce e con la schiena un poco curva raggiunge la porta.

La serratura scatta. Anna balza indietro.

Ma allora, hai paura di una vecchia?”, la voce della donna trema e anche la mano vacilla, sul pomello di legno della porta socchiusa.

Anna nasconde le mani nelle tasche della giacca, rovista e trova i dialoghi di convenienza; li ha annotati, ma tirare fuori i biglietti alla prima interazione le sembra inappropriato.

Ho paura delle bugie, creano emozioni non lineari”, dice seria. Lentamente alza gli occhi, cerca quelli della donna, prova a interpretarne lo sguardo,

le sue iridi azzurre ti fanno pensare a un cartone animato, ma non ricordi quale,

vedi sorpresa, stupore?,

non lo sai, leggere le persone non è come con i romanzi che,

attenta, non distrarti,

non puoi permettertelo, se vuoi portarlo a casa.

Quanti anni hai?”, le chiede la donna. “Quattordici”, risponde Anna. Una domanda semplice, una risposta semplice. Anna inspira, espira,

puoi riuscirci.

La donna la fa passare. Si dirigono verso la cucina, serpeggiando fra i libri che si ergono come funghi sul tappeto verde. La casa sembra un bosco. Un indizio di sigaretta appena spenta aleggia di fronte alla finestra, e poi un altro odore, più acre,

formalina?,

come i corpi delle rane nel laboratorio della scuola,

translucidi, gonfi,

cadaveri.

Ti fa male?”, la donna indica il polso sinistro di Anna,

te ne accorgi, te ne vergogni, la tua mano destra lo sta sfregando con forza,

pare una gomma su un foglio ricoperto di errori.

Anna risponde di no, che non le fa male, e rapida nasconde quel gesto involontario,

ma non è vero che non fa male, vorresti poterla avere davvero quella gomma, cancellare i ricordi,

però menti, continui a mentire,

anche se delle bugie hai paura.

Lei alza le spalle, come a dire come vuoi, poi sorride: “Io sono Maude”, e le versa dell’acqua in un bicchiere, che un po’ balla sulla tovaglia. A lei balla il viso, quando sorride, e ogni linea sembra sapere esattamente come muoversi, dove andare,

e vorresti avere le stesse certezze, ma non conosci ancora niente,

niente tranne il mare e il basilico che,

non distrarti, hai una missione.

Devi aiutarmi con questa”, e Maude indica una cassa che occupa l’intero tavolo da pranzo.

Una ragazzina, le hanno mandato, una bambina che appena ha scavalcato l’età della pubertà. Ha tagli sul polso, dice di non avere male. Forse è la verità, è tanto giovane per conoscere il dolore. Eppure, Maude vede in lei una anzianità dei gesti, una ripetizione quasi artefatta dei movimenti. Le studia il volto: è pallida, forse è la luce del neon, o forse davvero non si sente bene; è ferma, fissa il centro del tavolo in silenzio; i capelli lunghi, neri, sono legati in due trecce che le ricadono simmetriche sulle spalle rigide: pare pasta di zucchero racchiusa in una formina di Natale. Maude sorride di nuovo.

Ci volevamo bene, io e Dino, sai?”, dice Maude, “ma non è stato sempre semplice: abbiamo dovuto coltivare solitarie stranezze per poterci poi bastare in due”.

Anna non ascolta la vecchia. Si è seduta al tavolo da pranzo, di fronte alla cassa, e ripensa a questa mattina, al fondo del mare. Buttava fuori l’aria, le bolle le solleticavano il naso, stringeva le labbra, apriva gli occhi, pizzicavano, il sale. Tutto intorno, vedeva verde. Aveva pensato al tavolo da biliardo di Claudio, un verde che sembra un prato di montagna. Quasi le dispiace vederci rotolare le palle colorate. E la pianta di basilico davanti alla sua finestra, anche lei verde, ha l’odore della calma, le foglie lisce. Quando in casa tutto si aggroviglia, le brutte parole e le mani e le lacrime, Anna si immagina piccola, come un bruco si attorciglia alle foglie e respira il silenzio,

perché pensi a tutto quel verde,

concentrati, hai uno scopo, lo prendi e vai,

ma quelli sono dei bei verdi, pensa Anna: il tappeto, il tavolo, la pianta. Forse perché ci arriva la luce. Anzi, sicuramente, perché la luce fa cose incredibili, come trasformare gli scarti del mondo in zuccheri. Quando la maestra ha spiegato alla classe la fotosintesi, Anna non ha dormito per due notti: espirava, espirava, espirava e fissava il basilico, aspettava di vederlo crescere. Poi la terza notte si è addormentata e ha sognato la pianta che enorme copriva il cielo, la luna, il soffitto di camera sua, e lei abbracciava le foglie con il suo pigiama a pois. Non era più un bruco, era Anna, solo Anna,

eppure, vorresti essere un bruco,

non sempre, ma ogni tanto ci pensi a come sarebbe,

non avere i polsi, il dolore,

che la natura ti darebbe pochi giorni,

e tu non ne chiederesti di più.

Si era dimenata, aveva tirato calci all’acqua, ma le mani di suo padre, sulle spalle di Anna, erano troppo forti. Lei aveva cercato una via d’uscita, ma il corpo di suo padre era troppo pesante. Aveva guardato in alto,

avresti voluto creare degli anelli, di quelli che nascono stretti e poi salgono e si allargano fino a posarsi sotto la superficie,

i subacquei buttano fuori l’aria e fanno dei cerchi tondi e nitidi,

mamma ha una foto sul frigo, ti piace guardarla,

ma loro sott’acqua respirano,

tu avevi solo un naso che sputava: l’aria la perdevi e basta.

Un giorno suo padre ha perso l’anello, o così ha detto. Anna ha pensato Non ama più la mamma. Ma l’ha pensato a voce alta e la guancia ancora le brucia: suo padre non ama i pensieri a voce alta.

Anna avrebbe voluto creare un anello, solo uno, argenteo, brillante,

lo avresti regalato a mamma,

che poi lo darebbe a papà perché vederne uno solo la fa piangere.

Mentre pensava a mamma, suo padre l’ha lasciata andare. Anna ha nuotato, ritrovato il sole. Lo schiaffo gliel’ha dato un’onda, ancora quella guancia, la stessa,

lui lo sapeva: ancora un minuto sotto e ci saresti riuscita,

ma a fare cosa?, a creare l’anello?,

a risalire?,

davvero volevi risalire?

Erano tanti gradini, per un corpo inerte, ma chi avrei potuto chiamare?”, dice Maude. “A ottantadue anni l’hanno assalito i primi tremori, poi ha iniziato a sussultare. Così, vedi” e Maude si accascia sulla sedia della cucina, chiude gli occhi e finge uno spasmo, due spasmi, pare una caffettiera con il coperchio che all’improvviso sbatacchia. Poi Maude si rialza e riprende: “ha gridato, era seduto sulla panchina del parco e ha urlato “Maude!”. Il mio Dino, lo vedevo dalla finestra, il mio Dino”. Maude prende il bicchiere d’acqua di Anna e svuota quel che resta nel lavandino. “Gli ho detto di salire, ma era troppo tardi, sai. Ha respirato un altro poco nel parco, non ha neppure finito le parole crociate, gli mancava una risposta, quattro lettere, era una parola facile, gliel’avrei suggerita io se solo fosse salito. Ma alla fine sono dovuta scendere io”. Maude sistema la tovaglia, si gira verso Anna, che è sempre immobile; la chiama, ma lei non sembra reagire. Le sfiora un braccio, è freddo. È pallida e fredda. “L’ho messo qui dentro, il mio Dino”, dice Maude accarezzando la cassa. Poi si allontana dal tavolo: “l’annuncio dell’azienda diceva che potete aiutarmi a portarlo via”.

Anna guarda il vaso di fiori della donna: un lungo contenitore trasparente che riflette il verde del tappeto. Ricorda, quando era bambina, i tubetti che si illuminavano al buio. Doveva rompere il vetro all’interno dell’involucro di plastica e così, da grigio e noioso, il bastoncino diventava una provetta fosforescente, magica. I bastoncini più belli erano quelli gialli, ma anche quelli verdi non erano male; con quelli blu, invece, non c’era contrasto con la notte. Il padre li regalava a Marco e Anna quando festeggiavano il compleanno, a metà estate,

ci diceva che i subacquei li usano per ritrovarsi fra di loro al buio, in fondo al mare,

ma a noi non sono serviti, vero?,

papà l’abbiamo perso comunque,

e al sole, in superficie.

Marco era vicino all’amaca, sotto al cielo notturno, al grande carro: muoveva la bacchetta nell’aria e si sentiva uno Jedi. Anna teneva il bastoncino in una mano e osservava il fratello che agitava il suo: una scia di lucciole, un rumore di lenzuola che si spostano.

Maude le passa accanto, le sfiora un braccio: Anna non reagisce, ma scorge il bottone macchiato sul suo cardigan rosa,

ferma, non muoverti, non ancora.

Ad Anna, quando era bambina, piaceva indossare i vestiti di suo padre. Si metteva i guanti, il casco della motocicletta, le scarpe, la camicia che le arrivava quasi ai piedi. In mano teneva il portafogli,

ti dicono presto che il denaro è la linea di confine,

due banconote e sei subito adulta,

i guanti, le scarpe, il casco enormi non contano,

però il denaro sì,

e anche il dolore, non credi?,

forse, ma per quello non esiste una vera frontiera.

Anna chiedeva a suo padre di chiudere i bottoni della camicia, che con i guanti non ci riusciva. Era un momento che le piaceva, suo padre che si abbassava, raggiungeva la sua altezza,

ti sentivi importante,

al sicuro,

e poi i bottoni sono belli, legano due parti separate, le uniscono,

così ti rimangono addosso e non le perdi,

sì, non come il resto,

che si separa, si perde.

Anna indica la cassa: “La aiuto a spostarla?”, chiede alla donna. Non dice altro, il regolamento dell’azienda impone discrezione. Il suo silenzio è uno dei motivi per cui l’hanno assunta così giovane. Ma il motivo principale è il suo autismo: le consente di non empatizzare con i familiari dei defunti, di essere precisa, metodica nell’accertarsi dei consensi.

Maude è alla finestra, si volta e scuote la testa in un gesto quasi impercettibile. Lentamente accosta una sedia al tavolo, sale e ci si inginocchia. Anna non parla, ma la aiuta a scostare il coperchio della cassa. L’odore porta Maude a coprirsi il naso, la bocca, mentre Anna rimane impassibile, pare esserci abituata. D’altronde, lavora per un’azienda che trasporta i morti. Maude l’aveva letto sulle riviste di Dino, quelle che parlano di caccia, con i setter inglesi accanto alle tute mimetiche in copertina: la formalina è il prodotto migliore per l’imbalsamatura. L’odore, però, non lo menzionavano.

Con tenerezza, Maude si piega su Dino. Gli sussurra parole all’orecchio.

Anna si avvicina alla donna. Dalla tasca estrae un coltello, piccolo e fine,

è il momento, vai,

delicata, mi raccomando,

finge di risistemare la giacca dell’uomo, fa passare una mano sotto alla pancia della vecchia.

Rapida, senza esitazioni, taglia,

brava, l’hai preso, ora svelta, nascondilo.

Anna mette via il coltello e nell’altra tasca ripone il bottone.

Il suo cuore sussulta, come il coperchio della caffettiera, come quell’uomo, prima di morire. Chiede alla donna se è pronta, se ne è sicura. Le dice che il suo collega la aspetta al portone, la aiuterà a portare la cassa di sotto. La vecchia le sorride. Anna non ha bisogno di una risposta: le linee sul suo viso, come si muovono, sono la sua certezza e il suo consenso.

Si affaccia alla finestra, l’autista dell’agenzia è seduto sulla panchina del parco, lo chiama. Intanto, nella tasca della giacca, le sue dita tirano il filo del bottone, lo sentono ancora avvolto intorno ai quattro fori, attorcigliato come i bruchi alle foglie,

al sicuro,

legata per non perderti,

come vorresti essere tu,

sì, come vorrei essere io.

Scrivere, e presentare libri, nel mondo in fiamme

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di Demetrio Paolin

(con il permesso dell’autore pubblichiamo il pezzo postato questa mattina sul suo profilo fb)

Nei giorni scorsi avevo messo qui su fb una breve battuta riguardo le presentazioni, che poi ho cancellato, ho cancellato perché mi sono sentito fuori luogo, il mondo sta letteralmente esplodendo e io parlo di quante persone vengono o meno alle mie o altrui presentazioni, insomma ho cancellato, poi domenica mattina mi sono svegliato con il rischio, non so quanto geopoliticamente certo, ma a livello d’immaginario e sensazione concreto, di una guerra: e inizialmente mi son detto vedi? c’hai avuto ragione, il mondo va in frantumi e stiamo qui a discutere se ha senso andare alla Libreria XWR di Poggio Piccolo, alla caffè-libro-osteria di Roseto degli Abruzzi etc etc. Non poteva esserci esempio più preciso della futilità della discussione: eppure, per me questo è stato, come si dice, in weekend di scrittura, di lavoro sulle scritture altrui, di riflessione, anche sincera, dura, senza fronzoli, di ciò che è diventato il mondo editoriale, vendite, come avvengono certe scelte, come e cosa portano, e come e cosa hanno portato, negli anni certe decisioni, la scelta da capitale materiale e capitale immaginario etc etc…; quel sentimento di colpa che mi aveva portato a cancellare il post (che forse avevo scritto frettolosamente e più per amor di battuta che non di approfondimento ed è per questo che ora vi beccate questa lenzuolata di parole), ora, si trasmutava in altro. Mi dicevo si può raccontare la storia della fine del Titanic da diversi punti di vista, quello degli orchestrali è di certo marginale, ma non per questo privo di interesse.

Mentre riflettevo su questo mi è tornato in mente il Serra su cui, con estrema fatica, lavoro. Serra si chiede che cosa resta da fare, mentre il mondo, il suo, al tempo, il nostro in questo, crolla? Quando la gente muore in maniera disumana, come pezzi, in cui la pietà diventa bandiera da sventolare, in cui i corpi straziati di Gaza valgono di più o di meno (a seconda da dove alcuni li guardano) dei corpi di Teheran, Tel Aviv, o Kiev etc etc, in un tempo in cui è stato inventato il disumanometro, l’economia di quanti morti, sotto un certo numero non sei disumano, sopra sì, etc etc, insomma in questo mondo che è pronto a tutti gli effetti per il fall out, non soltanto nucleare ma che riguarda la nostra stessa specie, insomma cosa resta da fare? Serra scrive e dice “E facciamo magari della letteratura. Perchè no? Questa letteratura, che io ho sempre amato con tutta la trascuranza e l’ironia che è propria del mio amore, che mi son vergognato di prender sul serio fino al punto di aspettarne o cavarne qualche bene, è forse, fra tante altre, una delle cose più degne.”
Ora credo che il nostro compito sia comprendere che cosa significhi fare letteratura in questo momento, pur con ironia, pur con la trascuratezza che Serra non solo consiglia, ma quasi prescrive. La prima cosa potrebbe essere prendere atto della nostra irrilevanza, il discorso sulle presentazioni, sulle stanchezze, sulle poche e/o tante persone, sui soldi da spendere etc etc ha in sé un nocciolo che forse non amiamo esplorare: l’irrilevanza della letteratura nel mondo attuale, la gente legge poco, quel poco che legge è spesso brutto, libri scadenti, consolatori, senza visione del futuro, senza sguardo sul passato, con una lingua che passo passo si semplifica (non nel senso della semplicità disadrona di Kafka o della Kristof), ma verso un banale che vuole essere per tutti; in questo quadro uno scrittore che esprima una sua idea, forte, di futuro, è inascoltato (guardiamo solo le nostre bolle letterarie qui, pensiamo ai risultati referendari o delle elezioni e alla discrasia tra ciò che accade nella bolla e ciò che avviene nella società). L’intellettuale spesso non vive nel mondo: anche qui a seguito degli avvenimenti, paragonando la sua bolla al mondo, lo scrittore dice Ma come è possibile? La mia risposta è: Siamo stati negli ultimi 20 anni nei bar a fare colazione?, nei mercati, nelle fabbriche, sui banchi di scuola?Se lo siamo stati l’esclamazione Ma come è possibile è sbagliata, perché, se lo siamo stati, sappiamo che ciò che è accaduto è assolutamente possibile. La vera domanda non è neppure Perchè?, ma dovrebbe essere Cosa ho fatto io?
Ho scritto potrebbe rispondermi, sono andato nelle piazze. E se risponde così allora il tema è nuovamente: l’irrilevanza.
Questa irrlevanza è generalizzata, ampia (certo ci sono autori più militanti di altri, che hanno un seguito maggiore di altri, ma alla fine ecco non mi pare cambi molto), questo fenomeno è dovuto a diversi accadimenti, non ultimo la scomparsa dei corpi intermedi (partiti politici, sindacati, associazioni), che hanno sempre meno iscritti, sempre meno soldi, sempre meno peso rispetto al capitale, questa disparzione dei corpi intermedi è avvenuta anche nella cultura (radattori malpagati, spesso freelance, agenzie letterarie che producono e cercano nella quasi totalità fenomeni letterari e non scrittori etc etc). Tutto ciò ha prodotto una totale insignificanza dell’operare letterario.
Io non ho nessuna illusione, anche queste mie parole sono insignificanti, e infatti le scrivo qui e non su un grande quotidiano, neppure su piccolo quotidiano, neppure su una rivista on line, perché appunto nessuno pensa che la mia opinione sia rilevante, forse nessuno ha interesse nel sapere cosa uno scrittore ha da dire sul mondo in fiamme.
Ecco il mondo in fiamme.
Come diceva il mio amato DFW, quando una casa va in fiamme, si reputa che il salto dalla finestra sia preferibile al morire bruciati, ecco io credo che infine in questo mondo in fiamme, in questa insignificanza del nostro ruolo di intellettuali, a noi rimanga il salto: il salto è la libertà di fare ciò che si crede meglio per sé e per gli altri, è correre il rischio tanto non si ha niente da perdere, tornare in piccole comunità, in piccoli pezzi di società, cinque, o 3 persone, a fare letteratura e non quelle schifezze che la maggior parte della gente vuole, fregarsene della gente, appunto, dei suoi gusti (e dirlo che la gente ha gusti brutti, che molti lettori hanno gusti pessimi e di merda, e smetterla con le menate del pubblico, dell’abbraccio del lettore, io non voglio essere abbracciato da lettori che leggono certi libri), fare ciò che per noi è letteratura, scrivere in piena libertà, scrivere senza pensare minimamente alla pubblicazione o al numero di copie, non pensare a come scrivere il romanzo per vincere il premio, non provare invidia per chi ce la fa, provare pietà per coloro che per farcela si son venduti l’anima al diavolo, rimanere poveri, rimanere nella scarsità, rimanere nella gratuità, non pensare con i tempi di questa società, di questa cultura, di questo mondo, che pretende da te un libro all’anno, ogni volta il libro ti constringe a dire che è il tuo libro più sentito, non mentire a te stesso agli altri, condividere quello che hai scritto con le persone, senza pensare alle persone, andare in un posto se ti invitano ed essere buono e ringraziare, e fare il tuo massimo, ma se non ti invitano bene uguale, non scrivere per consolare, guarire, salvare il mondo, ma scrivere per dire come è il mondo, conservare la pietà, la compassione, voler bene a chi ti è vicino, ai pochi amici, alla famiglia, a tutti coloro che ti sopportano mentre scrivi, passare tempo con chi vuoi bene, abitare lo spazio di mondo che ti è dato, e farlo con gentilezza, e infine goderti la libertà di aver deciso per il salto: e se finirà male, darsi uno scrollone di spalle e sorridere perché sapevi che era una delle ipotesi.
NdR La foto è dell’autore: il suo corso di scrittura creativa, nell’ultimo fine settimana

Sull’avvenire intelligente delle nostre scuole

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di Giorgio Mascitelli

A partire dagli scorsi mesi si è cominciato ad assistere anche in Italia a una campagna mediatica sommessa ma costante sull’uso dell’Intelligenza artificiale a scuola. Dall’appello a non trascurare l’occasione eccezionale e irrinunciabile fino al richiamo del rischio di perdere il treno del futuro passando per la denuncia della paura dell’innovazione, una serie di argomenti già usati nel passato per abituare l’opinione pubblica all’ineluttabilità di altre innovazioni tecnologiche è tornata a circolare. Sarebbe riduttivo spiegare questo fatto con il tentativo di creare una domanda per questo genere di prodotti magari intercettando fondi o creando un consenso per stanziamenti pubblici in tal senso, non perché interessi del genere non esistano ma perché queste reazioni esprimono uno dei punti chiavi dell’ideologia contemporanea in cui la fiducia razionale nella tecnologia produce atteggiamenti irrazionali nei confronti delle conseguenze sociali che le innovazioni generano.

I toni sono ragionevoli e moderati: si ricorda che in ogni caso l’IA non sostituisce l’insegnante, ma è un prezioso strumento in grado di rinnovare la didattica, addirittura in un supplemento dedicato all’argomento del Corriere della sera, Paolo Ferri con indubbia abilità persuasiva nei confronti del mondo docente arriva a suggerire che chatGpt potrebbe incaricarsi della stesura di verbali e di altre corvée burocratiche che infestano la vita dell’insegnante. Eppure è difficile che vengano discusse opinioni come quelle di Manfred Spitzer : “I bambini a scuola imparano a percepire, pensare, comprendere, pianificare, valutare e decidere (insomma a svolgere una serie di funzioni cognitive) dapprima sotto la guida di un maestro e poi in modo autonomo. Così facendo si modificano le connessioni tra le cellule nervose responsabili di quelle funzioni cognitive e si vanno letteralmente a formare sia il cervello sia la personalità degli individui. Ne consegue quindi che delegare o lasciare fare il lavoro intellettivo alle macchine debba per forza portare a un livello di apprendimento minore da parte dei bambini” (Intelligenza artificiale, trad.it 2024, pp.558-559). La cosa interessante di questa posizione non è soltanto che Spitzer è un neurologo, ma che essa viene espressa all’interno di un libro sull’intelligenza artificiale che è decisamente ottimistico sulle prospettive, insomma quanto di più lontano ci possa essere dall’approccio apocalittico, per usare la vecchia categoria di Umberto Eco. Per esempio, nella disputa tra coloro che parlano di pappagalli stocastici a proposito dei chatbot, alludendo con questo termine ad algoritmi più veloci e potenti ma in sostanza legati alla vecchia logica dei calcolatori, e coloro che ritengono che in realtà questi algoritmi siano riusciti a creare un salto qualitativo agendo come delle vere e proprie reti di neuroni, Spitzer si schiera senza dubbio da quest’ultima parte. Insomma l’allarme non viene lanciato da un allarmista.

Se andiamo a rileggerci quanto si scriveva negli anni Novanta sull’importanza della rete e sulle sue prospettive, ciò che colpisce oggi è l’assoluta incapacità di vedere i problemi sociali che essa avrebbe provocato, anche quando erano facilmente prevedibili. Basta prestare attenzione a un problema come quello delle fake news, che esistevano già nell’ambito mediatico tradizionale: in fondo pensare che avrebbero potuto essere diffuse ancor più efficacemente tramite la rete non era poi così assurdo,  e invece all’epoca abbondiamo di descrizioni estatiche di una società futura in perenne crescita grazie alla libera circolazione della conoscenza, quasi che i vincoli giuridici che regolano la proprietà intellettuale fossero stati aboliti da internet, mentre non vi era nessuna previsione delle dinamiche sociali indesiderate. Ancora una volta vorrei sottolineare che questo tipo di atteggiamento non è spiegabile solo con uno spirito pubblicitario, ma rientra in una forma mentis ideologica che vale la pena di analizzare perché sull’IA nella scuola si sta riproponendo esattamente lo stesso tipo di atteggiamento degli anni Novanta. In generale, quando si parla dell’innovazione tecnologica nella nostra società e se ne elencano benefici e rischi, si parte da una considerazione astratta della nuova tecnologia che viene descritta come funzionante, senza effetti collaterali di alcun genere, in una società concepita come spazio vuoto, in cui non ci sono conflitti di interesse e forze economiche e sociali che perseguono dinamiche totalmente indifferenti al bene collettivo. Al massimo si riconosce la necessità di alcuni adeguamenti di ordine giurisprudenziale, meglio se risolti con la governance ovvero senza nessun vincolo di legge, saltando a piè pari qualsiasi considerazione sul fatto che uno dei problemi centrali del nostro tempo è l’indebolimento della legislazione rispetto all’azione dei grandi gruppi finanziari e industriali.

Eppure una macchina, intelligente o stupida che sia, da questo punto di vista non è importante, non è solo uno strumento, ma è un condensato di rapporti sociali che stanno a monte del suo impiego e della sua progettazione. Il tipo di uso per cui ogni macchina è progettata è strettamente collegato agli investimenti effettuati per produrla e alla domanda sociale a cui risponde, che in un sistema capitalistico è innanzi tutto generare profitti. Questo non vuol dire che in astratto non la si possa usare in maniera creativa o differente rispetto alla logica generale, ma tendenzialmente la diffusione del suo uso seguirà questa logica generale del profitto. E l’Intelligenza Artificiale non fa eccezione. Ora se poniamo mente a dove nasce l’IA nelle sue attuali applicazioni, incontriamo le logiche del capitalismo neoliberista, del downsizing, dell’ottimizzazione dei tagli sui posti di lavoro anche in attivo per produrre più profitti. Allo stesso tempo è la società della concorrenza di tutti contro tutti e della frammentazione delle relazioni. Dunque se l’IA appare indiscutibilmente come un progresso irrinunciabile e si diffonde capillarmente, succede anche perché risponde a questi interessi e a queste logiche in maniera più efficiente delle tecnologie precedenti. Introdurre l’IA nelle scuole significa fare i conti con questo genere di dinamiche e non immaginare astrattamente il suo uso in quella ideale (o idealizzata?), cioè completamente distaccata dai meccanismi sociali dominanti e, naturalmente, allo stesso tempo iperconnessa grazie alle macchine prodotte da quella stessa logica sociale, alla quale ci si immagina estranei.

Naturalmente un’obiezione a questa analisi critica è che essa è troppo astratta e lontana dalle esperienze reali di studenti e insegnanti. E’ un’obiezione assolutamente fondata, alla quale si può replicare solo che un determinato meccanismo sociale, anche se astratto, non per questo motivo non ha effetti molti tangibili nella vita delle persone. Se prendiamo in esame in concreto l’esperienza individuale, è verosimile che con l’IA avremo un aumento delle possibilità di fare cose, che prima erano difficili o impossibili, e allo stesso tempo una minore coscienza del modo e delle ragioni di farle, come mostra Spitzer. Il modello implicito sembra essere colui che ha un macchinone da duecento chilometri orari ed è stato bocciato all’esame di teoria della patente per incapacità di capire le norme del codice della strada.

Uno dei topos degli innovatori tecnologici della scuola è la citazione del passo di Platone in cui viene condannata l’introduzione della scrittura perché avrebbe indebolito le facoltà mnemoniche individuali. Il senso di questo esempio è che una perdita individuale viene ricompensata da un aumento della facoltà della memoria a livello sociale e collettivo: insomma la diminuzione di memoria del singolo venne ampiamente compensata dall’aumento della capacità di memorizzazione della società nel suo complesso tramite il ricorso alla nuova tecnologia della scrittura. Nel caso dell’IA questo esempio rivela due punti di crisi: in primo luogo che la scuola non può per suo compito istituzionale sacrificare le capacità degli individui, ma al contrario ha il dovere di svilupparle; in secondo luogo l’unica cosa che verrà rafforzata sembrano essere i processi di accumulazione di un capitale che estrae i propri profitti anche sfruttando determinate relazioni umane come quelle presenti nel mondo scolastico.

Infatti, quando Bill Gates dice che tra pochi anni l’intelligenza artificiale renderà superflui gli insegnanti, da un punto di vista pedagogico afferma un’assurdità, nel senso che la scuola esiste solo all’interno di un rapporto docente-discente, che è una relazione di tipo umano. Se però prendiamo questa affermazione all’interno dell’ideologia corrente, essa diventa un’espressione assolutamente coerente di un programma. Questo programma è quello che vuole eliminare la scuola come forma di socializzazione del sapere in nome di un radicale individualismo e di un processo di accumulazione non regolato da nessuna istanza. L’intelligenza artificiale ha il compito nel concreto di creare le possibilità tecnologiche per realizzare l’effettiva caduta dell’idea di scuola, che, se fosse annunciata in maniera diretta ed esplicita, solleverebbe proteste, e allo stesso tempo di iscrivere tale perdita sotto la categoria del progresso, quindi come elemento fatale e indiscutibile nella nostra società. Il grande vantaggio dell’IA nella scuola è quello di indurre la gente a credere che un’assenza di scuola sia la scuola del futuro.

Le ragioni sistemiche dell’introduzione dell’IA a scuola sono queste e se qualcuno affermasse che comunque a livello individuale è possibile usare l’IA in maniera costruttiva, risponderei che non ho difficoltà a crederlo, ma che questi usi individuali saranno eccezioni trascurabili rispetto all’impatto del suo impiego generale. In realtà anche a livello collettivo si potrebbero immaginare usi pertinenti e creativi, ma solo a patto di sottoporre a una radicale critica politica l’uso e la concezione stessa dell’IA attualmente dominanti. Questo il compito di docenti e studenti, cioè degli esseri umani che abitano la scuola.

 

 

 

«Dio ti ha morso la gola». Teologia elettrica

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di Giorgiomaria Cornelio

 

«La natura vivente deve operare

in sé un’operazione elettrica»

Václav Prokop Diviš

Voce: parla Jeoffrey, il gatto del poeta Christopher Smart, confinato nella Mr Potter’s madhouse.

Perché considero il mio padrone Christopher. Perché in primo luogo non si pulisce le pulci del cervello. Perché in secondo luogo non guarda solo in alto. Perché mi fissa come un foro nel muro. Perché venera quel foro e allora non gli serve uscire dalla stanza in cui è richiuso. Perché piuttosto graffia la pagina con le unghie spuntate e crede di suonarle alla maniera delle pietre. Perché le sue orecchie non pungono come le mie. Perché è docile, e poi indocile. Perché prega. Perché mangia pane secco e non lo sputa come fanno i vecchi gatti di strada, e se il cibo non basta lo divide comunque. Perché dimentica il nome delle cose ma non il modo in cui puzzano. Perché questo lo ha appreso da me. Perché è tenace e maestoso come la sua tristezza. Perché l’affare della sua tristezza è soltanto un momento della gioia, e io lo so quando aspetto che la ciotola si riempia un’altra volta di latte. Perché per trentatré volte fa il giro di ogni cosa prima di descriverla. Perché ha un odore di carbone ma non l’ho mai visto annerito. Perché rotola le parole per farle funzionare, e così fanno tutti i poeti. Perché anche lui è un misto di gravità e scherzo. Perché si lascia avvicinare quando trema. Perché una volta ha toccato il mio pelo e il suo cuore ha fatto un salto. Perché da allora mi accarezza come se cercasse una scossa. Perché mi chiama corrente o fuoco elettrico. Perché sono il suo unico amico. Perché fa versi che nessuno capisce ma io sì. Perché ogni secolo ha almeno un poeta. Perché anche lui ora è dei poveri del Regno e così infatti lo chiamo per benevolenza perpetuamente qui dentro nella stanza chiusa – Povero Christopher! Povera bestia! Dio ti ha morso la gola e ora siamo in due a miagolare.

Il nostro felice niente. Per Patrizia Cavalli

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di Rosalia Gambatesa

È il terzo solstizio d’estate dacché Patrizia Cavalli continua a non esserci. È uscita di scena in un momento di requie astronomica come quelli dei suoi teatri di parole mossi dal cielo e catturati dai sensi. Quasi un anno fa, a luglio del 2024, a salutare il suo passaggio solstiziale, usciva, per i tipi di Einaudi e la cura di Emanuele Dattilo, Il mio felice niente, una ampia raccolta antologica di tutta l’opera poetica. Il libro è tale che, oggi, a un anno di distanza, le domande e le linee di riflessione tracciate continuano a richiamare l’attenzione sulla poesia di Cavalli, sulla sua cifra inconfondibile, emblematica dello snodo epocale tra vecchio e nuovo secolo. La sua poesia senza intellettualismi vi si mostra qual è, una pellicola impressionata da tutte le manifestazioni del cielo e dell’umano. Scorre insieme alla vita, nella benedizione e maledizione delle giornate, ora leggere e luminose e foriere di splendidi amori, ora oppresse dal cielo bianco senza speranza di pioggia e volti amati. Impegnata infaticabilmente nella ricerca di una parola vera, non smette, di volta in volta, di tracciare esattamente sulla pagina le giravolte della coscienza, innanzitutto della sua autrice, l’oggetto meglio conosciuto, e poi anche dell’essere così com’è.

Il mio felice niente, pur nelle forme di una raccolta antologica, restituisce appieno l’intensa vocazione conoscitiva di questa poesia di fine della modernità, della sua eticità e dunque della sua necessaria bellezza e felicità. Non sempre le antologie restituiscono la pienezza di un’opera. Talvolta possono suggerire che le poesie siano riflessi di illuminazioni del poeta, frammenti fluttuanti nell’assoluto, alcuni più riusciti, altri meno. Soprattutto per Patrizia Cavalli una raccolta antologica avrebbe potuto tradire la natura macrotestuale delle sue raccolte poetiche in cui i componimenti contano per sé stessi, ma anche per il ruolo svolto sulla scena nel suo insieme. In questo caso non vi è questo rischio e i lettori di Cavalli si sono subito accorti del dono ricevuto e l’hanno generosamente premiato, anche solo a stare alla lunghissima sfilza di post sui social. La preziosa possibilità di avere sotto gli occhi una visione a tutto tondo di una poesia tanto limpida, quanto inafferrabile, è parsa un’occasione imperdibile e l’ha riconosciuto sia chi è abituato da tempo a gioire della poesia di Cavalli, sia chi solo ora vi si sta accostando. Il curatore del resto attinge alle sette raccolte, apparse tra il 1974 e il 2020, col criterio dichiarato di «esporre un ritratto, il più possibile ricco ed esauriente, della poesia di Patrizia Cavalli» e con l’intento «anzitutto di restituirne la varietà dei registri e dei temi» (Nota al testo, p. XVII). L’antologia segue quindi fedelmente il suo io che per cinquant’anni riflette su tutto ciò che colpisce i suoi sensi mentre immancabilmente va e viene tra casa e città, da un divano a una poltrona a un letto, impegnato in una sempre rinnovata quête amorosa, ogni volta ciclicamente ripetuta. E, assai felicemente, acconsente alla gioia dello sguardo e dell’udito interiore sprigionati dal gioco poetico progressivamente più visionario e capriccioso. Lungo le sette raccolte il gioco si ripete e, nello stesso tempo, sorprendentemente, si trasforma generando forme e ritmi via via più ramificati e inattesi.

Non solo, però. Nella teoria dei testi antologizzati salta agli occhi il vero al cuore della ricerca poetica di Cavalli. Anche solo a contare tutte le parole che vi hanno a che fare, se ne trovano più di cinquanta. Ricopio alcuni dei tanti versi in cui le parole appaiono perché se ne possa cogliere, almeno in via esemplare, la portata: «È vero qualche volta / ti assenti» (p. 20) dalle Mie poesie non cambieranno il mondo, «ma in verità non lo farò» (p. 42) e «Ma veramente aspetto » (p. 44) dal Cielo, «Solo a sentire un verbo / che mi sembri vero» (p. 80),  «[…]  perché / non è vero che si torna, non si ritorna  / al ventre» (p. 86) e «il dolore è vero, ma per un po’ lo vedo» (p. 90)  dall’Io singolare proprio mio, «non era proprio vero ma era quasi vero […] / sì, ero così convinta che era vero» (p. 126) ) e «Beh, non ci credo, e fosse pure vero » (p. 152) da Sempre aperto teatro, «folle d’amore, questo unico tempo vero» (p. 160), «È tutto vero, ma è un pensiero sciocco» (p. 162) ), «mentre si gioca seri al Vero e al Falso» (p. 184) ), «forse per questo è meno vero? No, / continua ad esser vero» (p. 198) da Pigre divinità e pigra sorte, «in verità le occupa stabile e immensa» (p. 207) e «– aerei condomini davvero troppo umani» (p. 210) da Datura. Solo le parole col vero di Vita meravigliosa mancano. Non ce la si aspetterebbe una così grande presenza del vero nella poesia cavalliana, quale emerge tanto limpidamente dal Mio felice niente. Per la verità nemmeno negli scritti critici se ne parla di frequente. Il suo io è d’altronde un io continuamente soggetto al vento di scirocco, preso senza requie a ragionare delle proprie incomprensibili piroette sentimentali, da sempre rimproverato di eccessivo narcisismo e onnipresenza.

Scorrendo le poesie dell’antologia non solo saltano agli occhi le tante parole come vero, vera, veramente, davvero, avvera, ecc.. E, in apertura dell’Introduzione di Dattilo, un penetrante aperçu della poesia di Cavalli, lucido ed emozionato, fanno subito capolino le parole veramente e vere – «scrivere veramente poesie» e «vere poesie» – cruciali nel mito dell’investitura poetica ricevuta per telefono da Morante. Nella teoria dei testi antologizzati colpisce anche moltissimo, e questo è un valore per nulla secondario del libro, l’alternarsi apparentemente casuale della straordinaria varietà di forme che restituisce rigorosamente la minuziosa poikilia delle raccolte. La loro capricciosa mutevolezza conferma che «Patrizia si teneva alla sua lingua per non perdersi» (p. IX), priva di «interiorità e motivazioni o esigenze interiori», con un’anima «tutta fuori, tutta visibile e percepibile, dispersa nell’atmosfera»  (p. VIII). Come non pensare allora che la ricerca del vero condotta da un’anima dispersa nell’andare e venire dell’universo non sia affatto in una qualche specifica verità espressa dalle sue affermazioni, cangianti del resto ad ogni cambiar di vento? Ma che, come scrive Dattilo, sia invece «integralmente, nell’esattezza del loro apparire, a volte abbagliante» (p. IX) sulla pagina, che riflette, nell’unica forma ogni volta esatta della lingua, ciò che colpisce il corpo-mente. Perché esattamente così sia, le forme dall’andamento quasi classico arrivano anche talvolta a torcere in modi inaspettati una lingua in genere priva di forzature. Ad esempio ci si imbatte in «Mi scompaio» (p. 27) dal congedo delle Mie poesie non cambieranno il mondo, con scomparire usato nella forma media non attestata; nel perdifiato dei diciassette versi senza principale della prima strofa di «Per simulare il bruciore del cuore, l’umiliazione» (p. 32), messi a specchio con un distico di chiusura impeccabilmente geometrico, dal Cielo; in «stellarti gli occhi» da Vita meravigliosa, con l’uso transitivo di stellare anch’esso non attestato.

Dell’esattezza di questa lingua si è parlato. Ma di fatto un affondo su questo finora non c’era. Dattilo ci si addentra osservando assai opportunamente che l’esattezza è il suo attributo principale, né la semplicità, né la difficoltà, tanto meno la quotidianità. La collega alla finzione, e non c’è da sorprendersi, in quanto è proprio la finzione a sottrarre ogni naturalismo alle sempre ripetute vicende sentimentali e ad aggiungervi un sovrappiù di realtà, e, io direi, anche di verità. Ebbene, la sua antologia da questo punto di vista è esemplare. Tra il piano del dichiarato dell’Introduzione e quello della sfilata delle poesie vi è una singolare specularità. L’evidenza linguistica dei testi antologizzati mostra ogni volta tanto l’artificiosità, quanto l’esattezza del dettato. Non poteva essere diversamente del resto in un lavoro nato da uno sguardo critico capace di stare vicino ai testi senza giudicare, né interpretare il loro io – «Eppure esiste, deve esistere un modo per parlare di Patrizia Cavalli senza cedere alla sua tentazione, senza ricorrere né alle distanze critiche né alle prossimità amicali, e dunque per uscire dall’equivoco del personaggio, su cui troppi si soffermano» (p. IX).

Anche il titolo Il mio felice niente è in linea con la prospettiva critica. Tratto da un verso assai evocativo della poesia di copertina di Vita meravigliosa («Cosa non devo fare / per togliermi di torno / la mia nemica mente: / ostilità perenne / alla felice colpa di esser quel che sono, / il mio felice niente» p. 237), non può, di primo acchito, non farmi pensare al niente dell’amato Leopardi. Sempre troppo poco chiamato in causa a proposito di Cavalli, lo ricorda una volta Berardinelli nella lontana recensione al Cielo dell’‘82 scrivendo del «semplice coraggio delle emozioni, un coraggio leopardiano della nudità e dell’aderenza» («Incognita», marzo, p. 72). È un titolo criticamente preciso perché ritorna a mio parere sulla questione dell’esattezza e del vero. Se la felicità è tradizionalmente pienezza, l’effetto ossimorico dell’accostamento tra la felicità e il non essere, fondamento del corpus poetico antologizzato, è un’altra maniera di ribadirne la verità dell’esatta manifestazione, ogni volta, della lingua. Gira intorno all’io come LIo singolare proprio mio, titolo della terza raccolta e del suo poemetto eponimo, un io carnale, singolare o grammaticale, ma di certo non psicologico, e ha la «doppia simultanea pretesa, in fin dei conti impossibile da realizzare – conoscere e insieme essere ciò che si conosce». Ovvero richiama di questo io un’«insistita assunzione» (p. XIII) e insieme l’opposta natura di sismografo. E forse non è un caso se nella poesia di copertina dell’antologia se ne può scorgere uno svagato riferimento – «Sto qui ci sono e faccio la mia parte. / Ma io neanche so cos’è questa mia parte. / Se lo sapessi / potrei almeno uscire dalla parte / e poi sciolta da me godermela in disparte».

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Patrizia Cavalli, Il mio felice niente, 1974-2020, a cura di Emanuele Dattilo, Einaudi, 2024, XVIII – 270 pp., 14€.

Cercando esasperatamente il dire

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di Stefano Zangrando

Non è facile parlare di La Luce Inversa di Mota (Wojtek Edizioni) senza scomodare certi aggettivi collosi in voga nella critica da social come “dirompente” o “straziante”. Dovendo usare una categoria o una designazione di genere, si potrebbe forse dire che è un romanzo dell’orrore. Del resto la citazione d’apertura, dal Calvino de Le città invisibili, parla d’inferno – a ragione: è un libro di finzione che muove dalle violenze sessuali subite nell’infanzia dai tre protagonisti Vanessa, Siddiq e Martin. Se vivi in tempo di pace (oggi occorre precisarlo) l’inferno è questo.

La cornice in cui è inserita la rievocazione degli abusi ha tuttavia qualcosa, in termini sia stilistici che catartici, di purgatoriale prima e poi di paradisiaco. I tre sono collocati nella «Camera a Luce Inversa» allestita in via sperimentale da una psicoterapeuta, la dottoressa Hollis, e a parlare per loro è unicamente la loro coscienza fattasi linguaggio. Lacan avrebbe forse qualcosa da dire al riguardo, ma qui la resa letteraria conta più della verità psicoanalitica, o meglio la comprende e la sopravanza. Tra le pagine migliori ci sono infatti quelle che descrivono la fusione delle tre figure in un’unico plasma, quello che rende possibili la regressione da un lato, e con essa la riemersione del vissuto, dall’altro la verbalizzazione di un’unità in cui l’io di ognuno va in pezzi e si dissolve: effetto uguale e contrario alla psicosi, che evolve di qui in un campo di energia fraterno, solidale e redentivo. Tutto ciò in una lingua che dà spesso l’idea di aver infranto una corazza d’indicibilità, capace di visione.

Quelle che rievocano i traumi, invece, sono le parti più disturbanti. Vanessa ha subito violenze dal compagno della madre a nove anni, ed è la voce che più veicola la meraviglia per lo stato di eterea simbiosi con gli altri in cui la getta l’esperimento. Siddiq è finito nelle grinfie perverse di un prete a otto anni, ospite di un istituto per minori, e adesso è quello più disposto al legame e al perdono. Martin da ancora più piccolo fu abusato più volte dal nonno paterno, e il frutto a venire è una rabbia che invoca vendetta: per questa ragione, è lui che più fatica ad accogliere l’opzione di una catarsi condivisa. La sua è anche la coscienza verbale di un ragazzo che, dopo una formazione scientifica, si esprime a tratti in modo concettoso e elucubrante – e qui un editing meno indulgente avrebbe forse ripulito alcuni capoversi. Peccato, perché poi è lui che sa dire meglio la «caduta» che la psiche conosce nell’abisso del post-trauma. Ma qualche piccolo garbuglio è perdonabile in un romanzo che non vuole dilettare, che non conosce velature o reticenza, ma cerca esasperatamente il dire, appena al di qua di un terrifico estetismo dell’abuso, oscillando allucinato, come una seduta di ayahuasca, tra i poli del tormento e della grazia.

Nella prima metà del libro, che è costruito per capitoli alterni narrati da ognuno dei tre, i confini tra le personalità e le rispettive regressioni sono ancora definiti; dalla metà in poi le coscienze e i ricordi debordano gli uni negli altri, mentre appare per converso qualcosa di simile a una corporeità astratta, e con essa una casa a più piani nella quale i tre dimorano, e un treno di un solo vagone che attende all’esterno, i binari che s’impennano in un cielo invisibile. È da qui che i tre riprenderanno la via della realtà, dopo che la Luce Inversa li aveva invece riportati «verso casa» – con tutto quel che c’è di infranto nell’idea di casa quando questa diventa l’inferno, dove chi protegge diventa carnefice e chi dovrebbe esser protetto diventa il catalizzatore incolpevole, e poi per sempre intriso d’insanabile vergogna, di un Male che sembra venire da chissà dove, ma che non è che l’uomo guasto, di generazione in generazione.

L’appello finale è un’uscita dalla finzione che l’autore si concede per restituire e invocare una comprensione a chi vittima lo è davvero. E se si è arrivati fin qui, sarà difficile non cedere a un deliquio di empatia. Il profilo biografico di Mota, sul risvolto, si compiace di non aver mai portato a termine una nota scuola di scrittura. C’era bisogno di dirlo? Nessuno che un giorno avrebbe scritto un libro così ha bisogno di mostrare che certi diplomi non fanno per lui. Carta canta, anzi urla.

NdR: un estratto del romanzo è stato pubblicato da NI qui

La mia bolla e Eichmann. Spunto per un’autoanalisi di gruppo.

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NAZI WAR CRIMINAL ADOLF EICHMANN SITTING IN A GLASS CELL, AT HIS TRIAL AT BEIT HA'AM IN JERUSALEM. צילום תקריב של הפושע הנאצי אדולף אייכמן בתוך "תא הזכוכית" המשוריין, במשפטו שנערך בבית העם בירושלים.


NAZI WAR CRIMINAL ADOLF EICHMANN SITTING IN A GLASS CELL, AT HIS TRIAL AT BEIT HA’AM IN JERUSALEM.

di Andrea Inglese

Ve lo ricordate questo signore? Adolf Eichmann. Vi ricordate il reportage-riflessione di Hannah Arendt? Ebbene, vorrei che la mia bolla riflettesse a una cosa molto spiacevole, spiacevole per noi tutti. Anche gli eventi eccezionali ai quali stiamo assistendo, come il progetto di genocidio del popolo palestinese in questo XXI secolo, nascono all’interno di una realtà umana “normale”. Se togliete una minoranza di fanatici, di sadici, di pazzi, che sono riusciti a insediarsi in posti di potere, la maggior parte delle persone che li segue, che accoglie la loro propaganda, che crede alle loro parole e che obbedisce ai loro ordini è gente “normale”, gente che, socialmente, rientra nella norma, ossia non ha commesso in precedenza alcuna azione particolarmente detestabile o ignominiosa. Noi, che abbiamo almeno un certo coraggio e la lucidità, l’integrità mentale e morale, di denunciare questo progetto genocidario, e il bollettino di morti innocenti che ci fornisce giornalmente, dovremmo essere però coscienti di una cosa. Questo noi, che si è nei mesi scorsi rafforzato e che ha preso finalmente, tristemente, i caratteri di una parte sociale coesa e indignata, ebbene questo noi è fatto anche di molte persone, che vediamo all’opera ogni giorno, nel lavoro, nelle relazioni sociali, nelle istituzioni. Ebbene, in alcuni casi mi è capitato di domandarmi, ma tu che denunci con molta ragione e pertinenza certi terribili torti, ma tu saresti in grado, in una concreta situazione, di opporti a una maggioranza? Di opporti a qualcuno di più potente? Saresti in grado di aprire un conflitto, che minaccia certe tue comodità e vantaggi? Non dico questo perché valga, anche solo minimamente, come giustificazione di ciò che sta accadendo. Per niente. Lo dico, perché un lungo soggiorno con gli altri esseri umani, e quindi con me stesso, per l’immagine che gli altri mi hanno rimandato, mi ha fatto capire che la maggioranza delle persone che conosco non ama i conflitti, vuole in genere accedere a una posizione sociale o lavorativa migliore, e mette moltissima energia alla realizzazione di questo obiettivo. Inoltre non ama dover prendere partito di fronte a controversie, se questo può mettere a rischio la sua reputazione o posizione. Io per primo mi riconosco più o meno in questo ritratto. In ogni caso, riguarda anche me. Perché ricordo tutto questo, nel momento in cui parlo dell’indignazione e della denuncia sacrosante che vedo ormai diffuse sulla mia bolla social? Per dirvi che dovreste pensarci due volte prima di denunciare i massacri, gli assedi, le torture che l’esercito israeliano infligge alla popolazione di Gaza o della Cisgiordania? Assolutamente no! Ma pensiamoci due volte, prima di defilarci, di zittire, di spaventarci, ogni volta che assistiamo intorno a noi, anche in tempo di pace, a un’ingiustizia, una stortura, una prepotenza di qualche persona più potente. I cinici, a sinistra come soprattutto a destra, diranno: “Che v’indignate a fare, lo sapete che schifezza è l’uomo!” Noi potremmo approfittarne, invece, per dire: che il nostro comportamento quotidiano sia all’altezza delle giuste indignazioni di ordine geopolitico!

Vivere è molto pericoloso… Conversazione immaginaria con Fabrizio Coscia

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di Giuseppe A. Samonà

A proposito di:Fabrizio Coscia, Suicidi imperfetti, Editoriale scientifica, 2024.

Vorrei invitare i miei amici, le persone che mi sento culturalmente, umanamente affini, a leggere Suicidi imperfetti, di Fabrizio Coscia, ma ecco che per motivare questo mio invito mi trovo preso in tenaglia fra due tentazioni opposte. Da un lato, non ho da dire che tre parole: … perché è splendido! Dall’altro, vorrei impiegare tutte le parole del suo libro, un po’ nella prospettiva del Pierre Menard di Borges che riscrive il Quijote arrivando a un testo nel contempo identico e differente. Perché non c’è una sola osservazione, idea, parola appunto, di Coscia, che non mi abbia riecheggiato, risuonato dentro, che non abbia sentito semplicemente mia, anche dandomi voglia di riprenderla, commentarla, prolungarla. È un’esperienza, questa, capitatami solo con pochi libri, che continuano ad accompagnarmi: come se leggendo io avessi senza interruzione dialogato con l’autore, interpellandolo con domande o riflessioni.

Qui, fra le due tentazioni, provo a realizzarne una terza, e percorro una via più moderata, adeguata: non ordinatamente riassumendo e commentando il libro (mi sembrerebbe, come si dice nell’attuale critica cinematografica, di fare un imperdonabile spoiler), ma semplicemente evocando, con voluto disordine, alcuni stralci di questo mio dialogo solitario, cioè immaginario, per cercare di restituirne lo spirito. E vorrei farlo esponendomi anche personalmente, sentimentalmente, come mi sembra giusto: perché lui, Coscia, non si nasconde mai dietro la parete dell’erudizione, dell’accademia; ma, anche se non parla mai direttamente di sé, con onestà e coraggio delinea in realtà un suo modo di stare al mondo e di intenderlo, di intenderne la bellezza e il dolore, in altri termini, di amare, insieme interrogando il nostro, ad ogni pagina – un po’ alla maniera di Proust o Montaigne che usano gli altri per indagare se stessi e, soprattutto, se stessi per indagare gli altri, l’anima umana. Ed ecco, per cominciare, la mia prima domanda immaginaria a Fabrizio (Coscia), che chiamo pur non conoscendolo per nome, come lui fa con i suoi personaggi, rendendoceli più vicini, quasi li avessimo conosciuti, fossero nostri amici… E dunque : Proust lo nomini una volta sola, ma subito, nella tua introduzione; di Montaigne parli solo attraverso Rachel: quanto hanno contato l’uno e l’altro per arrivare a questo modo ibrido di fare « saggistica » (ma forse il termine non è adeguato)?

Già, Rachel, che è Rachel Bespaloff: le pagine che la concernono sono uno dei picchi della mia lettura, anche perché, per altre vie, Rachel è una mia autrice. Insieme ad altre sue opere, fra cui appunto uno studio su Montaigne, c’è infatti la sua rivoluzionaria, preziosa interpretazione dell’Iliade, che lei intende, in sostanza, come attraversata da una speranza, una possibile alternativa alla guerra. Non nel senso di un facile pacifismo, però, che come l’esaltazione della forza è una sorta di scorciatoia ideologica… mentre la guerra è come la vita, come il mare, il suo « fragore » dev’essere accolto prima che giudicato, anzi (questo, anche, è l’Iliade…), nella sua esaltazione del combattimento, con i corpi in lotta, che a volte sembrano danze d’amore, può persino, a tratti, rifulgere, incantare con la sua bellezza; e tuttavia serve solo a produrre infinito dolore e finisce per svelarsi nella sua radicale inutilità… Ma ecco che dentro la guerra esiste il suo antidoto: lo troviamo nel « resistente » Ettore, nel suo privato spazio d’amore con Andromaca, ma anche nel suo spietato « nemico », Achille, il guerriero per eccellenza, anzi, il guerriero selvaggio che stravolto dall’ira e dallo spirito di vendetta brucia le regole dell’onore, della cultura, e però ama teneramente la madre Teti, e l’amico Patroclo, e si commuove di fronte a Priamo, cui ha ucciso il figlio che gli aveva ucciso il suo Patroclo, o ancora canta, suona la cetra, quasi fosse una fanciulla (del resto, in un certo senso, lo è stato, una fanciulla, prima di partire per la guerra, proprio per cercare di evitarla) … Bespaloff analizza l’Iliade incrociandola con Guerra e pace e ancor di più con la Bibbia, impegnate tutte e tre, ognuna a suo modo, a stigmatizzare la hybris, nel senso dell’« orgoglio umano e della volontà d’onnipotenza ». Come non riflettere allora sul fatto che il greco Omero prova identica compassione per i « suoi » Achei e per i « nemici » Troiani? Può questo orientarci, esistenzialmente prima che politicamente, nella tragica attualità che viviamo in questo periodo, con il suo viluppo di devastanti conflitti? Ma oramai non si tratta più di Coscia, e neanche di Bespaloff; in realtà, senza accorgermene, sono approdato fra le mie riflessioni e parole: è un esempio delle risonanze di cui dicevo all’inizio.

Coscia invece – e non ci avevo mai pensato prima, e mi sembra un accostamento più che adeguato, necessario – sviluppa la sua analisi mettendo in parallelo Rachel Bespaloff e Simone Weil: entrambe ebree, entrambe costrette a espatriarsi a New York (anche se Weil poi riparte per l’Inghilterra, dove muore, a trentaquattro anni, nel 1943), rileggono l’Iliade nello stesso periodo, cioè sul finire degli anni Trenta, dentro la guerra e le persecuzioni che incendiano l’Europa, « senza sapere l’una dell’altra » (ma veramente, Fabrizio? a me viene voglia di approfondirla, questa coincidenza, questa mancata comunicazione…): anche se Weil, a differenza di Bespaloff, ne fa il poema in cui si rivela in tutta la sua necessità «la violenza brutale della forza ». Eppure proprio Bespaloff, che nell’Iliade era riuscita a scorgere una possibile via d’uscita e, a differenza di Weil, era sopravvissuta alla guerra, e non solo, aveva potuto salutare con speranza la nascita di Israele nel 1948, si toglierà la vita, nel 1949. Impossibile non pensare a Stefan (Zweig), altro personaggio del libro, che pur al sicuro e tranquillo in Brasile, si toglie la vita nel 1942, nel cuore della tragedia, di cui pur non può ancora cogliere l’incommensurabile ampiezza. O anche a Walter (Benjamin) e a Primo (Levi), che nel libro non ci sono, ma cui il libro, con altri, altre, è dedicato, i quali si toglieranno la vita, l’uno nel 1940, mentre dalla Francia oramai nelle mani dei nazisti fugge verso la Spagna franchista, l’altro nel 1987, più di quarant’anni dopo la fine della guerra, nella sua tranquilla Torino. Come se prima o dopo, anche molto dopo, nel pericolo o al sicuro, oramai confortevolmente installati nella vita, la catastrofe non lasciasse mai scampo, fosse inevacuabile.

Eh sì… Rachel, Stefan, Primo e Walter (che pur non essendoci ci sono…). Suicidi imperfetti – questo almeno va brevemente rivelato, anzi, avrei forse dovuto farlo all’inizio – indaga, racconta, con ritratti più o meno brevi, diciannove morti volontarie di artisti, scrittori, soprattutto, ma anche cantanti, pittori, attrici e attori. Con una prima sorpresa, che rapidamente mi è apparsa come un’evidenza, qualcosa che non poteva che essere così: le pagine che via via leggiamo, anche le più dolorose, sono piene di luce. Sempre! – e mai neanche un’oncia di curiosità malsana, di morbosità. E, quasi da subito, mi è venuta in mente una frase di Vladimir Jankélévitch (estratta dal suo La mort – l’avevo tradotta, poi all’ultimo momento la riscrivo in francese, che i lettori di Nazione Indiana leggono per vocazione, perché è così che, a distanza di anni, canta nella mia memoria): [La mort est] si simple que nous nous demanderons, le jour où nous saurons, comment nous n’y avions pas pensé plus tôt. L’avevo annotata a metà degli anni Novanta, a Montréal, dove dispensavo una parte del mio insegnamento in storia delle religioni antiche al Centre d’études sur la mort, con studenti che erano per lo più tanatoprattori, malati terminali, persone fortemente colpite da un lutto, infermieri in strutture di cure palliative, etc., quasi sempre giovanissimi. E sono stati incontri straordinari, momenti, oggi ricordi, fra i più forti della mia vita. Più volte mi sono tornati in mente, leggendo il libro di Coscia. Ad esempio, con Norma Jeane, meglio conosciuta come Marilyn Monroe, ho ripensato a quella lontana notte d’inverno… Ero uscito dal corso con Stéphane e Chantal, che erano a metà dei loro vent’anni, lui malato di AIDS, lei di cancro, oramai avanzato, innamoratissimi, e si corrispondevano non corrispondendosi: Chantal era piena di desiderio, Stéphane, omosessuale, di tenerezza e d’amore, ma al di qua, o al di là, del sesso – le voleva bene. Durante il corso aveva nevicato, tutto era adesso coperto da una coltre bianca, e continuava a nevicare, il rumore dei nostri passi era completamente attutito, c’era uno spicchio di luna annebbiato, sembrava di stare dentro una fiaba – e Chantal, guardando me ma pensando a Stéphane, al suo amore felice-infelice, ha detto (quasi a prolungare Jankélévitch sul campo) qualcosa come: La verità è che la morte è molto più semplice, tranquilla della vita, che non si capisce niente ma a volte, che meraviglia… (Chantal è morta qualche mese dopo quella notte). Incontri, incontri pieni di grazia. La stessa grazia che ho ritrovato in ogni pagina del libro di Coscia, che è la grazia – anche se a volte dolorosa, tragica – della vita.

(Ma perché mai le pagine su Norma Jeane / Marilyn mi hanno riportato a quella notte montréalese? Perché cominciano con la neve, certo, ma, ben di più, perché sono fra le più fisiche, corporee, sanguigne del libro. Attraverso la scrittura la rivediamo, in una scena del suo ultimo film, abbracciare l’albero, ubriaca, disperata e poi improvvisamente, il suo volto ci sta di fronte, trasfigurata dalla luce, come in preda a un’insensata, infantile allegria – e sappiamo che ha dentro la morte, non come ce l’abbiamo dentro tutti, ma con l’urgenza di quel che sta già per avverarsi. E ci viene voglia – parlo al plurale, credo che gli altri lettori, in quel momento, hanno avuto, avranno lo stesso slancio – di abbracciare con lei quell’albero, o di abbracciarla da sola, ma non per via della sua indimenticabile, sensuale bellezza, ma perché sentiamo che la morte, dentro quell’improvvisa luce, è in agguato, e ci struggiamo di tenerezza, di agape, vorremmo potere, magicamente, rassicurarla, e scacciarla via, la morte… E appunto, ho ricordato che avrei voluto abbracciare, con lo stesso spirito, Chantal, anche se il suo agguato era diverso, ma sempre di morte si trattava…)

Questo è il punto, fondamentale. La morte, in questo libro, non è l’obiettivo, o lo è nel senso letterale, di una lente attraverso la quale si cerca di cogliere la vita, che è ben più complessa. « In fondo la vita è molto più illogica della morte », lo dice anche Coscia, anche se una volta sola, incidentalmente, ma trasuda da ogni sua frase. Perché – e penso sempre a Jankélévitch, e in particolare al suo La mort, ma anche agli anni trascorsi a Montréal, in cui con la morte, per così dire, dialogavo sul campo – il tabù della morte è in realtà un tabù della vita, la morte vivendo di un curioso paradosso: è l’empêchement de vivre ma anche le moyen de vivre; in questa prospettiva,  è il limite che dà forma e significato a quello ch’essa contiene, la vita. Così, siamo vivi, viviamo, solo perché siamo mortali, e in questo senso il est bien vrai que ce qui ne vit pas ne meurt pas ; mais c’est parce que ce qui ne meurt pas ne vit pas. Insomma, come ha detto Epitteto: « sia maledetta la vita senza la morte… » Come dire: chi nasconde la morte, nasconde la vita. Chi, invece, avendo pienamente vissuto, muore, accede all’unica – molto omerica – forma di immortalità, nel senso che, per citare di nuovo Jankélévitch, che è stata una delle principali scoperte libresche di quegli anni canadesi: Celui qui a été ne peut plus désormais ne pas avoir été : désormais ce fait mystérieux et profondément obscur d’avoir vécu est son viatique pour l’éternité.

Ecco, nuova risonanza, forse la più risonante di tutte: perché mettendo a fuoco la storia della deliziosa (è l’epiteto che mi viene sempre, naturalmente, da incollarle dietro…) Jean (Seberg) Coscia – veramente alla Pierre Menard – atterra letteralmente sulla mia scrivania, dentro la mia pagina, con una scena su cui mi sono già più volte soffermato, e che fa di nuovo parte di un mio lavoro in corso. Con parole diverse ma identiche. E, attenzione, non si tratta qui di quell’insopportabile vanità da salotto per cui, parlando di altri, uno ne approfitta per parlare di sé, bensì dell’esatto contrario: rivelo questa coincidenza per dare valore alla scrittura di Coscia. Leggendo, mi è balzato il cuore in gola – e non ho appunto altro modo, per dare la misura di questa risonanza, che raccontarla, mischiando le nostre parole.

E dunque: Coscia introduce alla tragica morte della giovane Jean nella realtà, soffermandosi, nella finzione, sull’ultima scena di À bout de souffle, il film di Godard (ma c’è anche lo zampino fondamentale di Truffaut !) che in qualche modo l’ha resa famosa e, letteralmente, immortalata. A morire adesso, ucciso da una pallottola, è il protagonista, Jean-Paul Belmondo / Michel, nel film perdutamente innamorato di Jean / Patricia, che lo tradisce, ma prima di morire, sdraiato per la strada, agonizzante, lui dice, guardandola, e lei lo guarda, e il gioco degli sguardi è il fulcro di questo movimento di immortalizzazione: Tu es vraiment dégueulasse… « Sei veramente schifosa », e muore. Jean allora si guarda intorno (ancora sguardi), e chiede alle persone che si sono radunate cosa lui abbia detto, non ha capito, qualcuno glielo ripete, e lei soggiunge (con quel francese così esotico, teinté di americano): Qu’est-ce que c’est dégueulasse ? « Che cos’è ‘schifosa’ ?», e di nuovo guarda, ma dritto davanti a sé, come nel vuoto, attraverso la musica di Martial Solal, di fronte ci siamo oramai rimasti solo noi spettatori in sala che già da un pezzo ce ne siamo innamorati, di quegli sguardi, di quell’accento esotico, di quella sua bellezza deliziosamente androgina, e si passa un dito  sulle labbra carnose, e si volta per andarsene, mentre cala la parola fin… (Fabrizio, ma queste parole sono tue o mie? dov’è la frontiera? sono nostre?) Ma chi o cosa è dégueulasse ? Jean / Patricia? La morte che sta per portare via Jean-Paul / Michel? O forse, entrambe… Così, ovviamente (ovviamente per me) questa scena mi rimanda all’altra, precedente, « mia » scena… Patricia / Jean intervista insieme a un gruppo di giornalisti e ammiratori il famoso insopportabile scrittore-filosofo Parvulesco, impersonificato da un perfetto Jean-Pierre Melville – e proprio alla fine della serie di domande e risposte torna a chiedergli (glielo aveva già chiesto qualche attimo prima, senza ricevere attenzione): Quelle est votre plus grande ambition dans la vie ? E questa volta lui, dopo un attimo di riflessione, sentenzia: Devenir immortel, et puis… mourir ! … ‘Un attimo di riflessione’, in cui prima di parlare si leva gli occhiali da sole che non aveva fino ad allora mai tolto, rivelando finalmente i suoi occhi; e dopo aver ascoltato la sua risposta, se li leva anche lei, bellissima, i loro sguardi, di nuovo gli sguardi, riempiono lo schermo, restando sospesi nell’aria, intrecciandosi, di nuovo, all’onnipresente musica di Solal, che comincia proprio in quel momento – e la scena finisce. Quel puis sarebbe in realtà un anche, una contemporaneità… Non a caso, ricordo che quando ho visto il film per la prima volta mi son ricordato di Nausicaa, con Ulisse (di nuovo, Omero), in uno sceneggiato televisivo del mio tempo bambino, preceduto dall’inconfondibile voce di Ungaretti, perché… anzi no, questo lo racconto in un’altra occasione, altrimenti, come a scuola, rischio di andare “fuori tema”, o almeno, di addentrarmi in un terreno troppo vasto. Così, tornando al libro di Coscia, mi limiterò a sottolineare che il modo in cui è disegnato il tragico itinerario di Jean S., che si suiciderà ad appena quarant’anni, mettendo una accanto all’altra vita e finzione, sovrapponendole persino – belle, struggenti le righe che analizzano uno dei suoi ultimi film, Les Hautes Solitudes, di Philippe Garrel – è uno splendido esempio di « morte immortale » (le virgolette includono parole mie), nel senso del « sigillo di verità [posto] alla propria opera » (le virgolette includono parole di Coscia). Chi ha visto una volta À bout de souffle non può non tornare a vederlo e a rivederlo, anche, soprattutto, per risprofondarsi in quello sguardo, in quei lunghi primi piani che scolpiscono il volto di Jean, quasi che la sua bellezza androgina – è l’immagine che per sempre ce ne resta – fosse il sintomo di una palingenetica armonia, rendendo palese il « viatico per l’eternità » di cui parla Jankélévitch.

Ora però, è esplicito, è ovvio, e non è un dettaglio da poco, in questi ritratti di vite osservate attraverso la lente-morte si tratta di una modalità particolarissima, e tutta umana, del morire, si tratta appunto di suicidi. Una sorta di deroga alla legge universale che caratterizza la morte: mors certa, hora incerta. Sappiamo che dobbiamo morire, non sappiamo quando: il che è la caratteristica fondante del nostro passaggio sulla Terra. E se l’incertezza del momento si rivela peggiore della certezza dell’evento, se è l’aspetto più insopportabile della nostra condizione di mortali, scegliendo noi il momento della morte è un po’ come se la scardinassimo, la morte, ce ne appropriassimo, acculturandola. Questa prospettiva che accomuna tutte le morti di cui si parla nel libro – o meglio, come dicevo, le vite che le hanno contenute – può ovviamente essere dettata da motivazioni diverse, a volte opposte: pura disperazione, megalomania, affermazione di libertà e / o verità, rivolta contro o rifiuto di accettare il male, impossibilità di sentirsi dentro la propria vita, fatica del vivere, incapacità, o semplicemente allergia all’incertezza, alla minaccia, alla sofferenza, fisica o morale, individuale o collettiva, paura, come quando la nave affonda e i topi si buttano a mare (ognuna di queste diverse situazioni mi rimanda all’una o all’altra delle vite raccontate nel libro…). Le analisi tipologiche, a partire da quella paradigmatica di Durkheim, non mancano certo, e varrebbe la pena di considerarne alcuni aspetti, se quello di Coscia fosse un libro sul Suicidio, ma non lo è… Non è neanche, lo ripeto, un libro sulla morte, se non in quanto solo la morte – non solo come « lato oscuro », ma anche come limpido contenitore – fa rilucere la vita.

In generale, scendendo nella tragica concretezza di quelle esistenze, al di là delle astratte disquisizioni tipologiche, possiamo forse – ma con modalità diverse, dal felicemente realizzato Stefan Zweig, con dentro la devastazione della tragedia che sta disumanizzando l’Europa, all’irrealizzata, radicalmente precaria Marina Cvetaeva – adottare per tutti gli itinerari raccolti nel libro la formula proprio di Marina C.: «Soffro, in generale, di atrofia del presente – aveva scritto a Boris Pasternak – non solo non ci vivo: non ci càpito neanche di tanto in tanto». Un altro picco, per altro, Marina C., ultimo ritratto del libro. Il più bello ? Non saprei, probabilmente quello che avrei scelto, se avessi voluto fare un semplice compte-rendu,   per illustrare la qualità e l’originalità della scrittura di Coscia, nel contempo sobria e struggente, asciutta e appassionata, lieve, capace in pochi tocchi di restituire gli strati più profondi di un itinerario di vita, impregnata com’è di un umanesimo non dogmatico in cui sento di riconoscermi. (Già, l’impossibile presente: come non pensare allora che il capolavoro del pieno di successo di Zweig sia Die Welt von Gestern, « Il mondo di ieri? »).

L’intelletto dell’uomo deve scegliere: la perfezione della vita o quella dell’opera, ha detto Yeats. Eppure, gli itinerari descritti da Coscia sembrano in qualche modo dire il contrario, vita e opera sono intrecciate, si scambiano continuamente i ruoli, in un percorso in cui sofferenza e felicità, assenza e pienezza, persino estasi, sono spesso separate da un millimetro, a volte sovrapposte. Non è del resto questa estrema vicinanza del buio e della luce, della presenza e della nostalgia una delle caratteristiche più imprescindibili dell’amore, la cui scintilla ogni volta fa ricominciare il mondo dall’inizio, come se fosse la prima volta? I never felt magic crazy as this, «Non ho mai provato una magica follia come questa », o anche, ancor più a fior di pelle, Non mi sono mai sentito così magicamente folle, come canta in Northern Sky Nick (Drake), in quella che Coscia definisce, a ragione, «tra le più belle canzoni d’amore mai scritte »; Nick che muore a ventisei anni, stroncato da « un’overdose di Tryptizol » – di nuovo, di quel fragile, breve percorso Coscia ricostruisce i sottili fili, l’equilibro doloroso fra insuccesso e purezza – ma io mi chiedo anche se quella spasmodica capacità di sentire ed esprimere l’amore, quasi Nick fosse mancato di pelle, di protezione, e l’amore gli fosse arrivato dritto dentro il cuore, non sia l’altra faccia dell’incapacità di difendersi dal male. E cosa dire allora, con un richiamo numerologico che dà i brividi, delle tre J della mia adoloscenza? Anche loro inizio anni Settanta, e vissuti solo qualche mese in più, accomunati dalla maledizione dei 27 anni: Jimi, Janis, Jim … – e cosa di Amy, vero e proprio amore della mia « maturità », morta nel 2011, anche lei a 27 anni? Non c’è niente da fare, il libro di Coscia induce alla confessione, all’eruzione dei nostri propri amori artistici e non solo, ed è parte non secondaria del suo fascino… Così, in equilibrio fra l’esaltazione dell’amore, nel senso del fantasma-passione, del sogno-illusione di pienezza, non dell’agape, e il suo potere distruttivo, mi viene da pensare anche all’insostenibile viaggio sentimentale a tre di Lou (Salomé, con di nuovo la magnetica, inafferrabile androginia), Paul (Rée) e Friedrich (Nietzsche) – ancora una volta restituito da Coscia con pochi tocchi, tutti indovinati con millimetrica giustezza. L’intenso momento di felicità, di pienezza, e il dolore, la perdita, il senso di abbandono, sono dunque così vicini da passare necessariamente dagli uni agli altri?  Chiunque abbia vissuto, viva con intensità le proprie emozioni, i propri sogni, capisce di cosa si parli, qui – forse perché il dolore come il piacere appartengono alla vita, non alla morte, che è sempre più semplice, e in definitiva rassicurante. Del resto il gioco, proprio quando ci confronta con il rischio, non è l’esperienza più inebriante, più divina di cui siamo capaci noi umani? Il libro di Coscia, in questo senso, sembra anche una variazione di quel che dice e ridice Riobaldo, nel Grande Sertão: « Vivere è molto pericoloso. »

In questo, anche, mi sembra risiedere la chiave di Suicidi imperfetti. « Imperfetti – spiega Coscia – perché nessun suicidio, nemmeno il più lucido e programmato, si compie in una perfezione d’intenti », nel senso che le tracce del dubbio, cioè della vita, vi si insinuano sempre. Ma anche perché, mi verrebbe da aggiungere con Riobaldo, è la vita stessa a essere imperfetta, insicura, pericolosa appunto, ed è solo da dentro la vita, dunque imperfettamente, che si può decidere di sabotare, di governare la morte, bloccandone per anticipazione la sua indeterminatezza fondatrice. Eppure, è proprio nella sua imperfezione, cioè, molto concretamente, nel suo suo essere limitata dalla morte che, come si è già detto, la nostra vita umana accede a una sorta di immortalità: il limite infatti è anche « il viatico »…. Sì, la morte esalta la vita, la ferma, la rende per sempre (ricopio qui una frase annotata dentro il libro, alla fine dell’itinerario di Cesare…).

Del resto, a proposito di Cesare, cioè Pavese… No, qua mi devo proprio fermare! Perché mi rendo conto che sono scivolato nella sindrome di Pierre Menard, con la tentazione di riscrivere lo stesso libro, quello di Fabrizio Coscia, a modo mio; ogni itinerario mi suscita un ventaglio di riflessioni, di risonanze, e io non ne voglio rivelare più nulla, lasciando all’eventuale lettore il piacere di scoprirne gli itinerari, i risvolti ancora inesplorati. Tuttavia, al di là delle tante altre cose che appunto rinuncio a dire, almeno uno spunto, l’ultimo, il più urgente, vorrei molto velocemente accennarlo, a partire dal personaggio che più di tutti mi ha acceso il desiderio di « riscrivere la stessa storia ».

Nell’itinerario di Paul/ 1 (Celan – Paul/ 2 è, come si è visto, Rée), Coscia mette finemente in rapporto la poesia Corona con la prima sefirah della Cabala ebraica, Keter, appunto « corona », che nella prospettiva della gematria può rinviare al numero 20 (è il valore della lettera Kaf), il quale ricorre nel racconto di Coscia come importante strumento esegetico e anche, per così dire, calendariale (c’è fra altri l’enigmatico « 20 gennaio » che sarebbe inscritto in ogni poesia, di cui Celan parla in occasione del premio Büchner, attribuitogli nel 1960, e che Coscia cerca intelligentemente di interpretare; e il 20 aprile 1970, in cui il poeta si toglie la vita…). In particolare, il 20 « rimanda al Nulla prima della creazione », la quale, di fatto, proprio in quanto « esilio di [da] Dio » introduce alla Storia, al male (e ometto, sia pure a fatica, i momenti cruciali della vita di Celan, ricomposti nel libro, che sostanziano drammaticamente questa prospettiva diciamo astratta). Concretamente, « come continuare a fare poesia dopo Auschwitz »? e per di più nella lingua degli aguzzini? Marina Cvetaeva ha detto che « tutti i poeti sono ebrei », e Coscia la cita, proprio a proposito di Celan, per avvalorare il fatto che « la poesia porta il segno non solo della follia schizofrenica, dell’ine­vitabile dissociazione dall’Altro, ma anche il segno incancellabile dello sterminio. »

Ecco, da qui in poi (l’itinerario di Celan è fra i primi del libro) un pensiero mi si è affacciato nella mente, e si è via via arricchito. Delle diciannove vite di artisti che Coscia sceglie di restituire, tredici sono di scrittori (nel senso di scrittori e scrittrici, ovviamente, e includendo in questa categoria anche i poeti). Per alcuni di essi il legame con l’ebraismo è racchiuso nella biografia, è ovvio, e a volte irrompe prepotentemente nel progetto di scrittura; ma per altri, me ne sono reso conto ad esempio leggendo l’itinerario di Virginia (W…), sembra esistere in modo sotterraneo, sfumato (ci sarebbe da fare una caccia al tesoro attraverso gli indizi che Coscia – Fabrizio, volontariamente? – dissemina nelle pagine che la concernono; in particolare, fra altri temi, mi ha colpito la tensione fra la parola, la parola scritta, con la sua capacità di rendere reale il mondo, sia pur frammentariamente, quindi illusoriamente…, e il silenzio). Da qui, la domanda che mi sono fatto, e faccio anche a te, Fabrizio: non si potrebbe dire, come a continuare l’affermazione di Marina Cvetaeva, che, almeno nel mondo che a torto o a ragione chiamiamo Occidentale, « tutti gli scrittori sono ebrei », o se preferisci, per uscire dalle formule ad effetto, che hanno un legame inevitabile con l’ebraismo, come una sorta di luce che illumina la radicale solitudine in cui ogni scrittore si trova ? Lo dico non per fare una boutade ma, molto semplicemente, perché non conosco, sicuramente non alle origini del nostro percorso Occidentale (che molto deve anche alla straordinaria Grecia dell’« oralità »), un’altra cultura che abbia messo la parola scritta così « religiosamente » al centro della propria identità collettiva, trasformando il leggere e lo scrivere in veri e propri atti sacri, inventando, alimentando lo studio, il commento infinito, e nel contempo questionando il proprio rapporto ai testi. E poi, ripensando sul finire del tuo libro al mistico Celan, e al male della Storia che inevitabilmente accompagna la creazione, mi è tornato in mente il Midrash Rabbah, con un’immagine a commento del primo versetto della Genesi che dà le vertigini: « [In principio] Dio guardava nella Torah e creava il mondo ». Il Libro insomma preesisterebbe e dirigerebbe la Creazione! Nella prospettiva del tuo libro, la scrittura mi è dunque apparsa come un ponte verso il Prima del Tempo, o se preferisci verso il Nulla vagheggiato da Celan, un mezzo capace di penetrare il complesso groviglio di felicità e dolore che caratterizza l’esistenza umana, come anche, potendo idealmente posizionarsi prima della Creazione, di ricominciare a creare, mondi nuovi, diversi, che meglio ci si adattano rispetto a quello in cui ci è stato dato di nascere – in ogni caso, luoghi inventati, impalpabili ma ben reali, che ci orientano, ci aiutano, e ci permettono di vivere. Per altro, il testo, ogni testo, non è solo « creazione », ma anche dialogo, confronto, riscrittura, ricerca di significato…. Insomma, in questo senso, non è lecito pensare che ogni qualvolta ci mettiamo a scrivere, anche senza saperlo, partecipiamo di questo paradigma?

***

P.S. L’appendice, le liste. I 19 artisti di Coscia, di cui come nel suo indice, indico solo i nomi, alcuni sono già sciolti qua sopra, altri dovrebbero, credo, potersi indovinare, per i restanti si potrà eventualmente leggere il libro (già, Fabrizio, perché in quest’ordine? non alfabetico, non cronologico, né per nascita o per morte… forse solo nell’ordine in cui li hai pensati ?): David, Cesare, Francesca, Paul/ 1, Enrique, Virginia, Nick, Yasunari (con Yukio), Philipp, Jean, Stefan, Paul/ 2, Sarah, Emilio, Rachel, Marilyn, Hart, Mark, Marina. Gli artisti che nel libro non ci sono ma avrebbero potuto esserci e a ai quali, con tanti altri, il libro è dedicato: Vitaliano, Sergej, Luigi, Sylvia, Lucio, Walter, Kurt, Violeta, Guido, Stig, Primo, Amelia, Vincent. Alcuni (solo alcuni) degli altri artisti di cui avrei voluto leggere o scrivere io (fra suicidi reali o solo in parte o chi lo sa) : Jimi, Janis, Jim, Salvador, Ingeborg, Hans alias Jean, Simone, e Franz, anche se fisiologicamente muore di malnutrizione e tubercolosi in un sanatorio vicino Vienna, poco prima di compiere quarantun anni, perché più di tutti incarna quel paradigma profondo di cui ho detto alla fine di questo mio testo.

Il mio nuovo compagno di classe

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Foto di Brigitte Werner da Pixabay

di Max Mauro

Tom arrivò a scuola a metà mattina, era quasi ora della ricreazione e tutti fremevano per scappare fuori. Io e Devis avevamo già pronte le squadre per la partita di calcetto con la palla da tennis, tre contro tre, sulla pista di atletica. I limiti delle porte erano fissati con dei sassi che alla fine della ricreazione lasciavamo ai bordi della pista, per evitare che qualcuno ce li buttasse via. Quel giorno avevamo ingaggiato Marco Tollis della prima B, era uno dei migliori calciatori della scuola, ed era la prima volta che giocava con noi sulla pista di atletica. Il quarto d’ora di corse e calci all’aria aperta rubato ai banchi della scuola media era, per noi, la cosa più memorabile della giornata.

Insomma, avevamo dei pensieri importanti a cui badare quando Tom si presentò in classe. Beh, non andò proprio così. Fu il preside, il professor Vidotto, ad entrare in classe e tutti si alzarono subito in piedi, come ci avevano istruiti a fare. Era la lezione di italiano con la professoressa Turchet, l’unica tra i prof che non mi mettesse a disagio, anzi spesso mi faceva stare bene, pur essendo io uno studente inguaribilmente distratto.

Il preside entrò e dietro di lui, nascosto dal suo corpo massiccio, lungo e largo come un armadio a due ante, si intravedeva un bambino, un essere piccolo, ma chiunque di noi sarebbe apparso minuscolo accanto al prof Vidotto, che da ragazzo aveva giocato a rugby perché era cresciuto nel sud della Francia. Noi in prima media non ci consideravamo più bambini, perché le medie erano per gente grande, le elementari erano per i bambini. Però Tom, come venne presentato dal preside, mi apparve un bambino, e un bambino piuttosto strano.

Indossava stivali di gomma, di quelli che si usano per andare nei campi quando piove o nell’orto in autunno. Erano piuttosto sporchi, come se fosse arrivato direttamente dai campi. Magari era quella la ragione per cui non era venuto a scuola al mattino, all’inizio delle lezioni, perché era stato nei campi ad aiutare i grandi. Ho notato prima gli stivali, gialli con macchie marroni di terra, di pantano, e poi la giacca. Era un giaccone, a dire il vero, forse passatogli da un fratello più grande, perché era fuori misura per lui, gli arrivava quasi alle ginocchia e le maniche erano arrotolate all’altezza dei polsi. Gli stivali e il giaccone sono state le prime cose che ho notato quando il professor Vidotto si è scostato per presentarlo.

Ragazzi – disse – questo è Thomas, ma chiamatelo Tom, il vostro nuovo compagno di classe. E’ appena arrivato dal Sud Africa.

Poi il preside rivolse lo sguardo alla prof Turchet, che da quando era entrato stava in piedi accanto alla cattedra immobile come una balaustra, e sorrise, un sorriso piccolo piccolo come quelli che fa il parroco quando passa per le case a benedire (e veramente l’unica ragione per passare è raccogliere la decima). Poi uscì.

Tom rimase in piedi, bloccato nel punto in cui si trovava, a mezza via tra la cattedra e la porta, sull’angolo della lavagna. La sua testa copriva parte delle cose scritte dalla prof Turchet: si leggeva “unzione”, stava spiegando la congi-unzione, la terribile congiunzione.

Tom aveva capelli biondi, lisci e piuttosto lunghi, anzi proprio lunghi. Nessuno di noi portava i capelli lunghi. Io, che avevo i capelli ricci, dovevo tenerli sempre corti. Vai a tagliarti i capelli, diceva mio padre appena notava lo spuntare di un riccio sulla fronte. E io andavo a tagliarli. Mi pareva fosse una cosa giusta da fare, tagliare i capelli, perché faceva contenti gli adulti, e poi gli adulti hanno sempre ragione, pensavo al tempo. Com’era possibile che Tom portasse i capelli così lunghi? Non aveva dei genitori che gli dicevano di tagliarli, che gli davano i soldi per andare dal barbiere o lo portavano direttamente?

Era abbronzato, anche se eravamo a febbraio. Beh, se era appena arrivato dall’Africa, ci stava che fosse abbronzato, pensavo io. Ma che posto era il Sud Africa? Quasi tutti, nella mia classe e nel paese, avevano parenti all’estero, e molti di noi erano nati nell’emigrazione. Io e Devis, per esempio, eravamo nati in Svizzera, come anche Sandra e Maurizio. Marino era nato in Francia, come il prof Vidotto, altri erano nati in Belgio. Io avevo parenti in Canadá e perfino in Argentina secondo una zia che non vedevamo mai e non sono nemmeno sicuro fosse mia zia. Ma il Sud Africa, chi mai andrebbe in Sud Africa, pensavo tra me.

La prof indicò a Tom un posto in uno dei banchi in prima fila e lui si sedette, con il suo giaccone addosso, e la testa coperta di capelli che cadevano anche sul viso. Da quel po’ che riuscivo a vedere del suo viso, mi appariva pallido, nonostante l’abbronzatura. Io al posto suo, con gli occhi di trenta bambini, anzi ragazzi, addosso, sarei diventato bianco come un cencio, sarei sparito sotto il banco. Se fosse arrivato all’inizio delle lezioni sarebbe stato diverso, non avrebbe avuto tutta quell’attenzione su di sé, ma così, a metà mattina, era un po’ difficile. Mi fece pena.

Tom non aprì bocca, nessuno ebbe modo di sentire la sua voce. Forse la prof Turchet, che era un adulto insolito, non voleva imbarazzarlo ulteriormente facendogli domande, e lo lasciò tranquillo. Forse non parlava bene l’italiano, e lei lo sapeva. Magari parlava la lingua del Sud Africa (ma che lingua parlano in Sud Africa? A scuola non lo insegnavano) e il friulano, come tutti gli emigranti, ma non l’italiano.

Suonò la campanella e la classe si svuotò rapidamente.

Non so se lui rimase seduto al banco in prima fila o si alzò come facevano tutti. Io scappai veloce verso la pista di atletica con Devis. L’unica cosa che mi interessava era la partita di calcio con la palla da tennis e mi dimenticai presto del bambino-ragazzo col giaccone troppo grande, gli stivali di gomma, i capelli lunghi, e del Sud Africa.

Il calcio con la palla da tennis era un gioco particolare. Non era come giocare a pallone, gli spazi erano ridotti e la palla piccola piccola, che non potevi distrarti, la dovevi guardare sempre perché non sfuggisse via. Quando la colpivi bene, la colpivi forte, faceva un suono come di uno sparo, PAM!, e schizzava a cento all’ora. Era troppo veloce e c’era il rischio che finisse nel canale che separava la scuola dai campi; quindi, avevamo stabilito come regola di non colpirla troppo forte. Le regole venivano decise dai giocatori, come è giusto che sia, anche se io e Devis avevamo più autorità; io perché avevo inventato il gioco e Devis perché portava la palla, che aveva preso (o rubato) dalla borsa da tennis del fratello più grande.

Quando tornammo in classe, sudati e confusi come sempre alla fine della ricreazione, trovammo Tom seduto al suo posto, nella stessa posizione in cui l’avevamo lasciato, con il giaccone e tutto il resto, non era cambiato niente.

Alla fine della lezione, vidi Alberto Zuffi avvicinarsi a Tom. Zuffi era di San Marchisio, il paese da cui veniva Tom, cioè era il paese di suo padre, che era emigrato da giovane in Sud Africa e ora era rientrato con il figlio. Chi mi aveva riferito la storia non aveva menzionato la madre, forse era rimasta là, forse era morta, nessuno lo sapeva. Zuffi, che era il migliore della classe ma non lo dava a vedere, era uno fondamentalmente buono. Quelli del suo paese mi avevano detto che era il capo dei chierichetti, portava l’aspersorio durante le benedizioni e la croce durante le processioni. Era sempre il primo nelle cose da grandi, ma nel calcio e nello sport, no, non era bravo, non credo fosse interessato. Per questo motivo io e Devis non gli davamo molta attenzione, però riconoscevamo che non era cattivo. Fu grazie a lui che conoscemmo Tom.

Zuffi lo aveva avvicinato perché avevano dei parenti in comune, suo padre era un mezzo cugino di sua madre, qualcosa di simile, e sapeva che sarebbe venuto alla scuola media. Però, anche lui fu sorpreso di vederlo arrivare a metà mattina.

Il giorno dopo, quando entrai in classe, Tom era già al suo posto, nel banco in prima fila. Non aveva più il giaccone addosso, lo aveva appeso sugli appendini lungo la parete, e non aveva gli stivali. Indossava delle scarpe da tennis che un tempo erano state bianche o chiare, ma erano molto usate, annerite sui bordi e sulla punta. Io guardavo sempre le scarpe delle persone, le scarpe mi hanno sempre incuriosito perché dicono qualcosa di quelli che le indossano. Portava un maglione di lana grossa di un colore incerto, un po’ marrone un po’ grigio, e come il giaccone mi pareva troppo grande per lui. Aveva dei jeans consumati sulle ginocchia, mi piacevano i jeans consumati sulle ginocchia, mia madre non mi avrebbe permesso di portarli. L’unica cosa che non era cambiata erano i capelli, lunghi e biondi, che gli coprivano parte del viso, e forse lui voleva così.

A ricreazione Marino invitò Tom a giocare con noi. Aveva parlato con Zuffi, erano dello stesso paese e Zuffi gli aveva detto che Tom giocava a calcio. Sul momento la sua iniziativa mi spiazzò, come si permetteva di invitare gente senza consultare me e Devis? Però quel giorno Uboldi era malato e ci mancava un giocatore, quindi non ne feci un problema.

Ma cosa parla? Chiesi a Marino.

Parla italiano – disse Marino – ma lo parla male. Il friulano non lo sa.

Ci presentammo e gli spiegai che nel nostro gioco non c’erano ruoli fissi, si giocava in tre e tutti facevano tutto, difensore, attaccante, portiere; il portiere vero e proprio non c’era perché le porte erano piccole, mettevamo i sassi a un mezzo passo di distanza uno dall’altro.

Ok, giusto – disse.

Mi accorsi che diceva “ok, giusto” per qualsiasi cosa. Tom era mancino e questo lo rendeva speciale. Nella mia particolare immaginazione delle doti umane, essere mancino era una delle più desiderabili. Nel calcio il mancino ha un vantaggio naturale perché la grande maggioranza dei giocatori è fatta di destrimani. Di solito i mancini sono dei buoni giocatori, dei giocatori creativi. E sono bravi anche a disegno, almeno quelli che conoscevo io. Io invidiavo i mancini. Però Tom era un mancino atipico. Era facile intuire quello che avrebbe fatto con la palla, non era molto agile. Però metteva foga, era una furia nel gioco, e voleva calciare a tutti i costi. Mi ero scordato di spiegargli la regola che proibiva i tiri troppo forti, soprattutto se la palla era alta. Alla prima occasione che la pallina da tennis rimbalzò di fronte a lui, mirò la porta e BAM!, la colpì con tutta la potenza che aveva in corpo.

Noi tutti ci fermammo, temendo quello che sarebbe successo. La pallina sfiorò i limiti immaginari della porta e continuò la sua corsa oltre la pista di atletica, attraverso la siepe, direttamente nel canale. NOOO, il canale! Urlò Devis. Senza pensarci su inseguimmo la pallina e Tom ci venne dietro, ignaro di quello che stava succedendo. Era troppo tardi, la pallina già galleggiava sull’acqua scura del canale, portata avanti dalla corrente. Il livello dell’acqua era basso, forse cinquanta centimentri, e il canale era largo circa due metri. La pallina navigava al centro, la seguivamo dalla riva a piccoli passi veloci ma nessuno sapeva come recuperarla.

DRIIIIIN. La campanella annunciò la fine della ricreazione. Proprio in quel momento Tom saltò dentro il canale. Con un rapido movimento del braccio recuperò la pallina e risalì la riva. Tutto accadde in un attimo. Strizzò la pallina dentro la mano, stringendola forte come fosse fatta di pezza, poi la diede a Devis, con in viso un’espressione tranquilla, di uno abituato a risolvere problemi. Gli altri erano già rientrati e anche noi ci avviammo veloci verso l’edificio scolastico.

Seduto al banco, il respiro ancora affannoso per la corsa e un po’ stordito per quello che era successo, rivolsi lo sguardo verso i banchi in prima fila. Sul pavimento, attorno alla sedia di Tom, c’era una chiazza d’acqua che sembrava allargarsi. I suoi pantaloni erano zuppi dal ginocchio in giù, le scarpe gonfie e gocciolanti. Lui, impassibile, guardava dritto verso la cattedra. 

“La fabbrica dell’uomo occidentale” di Pierre Legendre

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[Pubblichiamo due estratti dal volume di Pierre Legendre La fabbrica dell’uomo occidentale seguito da L’uomo come assassino, a cura di Massimo Rizzante, Mimesis, 2025. Il primo estratto è parte del saggio introduttivo del curatore, e il secondo è tratto da L’uomo come assassino.]

Un ribelle conservatore

di Massimo Rizzante

Chi è stato Pierre Legendre?

La miglior definizione ce l’ha data lui stesso: “Un uomo del passato e del lontano avvenire”. Ergo: un uomo non troppo amato nel corso della sua vita. Un solitario con pochi amici, dispersi in vari continenti. Un uomo refrattario ai conformismi. Un intellettuale originale, versatile, polimorfo, un “animale parlante” difficile da classificare in quel parco umano di mode e spirito gregario che è il mondo universitario. E soprattutto uno studioso ai margini di tutti i movimenti composti da intellettuali in carriera, quasi sempre in vena di prediche.

Un ribelle, insomma, in aperto dissidio con il presente in virtù del suo sguardo profondo e ine- dito gettato su tutta la tradizione occidentale, da Atene a Roma, da Firenze a Parigi, allo scopo di conservarne i vincoli affettivi, morali e sociali contro la loro rapida dissoluzione – tanto dissennata quanto entusiasta – in nome di diritti, leggi, valori delle cui nozioni non si desidera più rintracciare né origini, né genealogie.

Ma un ribelle conservatore. Più che un para- dosso, una sfida, la sola possibile, nella nostra epoca dei “paradossi terminali” (Milan Kundera) in cui “l’animale che parla”, cioè l’animale diven- tato uomo attraverso la parola, sembra volersi congedare da ogni limite logico, semantico, istituzionale, per correre a briglie sciolte verso la libertà.

(…)

Mi chiedo: una volta aumentata artificialmente la nostra intelligenza, una volta privati di alcuni arti e organi e sostituiti da arti e organi biosintetici, una volta clonati, avremo ancora bisogno di una ragione per vivere? Avremo ancora bisogno del mistero? E di quel mistero chiamato alterità?

C’è una Urszene al centro dell’intera riflessione antropologica di Legendre: la scena dello Specchio:

Quando mi guardo allo specchio, si instaura una scena a tre: c’è un individuo che si guarda, il suo cor- po che si presenta; e poi, c’è l’immagine nello spec- chio, un’immagine che è la metafora dell’inaccessibi- le; e c’è il terzo termine, lo spazio insuperabile, che è la metafora del potere assoluto, lo Specchio.

L’universo umano è sempre diviso. L’uomo è “l’animale parlante” che coglie le cose attraverso il linguaggio. Mentre nomino una cosa, me ne separo e mi separo da me stesso. Il linguaggio è il nostro “sfregio”, come dice Legendre, il nostro marchio primordiale. Ciò significa che “l’animale parlante” intrattiene con il mondo un legame di identità e alterità e che ogni individuo intrattiene con sé stesso un legame della stessa natura.

Mi guardo allo specchio e non mi riconosco. Mi guardo in una fotografia e mi chiedo chi sia quell’uomo con gli occhiali che mi osserva da lontano. Ascolto la mia voce registrata e non la riconosco. Chi è che sta parlando? Io sono la mia immagine (o la mia voce), ma anche un altro, uno sconosciuto. Chi tiene insieme questi due individui? Legendre afferma: un terzo termine, che però deve rimanere oscuro, inviolabile e che è “metafora del potere assoluto”, lo Specchio. Lo Specchio è il legame dogmatico e istituente che permette la relazione tra me e l’altro che sono e che non conosco. Ma, aggiunge, è anche il vinco- lo giuridico tra creditore e debitore che lega due individui e che fonda una civiltà. “La verità dello Specchio non si discute”. 

Che cosa succede in una civiltà la cui ideologia individualista distrugge tale logica ternaria? Che cosa accade quando questa civiltà si mette a discutere l’autorità dello Specchio, facendosi portatrice del tutto è possibile, dell’assenza di ogni limite, dell’abolizione del mistero?

Capita quel che descriveva poeticamente il mito di Narciso: lo Specchio è in qualche modo dissolto, la struttura dell’identità è compromessa. L’esperienza istituzionale del XX secolo prova che uno Stato, come un individuo, può delirare […] sotto i nostri occhi l’ideologia individualista funziona come un narcisismo di massa che fa dell’individuo “un mini-Stato” (Wim Wenders), vale a dire un essere che è tutto per sé stesso, che è Dio affrancato dalla logica dello Specchio.

*

L’uomo come assassino

di Pierre Legendre

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L’assassinio abita nello spirito dell’uomo. L’uomo pensa ad uccidere. Sogna di uccidere. Commemora i massacri.

Sin dall’inizio della storia dell’umanità e fino ai nostri giorni, l’assassinio fa parte delle abitudini sociali e delle grandi messe in scena religiose e politiche.

L’uomo lo sa, come sa che sorge il sole e che scende la notte.

Ma all’improvviso… Sì, all’improvviso! La terra interiore si mette a tremare. Ecco che l’individuo, un uomo come tutti gli altri, sente tintinnare i sonagli della follia: si suicida, uccide qualcuno, o uccide qualcuno e poi si suicida. E qui ha inizio, in tutte le civiltà, il mistero dell’assassinio.

Ricordo il mio stupore infantile. I gendarmi erano venuti nella mia scuola. Indagavano su un assassino, un ex alunno: che genere di bambino era? Quali erano i suoi voti? E le sue relazioni con i compagni? Un mondo, allora, mi si è aperto: il lato oscuro dei nostri atti – il marchio del sospetto, i segni premonitori del crimine, la vita del bambino criminale.

Mi domandavo: coloro che avevano crocefisso Gesù, avevano ricevuto bei voti? Erano bravi ragazzi? Le cose si confondevano nella mia mente di scolaro.

Qualcosa non quadrava. Presentivo vagamente che c’erano due specie di omicidi. C’è, infatti, omicidio e omicidio. Un omicidio che non è davvero tale: quello che esegue il boia, il soldato, il militante di una causa – un omicidio preventiva- mente giustificato, un lavoro, insomma, un gesto professionale. E c’è un altro omicidio, quello vero, commesso dall’assassino, che chiamiamo crimi- ne; c’è il gesto di uccidere, ma di uccidere per conto proprio.

Nella storia che racconterò – una storia tratta dalla cronaca – la frontiera tra l’omicidio che non è davvero tale e l’omicidio commesso da un assassino sembra venire meno.

Il giorno 8 maggio del 1984, un giovane caporale dell’esercito canadese faceva irruzione nel Parlamento del Québec con l’intenzione di ammazzare tutti i componenti del governo. Correndo attraverso i corridoi e sparando con un’arma automatica su tutti coloro che incrociava, Denis Lortie giunse ben presto nella Camera dei de- putati. Quel giorno, però, in Parlamento non si teneva nessuna sessione e la sala era vuota. Così andò a sedersi sulla poltrona del presidente. Ne seguì una trattativa per disarmarlo. Dopo la sua resa, si contavano tre morti e otto feriti.

Durante le prime ore, si parlò di attentato politico. L’attentato, per certi aspetti, risultava comprensibile; tanto più che, secondo un sondaggio realizzato da una radio locale, la maggioranza dei cittadini sembrava approvarlo.

Tuttavia, ci si dovette ricredere, arrendersi all’evidenza: il soldato-giustiziere non aveva agito per nessuna causa. Era appena salito alla ribalta commettendo un crimine assurdo. Armato fino ai denti, aveva ucciso in un contesto sontuoso e monumentale. Ma i morti e i feriti che giacevano a terra non erano attori. Esausto e ammanettato dai poliziotti a una sedia, Lortie non era altro che un relitto, un essere sollevato ma sconvolto, un ordinario assassino.

Era pazzo? Era sano di mente? L’affare Lortie aveva inizio. Un caso classico per la polizia e i giudici, un boccone prelibato per gli squali della cronaca, una vicenda oscura per tutti noi, perché racchiude la miseria del nostro tempo – la mise- ria dei senza legge del nostro tempo.

2

Quando ho cominciato a interessarmi al processo istruito contro Lortie, ho aperto i diari di Dostoevskij e ho letto: “È possibile attraversare un fiume su una trave, ma non su un truciolo di legno”.

Allora ho pensato: quel che mi affascina è proprio questo: la catastrofe, osservare la catastrofe. Ho guardato Lortie come si guarda un naufrago dopo che è annegato. Guardiamo con compassione un essere umano che non c’è più; ma anche con il timore e la furtiva soddisfazione di non essere lui, di appartenere ancora al mondo dei vivi. C’è lui e ci sono io; l’assassino e noi, gli innocenti, che attraversiamo la vita su una trave senza andare incontro alla catastrofe.

Mi domando: che cosa ci lega, che cosa mi lega a quell’uomo?

Perché l’intera società – la società degli innocenti – si applica con tanta passione a scrutare l’assassino e a soppesarne il crimine, a mettere in scena, in quel teatro che è la Giustizia, la catastrofe di qualcuno?

Perché, ad ogni crimine, ad ogni assassinio, siamo colpiti nel nostro intimo più profondo, più segreto, più oscuro: nello spazio di un istante ci rendiamo conto che potremmo essere quell’uomo, quel naufrago, quell’assassino. Ad ogni crimine, ad ogni omicidio commesso, bisogna apprendere di nuovo il divieto di uccidere.

Ecco perché le società organizzano delle messe in scena in cui si recita il duello tra l’assassino e tutti gli altri.

Recitare tale duello significa, nella cultura occidentale, istruire un processo che ricordi, a nome di tutti, la scena dell’omicidio compiuto, e fare in modo che l’omicida risponda del suo atto davanti a noi.

Siamo davvero consapevoli che un processo contro un assassino non è un regolamento di conti, ma un rituale di separazione dal crimine? Siamo sufficientemente civilizzati per riconoscerlo? Orrori senza nome, vendette di massa, umiliazioni, enormità abolizioniste e autocompiacimento di coloro che, in nome della scienza, pretendono di gestire la violenza, abomini sui crimini e sui criminali; tutto ciò avrà mai fine?

Per l’assassino, rispondere del suo gesto vuole dire separarsi dal suo atto di morte e, come diceva Dostoevskij, che conosceva bene la crudeltà del suo tempo, riconciliarsi, foss’anche in carcere, con gli uomini.

Il processo Lortie ci impartisce una lezione su cui meditare.

Dato che la strage si era svolta nelle aule del Parlamento del Québec, diverse telecamere ave- vano registrato una parte dell’attentato. Durante il processo la trasmissione coinvolse Lortie in un faccia a faccia pubblico con sé stesso: il colpevole Lortie guarda qualcun altro, guarda l’assassino Lortie mentre dialoga con un funzionario del Parlamento che cerca di disarmarlo.

Estratto dalle riprese del video di sorveglianza del Parlamento del Québec

Lortie è seduto sulla poltrona del presidente.

Lortie: Sono pronto. Non esiterò, cazzo!

Lortie spara alcuni colpi di arma da fuoco.

Al questore del Parlamento René Jalbert che sta entrando:

Lortie: Signore, trovi un riparo. Jalbert: Come va?

Lortie: Sono un po’ fuori, cazzo. Non le pare? Jalbert: Beh, sì…

Lortie: Ti sorprenderò, appartengo all’esercito. Jalbert: Anch’io sono un soldato.

Lortie: Ne è sicuro? Jalbert: Sì.

Lortie: Che pensa dell’esercito?

Jalbert: Ho passato trent’anni nell’esercito. Lortie: Il mondo ride del nostro mondo, cazzo.

Jalbert: Che cosa ci fa lì?

Lortie: Cosa succede qui? Ci sono merde di poliziotti come lui. 1, 2, 3, 4, 5 … 29.

Jalbert: Vuoi che andiamo a parlare fuori? Lortie: Di che cosa vuoi che parliamo?

Jalbert: Volevo sapere perché distruggi tutto? Lortie: Non distruggo, volevo uccidere. Ma non c’è nessuno…

Jalbert: Ah! Sei arrivato troppo presto. Lortie: Che cosa vuol dire troppo presto? Jalbert: Oggi non cominciano prima delle 14. Lortie: Mi avevano detto alle 10.

Jalbert: No, alle 10 cominciano domani.

Lortie: Ah è così! E adesso che faccio? Che ne pensa come soldato?

Jalbert: Beh, come soldato, se fossi in lei…

Dopo un po’, Lortie accetta di lasciar uscire le persone che erano ancora nell’aula.

Lortie: Uscite. Jalbert: Esca, signora.

Lortie: Escano quelli che si sono nascosti. Jalbert: Uscite tutti.

Un poliziotto interviene dal balcone.

Lortie: Vuoi parlare con me. Come mai? Che cosa ho fatto?

Policier: Perché lo hai fatto? Lortie: Questa è la politica! Policier: La politica?

Lortie: Se ne vada.

Dialogo a bassa voce tra Lortie e Jalbert. Jalbert: Dai, andiamo. Denis, Denis, il tuo ber- retto.

Lortie: Ah sì, il mio berretto. È l’esercito. Jalbert: Così sei un buon soldato.

Nel corso del processo ci fu un momento in cui si raggiunse il culmine del pathos: Lortie si allontanava dalla morte sotto lo sguardo di tutti.

Un giornalista riassume così il cambiamento dell’imputato: “Mentre cercava le parole per spiegare al suo avvocato il significato di certe espressioni presenti nel video, Lortie, che era parso calmo per tutta la proiezione (circa quaranta minuti), è crollato a causa dell’eccessiva pressione. In piedi, al banco dei testimoni, ha prima abbassato la testa per alcuni secondi e, senza dire una parola, ha lasciato l’aula delle udienze piangendo e disperandosi, per poi dirigersi verso l’anticamera degli imputati. I due agenti della sicurezza che lo controllavano lo hanno seguito e, a un certo punto, lo hanno sentito emettere nell’arco di pochi secondi un grido acuto e alcuni suoni incomprensibili. Si è appreso più tardi che Lortie era stato isolato in una stanza e che si era a poco a poco calmato. Dopo una sospensione di quarantacinque minuti, ha riguadagnato il banco dei testimoni, apparendo più disteso”.

Così si è spezzato il giogo della follia.

Lortie, davanti al giudice, affermerà: “Non posso dire ‘non sono io’. Sono io. Che cosa vuole che le dica di più? Mi ha fatto davvero male quando ho visto il video. Bisognava che lo vedessi. Bisognava che attraversassi questo momento”.

(…)

Una festa è una festa è una festa è una festa…

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Note sulla Festa di Nazione Indiana, Bologna 2025

di Redazione

Bisogna pur incontrarsi, parlarsi, abbracciarsi e sorridere. Noi di Nazione Indiana, almeno una volta all’anno, cerchiamo di farlo con le nostre Feste. Quest’anno la Festa di Nazione Indiana si è svolta nello spazio di ⇨ Porta Pratello di Bologna, lo scorso sabato 14 giugno. Eravamo ospiti di ⇨ Grisù / Festival di scritture contemporanee – Lo Spazio Letterario, che ringraziamo per come ci hanno accolti e fatto sentire a casa in un luogo, Porta Pratello col suo cortile e i suoi chiostri, che l’accoglienza e l’ospitalità le ha nella propria storia. Questo è un pezzo in progress, seguiranno video e altre foto degli incontri.

Il talk del mattino

Per il momento confermiamo che nel talk mattutino abbiamo parlato di democrazia e pensiero critico rispetto alla scrittura sui social. Il tempo dei social: scrivere sulle piattaforme occidentali. Democrazia e pensiero critico nell’era di Musk. Andrea Inglese, Giorgio Mascitelli, Mariachiara Brunetti, Giorgiomaria Cornelio e Helena Janeczek hanno discusso di tecno-oligarchi, idiozia o superomismo dei suddetti personaggi, il loro rapporto con Trump e con… noi. Ossia: come abitare le piattaforme social e digitali anche quando ti “shadowbannano”, quando ti rendono invisibile a causa dei tuoi contenuti non allineati o allettanti. Una soluzione potrebbe anche essere, come suggerito da Gianni Biondillo, quella di “fregarsene”.

Il dibattito del pomeriggio

Nel pomeriggio abbiamo tenuto il talk su Il tempo ereditato. Una nuova generazione e il “compito” di raccontare la Resistenza. Abbiamo parlato del concorso Staffetta partigiana per under 35, promosso da Nazione Indiana in occasione dell’ottantesimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo. Abbiamo analizzato i temi dei racconti premiati, la presenza/assenza della violenza resistenziale, il rapporto con gli archivi e con i documenti, gli strumenti per costruire insieme storia e memoria, ossia per fare public history della Resistenza in un momento in cui la Resistenza sta, a suo modo – in forma di racconto, celebrazione, interesse – tornando nell’orizzonte comunitario di italiane e italiani che si riconoscono nei valori dell’antifascismo. Al dibattito hanno partecipato Gianni Biondillo, Davide Orecchio, Orsola Puecher e Davide Sparano dell’Istituto storico Parri. E ci ha raggiunti con la sua famiglia Alice Ghinzani, la più giovane tra le autrici premiate, per il racconto Jenide Russo.

Letture serali

In serata è scattato il momento performativo. La scena del tempo. Tra passato e presente. Performance e letture di:
– Mariasole Ariot, con Le sale operatorie di esistenze, ispirato dalla lettura di Guerra Totale di G. Gribaudi.
– Francesco Forlani, con Les quatre ciudades (dall’antologia Babele a cura di Enzo Campi) e Pazza l’idea, per Roberto Lordi nell’antologia La stessa cosa del sangue.
– Giorgio Mascitelli, col racconto inedito Il partigiano nella legnaia.
– Orsola Puecher, con ALICE VENTURA BATTAGLIA morta il 5.3.1945 a Ravensbrück “…per il suo ideale partigiano” nell”antologia La stessa cosa del sangue.
– Ornella Tajani, con Gli spazi del sonno di Robert Desnos.

La chiusura su Luigi Di Ruscio

La serata si è conclusa con la proiezione di La neve nera: Angelo Ferracuti ha introdotto il film su Luigi Di Ruscio, in dialogo con Davide Orecchio. Chiudendo così un discorso sul tempo del lavoro e letteratura operaia che era stato già tema del talk pomeridiano con Fabio Franzin, Stefano Modeo, e moderato da Stefano Colangelo.

Davide Susanetti: «Vertigine della soglia»

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di Davide Susanetti

È uscito per le Edizioni Tlon il viaggio iniziatico Vertigine della soglia di Davide Susanetti.

Ospito qui un estratto, in anteprima.

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Quando si pronunciano le parole mistica e mistero, un alone di vaghezza sembra sprigionarsi da esse. E la vaghezza, a propria volta, suscita incerti intrecci di fascinazione e di diffidenza. Eppure, a osservare l’etimo greco da cui esse si originano, un atto estremamente semplice le determina. Ed è in questa stessa semplicità che riposa il loro dono, la promessa cui fanno cenno. La radice di questi termini si connette al verbo mýein, che significa “chiudere”, “serrare”. È questo l’invito che le parole sussurrano. Chiudere gli occhi con cui, nella veglia, si osserva quel che appare mondo e se stessi. Chiudere la bocca da cui sprigionano le parole che sempre si pronunciano per chiedere o rappresentare quanto sta attorno e per dire, al medesimo tempo, chi e come si ritiene di essere. Chiudere è un gesto d’interruzione. Un atto con cui si produce uno strappo, uno scarto nel fluire dell’esistenza e delle occupazioni a cui abitualmente si attende o da cui si è presi. Il sigillo serra le palpebre e fa muta la lingua. Arresta e sospende, paralizza e disarticola. E in ciò si compie il transito di una soglia che allontana e separa nello spaesamento e nella vertigine, nell’assenza e nel vuoto. Una soglia al di là della quale tutto ciò che si vede, si dice e si pensa cade e dilegua così come l’azione si disorienta. Non c’è più ciò che c’era, così come non si è più ciò che si era. Non si sa dove ci si trova né se vi sia una direzione verso cui muovere. Nessuna parola soccorre dalle labbra impedite a ogni suono.

Ma la cessazione che il passaggio produce, l’inceppo che la chiusura impone non è che la condizione per riportarsi, con un’inversione, a un punto che preceda. Non è che il mezzo per disfare ciò che è stato, per scomporre ciò che si è fissato in un modo o in una figura, in un orizzonte o in un discorso. L’arresto che frange il continuo si rovescia in un movimento che è possibilità di riconfigurare e riplasmare ogni cosa da capo. L’assenza del buio e del silenzio si converte nel levitare di una presenza ulteriore, altra e diversa da tutto ciò che non ha, in nessun momento, conosciuto quel medesimo transito. La chiusura, che nella separazione e nell’isolamento segna una fine, è il gesto stesso che incessantemente apre alla virtualità di un nuovo inizio. Nel chiudere sprigiona ciò che infine dischiude gli occhi e la lingua alla visione che non è stata ancora vista, alla parola che non è stata ancora pronunciata. Un gesto semplice perché è semplicità ciò che sta all’inizio, prima che tutto si complichi e si confonda. Un gesto arduo e penoso perché la discontinuità che sospende è perdita e paura.

A ciò che mistica e mistero sottendono si lega anche un’altra parola preziosa, iniziazione, su cui occorre indugiare. Nel nostro dire, iniziare evoca il dar principio a qualcosa che è nuovo o semplicemente ulteriore, a qualcosa che prima non si era ancora tentato o che, fino a quel momento, non aveva avuto ancora modo di concretarsi e di essere. L’inizio di un’azione a partire dalla stasi o dall’abbandono di altro che si stava facendo. L’inizio di una stagione o l’inaugurarsi di un periodo che rechi eventi o colori differenti da quanto precede. Eppure, anche qui, l’etimo irraggia un valore che sposta la prospettiva. All’origine vi è il latino inire, “entrare”, “fare ingresso”. Iniziazione è quel movimento che conduce a varcare un confine, a compiere un passaggio. È ingresso in un dominio o in una sfera altri da quel che stava fuori. E altro è anche tutto ciò che là avviene ed è custodito. Un altro che rende altri, tanto decisivo è quell’entrare all’interno.

Ma, da capo, per comprendere, occorre intrecciare le lingue fra loro, osservando come l’una completi l’altra. Perché, quel che, da un lato, si dice come ingresso corrisponde, dall’altro, a quanto ne suggerisce il modo e ne fissa la direzione. In greco, infatti, quel che l’iniziazione comporta si stempera in due parole distinte a segnare il cammino. La prima, mýesis, viene sempre da quel chiudere da cui tutto si diparte. La seconda, teleté, in modo assai trasparente, indica quel che si raggiunge: il télos, il compimento, il fine e la meta, che mai neppure si immaginava.

Iniziazione è dunque l’atto stesso di entrare in quella dimensione di mistica chiusura che prelude alla propria compiutezza. Come forma che si cancelli e si disfi per ridisegnare la propria perfezione. Come ferita sanguinante che rimargini in nuovo e inaudito tessuto. Perché è ferita ciò che attende all’ingresso. Taglio che incide. E non c’è altro modo per generare e rigenerare ciò che è ancora e sempre imperfetto.

In che modo porsi sulle tracce di questa soglia? Forse si può farlo partendo da quell’orizzonte greco cui le parole e gli etimi appartengono. Il volto di un dio, alcune figure e posture dell’anima, le rifrazioni del simbolo, le immagini della mente e dell’uno possono costituire le tessere provvisorie di un viaggio, i segnavia di un territorio da esplorare. Un territorio che per sua natura predilige le allusioni e le forme indirette, i frammenti e le schegge, i discorsi che suonano, a loro volta, sospesi e inceppati.

Nel muovere da una stazione all’altra, le parole finiranno così per ondeggiare tra intensità e toni diversi, perché non tutto può essere evocato nel medesimo modo. Parole ora piane e pacate, ora mosse e scomposte in ciò cui rimandano. E le voci stesse di antichi sapienti, convocati implicitamente a fare da guida, diverranno talora risonanze ed echi della medesima voce che racconta e ricorda in un gesto di intima prossimità. Come figure, a loro volta, di un paesaggio interiore o di un senso che si spartisce nelle viscere per diventare cosa propria che agisce. Ventidue stazioni scandiranno il cammino. Ventidue come gli Arcani maggiori dei Tarocchi e le lettere della lingua sacra. Cenni e movimenti per ritrovare il seme di un inizio in quanto sembra finire e, in realtà, mai finisce. Un accelerato oltrepassamento dell’umano è quanto i tempi lasciano intravedere. Ma l’oltrepassamento non è ciò che, a loro modo, la mistica e l’iniziazione abitano e annunciano?

(Incamminarsi per queste vie è scelta individuale che comporta un radicale distacco dalla dimensione di quel che si potrebbe chiamare pólis, con tutto ciò che tale parola evoca in termini di dinamiche, rapporti e istituzioni. Un distacco dalle aggregazioni e dai modi del sociale e di quanto è ordinariamente comune e condiviso. Uno scarto dal linguaggio delle rivendicazioni e dal bisogno di essere riconosciuti. E tuttavia occorre chiedersi se non sia proprio questo l’unico modo per rigenerare, a un altro livello, qualcosa che sia pólis, ora che tutte le categorie usuali del politico mostrano la loro inane consunzione. Il salto e il vuoto del passaggio mistico come unica condizione possibile di fare comunità: a partire dal viaggio che ognuno, per sé, avrà compiuto).

Dagli Oscar a Cannes, il cinema che racconta il genocidio a Gaza

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Giuseppe Acconcia

In questi giorni la rappresentazione cinematografica della guerra a Gaza al festival di Cannes è passata per il tributo alla fotogiornalista palestinese Fatima Hassouni, raccontata nel documentario di Sepideh Farsi “Put your soul on your hand and walk”. Hassouni è stata uccisa dall’esercito israeliano il giorno dopo aver saputo della partecipazione del film al festival di Cannes dove era in gara anche il film palestinese di Tarzan e Arab Nasser “Once upon a time in Gaza” nella sezione Un certain regard. Il film-maker israeliano Yuval Abraham ci racconta il suo impegno giornalistico e di regista, insieme a Basel Adra e Hamdan Ballal, con il collettivo che ha realizzato “No other land”, il documentario sugli attacchi che non si fermano contro la comunità palestinese di Masafer Yatta in Cisgiordania ad opera di coloni e dell’esercito israeliano. Il film richiama i temi del roadmovieRoute 181 – Fragments of a Journey in Palestine-Israel” (2003) di Eyal Sivan e Michel Khleifi.

Come sono cambiate le cose dopo la vittoria di “No other land” agli Oscar del 2025?

Non avremmo mai immaginato di vincere l’Oscar e che avremmo fatto un film che sarebbe stato visto da milioni di persone. Eravamo sempre preoccupati che solo i nostri familiari l’avrebbero visto e che nessuno gli avrebbe dato importanza. È interessante perché abbiamo iniziato, sia io che Basel, come giornalisti, scrivevamo articoli per il magazine +972 e sui social media, ed eravamo molto frustrati. È in atto una politica di pulizia etnica dell’intera comunità di Masafer Yatta e sta succedendo nel tempo, inizialmente molto lentamente ora molto più velocemente. E i media non ne hanno parlato o non danno attenzione a quello che accade. Quindi non abbiamo mai neppure sognato che avremmo fatto un film e che sarebbe stato visto da così tante persone. La cosa triste è che la realtà sul campo sta solo peggiorando.

Si parla molto di Gaza ma molto poco di Cisgiordania, come vivono i palestinesi a Masafer Yatta?

Posso raccontare quello che è successo a Hamdan Ballal, uno dei co-registi. Due settimane dopo essere rientrati da Los Angeles, dagli Oscar, un gruppo di coloni e soldati sono andati nel villaggio di Hamdan. Hanno attaccato il villaggio e sono entrati nella sua casa, dove si era rifugiato per proteggere sua moglie e i suoi figli piccoli. Lo hanno colpito, lui ha detto che pensava che sarebbe morto. È stato portato dai soldati in una base militare, dove è stato torturato. E gli hanno detto che tutto questo stava accadendo a causa degli Oscar. Questo evento ha avuto una grande attenzione mediatica. Ma in realtà a Masafer Yatta questi attacchi avvengono sempre, contro palestinesi che non hanno vinto l’Oscar e nessuno ne parla. Questo sta accadendo da gennaio scorso. Ci sono stati circa cento attacchi di coloni e soldati contro questa comunità e in tutta la Cisgiordania. In quest’area, l’area C, il 60% della Cisgiordania, dove ci sono piccole comunità palestinesi circondate da colonie israeliane. Queste sono le comunità più vulnerabili in Cisgiordania. Sono sotto il diretto controllo militare. E l’obiettivo è molto chiaro: trasferirli e prendere il controllo della terra. Sono molto preoccupato per Masafer Yatta, con Trump al potere negli Stati Uniti fino al 2028, temo che questa comunità verrà completamente distrutta. Questo è il motivo per cui credo che l’attivismo dal basso e la pressione internazionale di cui abbiamo bisogno è molto importante perché stiamo parlando letteralmente della sopravvivenza di questa comunità in questo momento.

Come giornalista investigativo e regista, quale responsabilità personale ha sentito nel raccontare questa comunità?

È una storia molto personale. Credo che il cambiamento politico inizi sempre da qualcosa di personale, mi ha spinto a studiare arabo e a incontrare Basel, una persona che ha la mia stessa età. Lo guardo e vedo un uomo molto simile a me. Ma viviamo in un sistema in cui siamo controllati da Israele ma solo io posso votare per le leggi che controllano la sua vita. Basel vive sotto controllo militare, un diverso sistema legale, senza un aeroporto. Questa realtà va avanti da decenni con due gruppi di persone controllate da uno stato diviso in due sistemi legali. I palestinesi sono discriminati in ogni singolo aspetto della vita. Questo è completamente ingiusto, deve finire. Non parliamo di teoria politica, ma è Basel, il mio amico, a cui tengo, e vedo quello che succede alla sua famiglia. Mi colpisce, mi fa sentire responsabile, prima di tutto verso la mia società, di fare giornalismo in lingua ebraica così sappiamo cosa viene fatto a nome nostro. Ma è stato anche importante mostrare nel film il potere sbilanciato, lo stato di apartheid, la diseguaglianza in cui siamo nati, sperando in un futuro diverso, dove c’è uguaglianza, giustizia e libertà per tutti, israeliani e palestinesi. E non una situazione dove un gruppo ha la supremazia su un altro gruppo. Siamo uniti in questa battaglia, sono i nostri valori condivisi. Questo ha reso il film possibile. Parliamo di coesistenza tra israeliani e palestinesi, anche se questi ultimi sono minacciati nella loro stessa esistenza. Con questo documentario presentiamo una diversa visione di futuro non basato sulla supremazia ma su una soluzione politica, sull’uguaglianza, su diritti nazionali reciproci e sicurezza. E così questo film è in sé una forma di resistenza per noi.

Crede che il suo lavoro abbia creato una diversa consapevolezza nella società israeliana delle conseguenze dell’occupazione?

Onestamente penso di no. Abbiamo forse avuto effetto su alcuni individui, ma il sentimento politico generale nella società israeliana, soprattutto dopo il 7 ottobre 2023, si è spostato molto di più verso destra. Sento che gli israeliani come me che difendono i diritti umani sono molto deboli all’interno della società israeliana, sono una minoranza. E credo che la comunità internazionale non ci aiuti, ci indebolisca, non ponendo alcuna pressione sul governo israeliano, nessuna linea rossa anche quando è chiaro quello che sta accadendo a Gaza dove in pochi giorni sono stati uccisi centinaia di bambini. Questa è una routine e sta indebolendo le persone che combattono per qualcosa di diverso. E così continuo a fare il mio lavoro, sono un giornalista, un film-maker, questa è la mia responsabilità, ma penso che senza aiuto esterno sotto forma di sanzioni e pressioni, il mio impegno non sarà efficace tanto quanto dovrebbe essere.

Eppure, il genocidio a Gaza va avanti, la vostra comunità è stata indebolita, è ottimista, pensa ancora che le persone che vedono questo documentario reagiranno in qualche modo?

Basel sostiene sempre che non c’è molta speranza perché è difficile averne in questo contesto. È come se ogni percorso sia bloccato. E ho questa terribile sensazione che le cose possano solo peggiorare. Penso che siamo in una situazione di sopravvivenza a questo punto. È difficile parlare di speranza, dobbiamo cercare di minimizzare il numero di bambini uccisi. Come israeliano sono in una posizione molto più privilegiata. E ho usato questo privilegio per dare un lato israeliano a questo film che lo ha aiutato a vincere un premio importante come l’Oscar. Però come Basel, continuerò a battermi perché non ho il privilegio di fermarmi. La mia speranza è più un sentimento di fede che ci siano cambiamenti nella storia e solo guardando in retrospettiva realizziamo che il nostro lavoro, questo lavoro collettivo, ha prodotto un cambiamento. Il momento più difficile è stato quando dopo il festival di Berlino mi hanno accusato di essere “antisemita”, ho sentito la violenza su di me e gli effetti sulla mia famiglia che ha dovuto per alcuni giorni lasciare la nostra casa. È stata la prima volta che ho sentito una violenza fisica nei miei confronti. Normalmente ogni volta che esprimi un’opinione in minoranza per la tua società vieni rifiutato più o meno fortemente. E non è facile. Sono cresciuto nella società israeliana, ne faccio parte. Sono persone che vorrei cambiare e ne sento la responsabilità. Quello che mi ha aiutato è la comunità di persone come Basel e Hamdan, altri palestinesi e israeliani con cui condividiamo gli stessi valori. Ma anche se siamo in pochi, anche una o due persone sono sufficienti per spingermi ad andare avanti.

gli EBOOK di NI: i racconti di STAFFETTA PARTIGIANA

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di Redazione

Nazione Indiana ha deciso di onorare l’ottantesimo anniversario della Liberazione italiana dal nazifascismo con ⇨ un concorso per testi inediti. Un concorso rivolto agli under 35 perché (citiamo dalla nostra call di autunno) “pensiamo sia importante un passaggio del testimone, che quindi una nuova generazione di italiane e italiani assuma il compito di ricordare e raccontare la Resistenza“.

In questi tempi bui, in quest’onda autoritaria, essere controcorrente non è una cosa scontata e raccogliere il testimone di valori e storie è sempre più importante e significativo.

I testi ricevuti condividono un pregio non irrilevante, una volontà civile di raccontare quelle storie di antifascismo che, di per sé, va premiata e merita il nostro ringraziamento.

Abbiamo deciso di raccogliere in un EBOOK i 12 racconti selezionati, per celebrare l’avvenimento e per rendere più fruibili tutti i materiali.

Del concorso e dei suoi risultati parleremo il 14 giugno durante la ⇨ Festa di Nazione Indiana 2025.

i racconti di STAFFETTA PARTIGIANA 2025 [formato epub]

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Les nouveaux réalistes: Anita Tania Giuga

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Sopraffatta

di

Anita Tania Giuga

Non avere limiti stabiliti ed essere dipendenti dalla propria autodistruzione è, con tutta certezza, conseguenza di un’infanzia vissuta in un ambiente tossico. I tossici sono maestri nell’arte della manipolazione, lo sai. Vengo da una famiglia disfunzionale, sono abituata a spegnere l’interruttore e fare quello che va fatto. Se sei nel ruolo della vittima, intrappolata nella parte del martire, non hai nessuna responsabilità su quello che sta avvenendo intorno a te. Essere sobri, senza niente di estraneo nel corpo, è la cosa migliore di sempre: non c’è sindrome del giorno dopo, né colpa. E qual è la lezione migliore che sono stata chiamata a imparare? Accettare me stessa e amarmi per quello che sono.

La vita la puoi raccontare sulla base delle esperienze che hai fatto, che avresti voluto fare e che vorresti fare. Questo è tutto. Di base, sapere di piacere, sentire un uomo che dice ‘Ti amo’, mi innervosisce, mi provoca disagio e finisco per chiedermi quando andremo al sodo. Voglio fatti, non parole, non inganni. Sono una buona persona, do più di quanto non prenda, e credo di meritare una vita appagante, anche se questo dovesse significare cambiare ambiente e abitudini. Mi sono trovata a prendere decisioni sbagliate in un tempo sbagliato. A fare quadrare le cose a ogni costo o a metterci tutte le risorse per andare avanti. Ho imparato che se vuoi arrivare da qualche parte nella vita, devi presentarti nella maniera in cui lo farebbe un uomo d’affari: quasi inorganico. Rispetto, responsabilità e lealtà sono parole, non significano niente se qualcuno prima non ti ha insegnato come si fa ad attivarle.

Quando non hai avuto un padre stabile nella testa, che ti dicesse che eri e sarai, qualsiasi cosa accada, la persona più importante, la sua principessa, e nessuno ha il diritto di oltraggiarti, come puoi farlo con te stessa? Sai, ero preoccupata di essere bella, a posto, di avere un atteggiamento spirituale verso la vita, e anche se adesso vivo dove vivo, non tornerei mai a fare quello che facevo prima, preferirei morire. Sono stata rapita, violentata, mi hanno rubato il telefono, i soldi, mi hanno strappato il cibo dalle mani mentre camminavo. Ho dovuto affidare le mie carte di credito a un ex vicino di casa per non finire in guai più seri. Ci sono state settimane in cui piangevo ogni giorno. Una sera ero fatta. Stavo guidando in una zona desolata e mi sono addormentata al volante. La cosa incredibile è che l’incidente ha fatto ribaltare l’automobile e lo scontro è avvenuto con un tipo che si è addormentato a sua volta al volante. Mentre ero morta ho visto mio nonno, che ha avuto un infarto un paio d’anni fa, e suo padre, che avevo conosciuto solo in foto, mi hanno detto che non era ancora arrivato il mio momento; devo compiere qualche missione prima di andare.

Il punto è che non mi ero accorta di niente, così ho chiesto al ragazzo di rimettermi in macchina, ed è stato lui a dirmi che mi ero ribaltata e a chiamare l’ambulanza intanto che lo guardavo ancora sotto choc. Sai, sarà durata in tutto dieci o quindici minuti, c’era la presenza di una ragazzina che stava in compagnia di altre due persone. Il giorno dopo, il notiziario ha parlato di un pirata della strada che aveva travolto qualcosa, senza fermarsi. E quel qualcosa era una quattordicenne insieme a un bambino. Sono passati tutti e due dall’altra parte. Ho capito il senso di questa esperienza quando in Messico ho fumato il veleno di rospo; tutte le fibre del mio essere urlavano e guarivano, risucchiate in un vortice di consapevolezza collettiva. Ho capito le mie vite precedenti, gli errori, il fatto di generare karma con le proprie azioni. Ho capito che senza principio non ci può essere fine. Mi sono vista come una fiamma priva di forma, libera dall’ansia, dalla preoccupazione, dall’abbattimento.

Quando ero più giovane, ero considerata la più bella qui. Ma sai una cosa? Non mi sono mai data il tempo di riconoscerlo. A dicembre anche Vinni è passato oltre. Ha chiuso la porta e ha lasciato fuori il cane. Un cane da caccia di quelli piccoli, con il pelo ispido, che scorreggiano e uccidono qualsiasi cosa si muova. Vinni diceva che era un angelo con le abitudini di un killer e la sua fedeltà agli umani era più di quanto essi meritassero. Sono stata una delle ultime persone a trascorrere del tempo con Vinnie, più o meno. Mi aveva accompagnato in ospedale per i controlli annuali. Avevamo cominciato a risentirci a ottobre, dopo il suo incidente, spiegando male quattro anni di silenzio. Parlavamo quasi tutti i giorni. Per ragioni difficili da capire, sono molto scossa. L’ho sognato, leggo tutto quello che riguarda questi ultimi maledetti giorni. Ero andata in viaggio, quindi le comunicazioni si erano bruscamente interrotte. Ti dispiace se te ne parlo? I tuoi consigli mi sono stati d’aiuto. I giorni con lui sono stati difficili, pieni di scuse, di monologhi, di rabbia improvvisa, di invettive ma anche di dolcezza, in qualche maniera. Non penso di potere aggiungere altro. Le cose vanno come devono andare. Questo clima mi riporta a un mio benefattore. Mi aveva pagato una pensione, trovato una macchina usata e un lavoro pomeridiano, una via di riscatto che non ho percorso. Ero impaziente. Ho ricominciato a farmi con il vicodin, a girare di notte, dormire di mattina, svegliarmi a pomeriggio inoltrato, fino a quando non ho perso il lavoro. Il resto te lo risparmio.

Le donne che ho incontrato dicevano di volere cambiare ma non le ho mai viste accettare una qualche possibilità di trasformazione. Restare intrappolati dalla strada per alcuni è l’inferno, l’unica forma di libertà, oppure, come immaginerai, una splendida fuga quando non hai altra scelta. Ogni cosa su questa terra vuole il suo tempo, non c’è cibo cotto in fretta che faccia bene alla salute. Non sto incolpando la famiglia per le mie scelte, almeno non completamente: se ho fatto quello che ho fatto, se fra due possibilità ho scelto la più facile, è stata una mia decisione. Oggi sono più onesta con me stessa, mi avresti vista indossare il costume delle circostanze avverse e pretendere per questo la tua approvazione e il tuo affetto incondizionato, anche per le azioni commesse a causa del lasciapassare che, le grandi aspettative riposte sul mio futuro, mi avevano obbligato ad assecondare. Una specie di mistica onnipotenza. Per vent’anni non ho mai pianto. Ero talmente ossessionata dall’idea di perfezione e mi vergognavo così tanto delle mie dipendenze, da cadere a un livello più basso ogni volta che perdevo l’integrità d’insieme alla quale ero stata educata. La camera degli errori non era contemplata e ribellarmi significava essere colpevole; ed essere colpevole voleva dire scendere un gradino infimo verso la perfezione dell’imperfezione. Il silenzio ha avuto un impatto disastroso: ha definito la mia vita. Dici che so è quindi posso cambiare, che sono diversa. Sapere e sapere come fare non sono la stessa cosa. Mio fratello entrava nella mia stanza quando avevo tredici anni. La parte peggiore però non è questa. Credo tu non sia pronta a sentire che uno strato di me lo aspettava e, in tutto questo tempo, ho vissuto la scissione, la separazione, come autodistruttiva funzionale. Ti è capitato che un collega di tuo padre avesse la possibilità di rimanere solo con te al mare? Il resto puoi immaginarlo. Credi davvero di capire cosa significa essere un oggetto inanimato?

Quando hai ricevuto quelle attenzioni e la stessa scena, la situazione così profondamente incisa nella tua memoria, ritorna da grande, la tua mente è spaventata e non funziona alla stessa maniera di come funziona per gli altri. Ho avuto paura della solitudine, uno spavento paralizzante che mi ha fatto dire di ‘sì’ quando l’unica risposta sarebbe stata scappare. Chi mi circondava, chi mi ha cresciuta, scommetteva che sarei finita male. Malata di HIV o senza tetto, in ogni caso vittima delle circostanze. Una vittima inerme nelle mani di altre vittime. Credimi, non è mia intenzione incolpare la società, né il cinismo della gente che mi opprimeva già a partire dalla scuola. È liberatorio massacrare il debole e scegliere di accompagnare il ragazzo d’oro nella sua scalata verso il successo, o la reginetta della festa all’incoronazione. Se ti avessi incontrata a quel tempo saresti stata l’amica che ti contiene, avresti portato pace e sono certa che non mi avresti giudicata. Ci sono giorni che non mi muovo dal letto, non guardo il telefono, non scrivo messaggi, non accendo la televisione. Ho troppo caldo sotto le coperte e troppo freddo se apro la finestra. Ho passato l’adolescenza guardando film su eroine sbandate, che finivano male e venivano beatificate per questo. Non potevo che fare la stessa cosa, non credi? Se puoi avere tutto quello che vuoi che importa da quale parte arrivano i soldi per ottenerlo? Di tanto in tanto la reginetta muore di overdose e il Golden boy vende le foto del suo corpo da qualche parte sul web. Sai, sono cosciente di essere una persona spezzata e di avere bisogno di aiuto. Ci ho provato.

Credo, nel fondo della coscienza, di meritare la merda per la quale sono passata. Per gli incidenti, le frodi, i furti, le molestie. Allo stesso modo, vedo nei tuoi occhi che hai dei dubbi. Queste ombre ti permettono di guardare il mio naufragio da una distanza di sicurezza. Non fraintendermi, so per certo che è un movimento impercettibile. Eppure ti attraversa e ti fa sentire in salvo e orgogliosa di te stessa. Avevo un piano. Molly, la vicina di casa diceva a mia madre che ero intelligente, graziosa, e avrei fatto fortuna, mia madre rispondeva che nessuno può guardare più lontano del proprio giardino. E il nostro era un giardino pieno di rottami. Avevo un piano, dicevo. A trent’anni avrei già avuto una casa mia, un figlio e un lavoro da assistente. Non riuscivo a visualizzare il tipo di marito, i suoi vestiti, l’odore, o lo sport che avrebbe guardato in TV con gli amici. Vedevo le mie mani curate, il guardaroba, ero certa che il boss mi avrebbe scelta per gli incontri di rappresentanza e avrei studiato il francese e lo spagnolo, anche il cinese se fosse stato necessario. Ma quello che ti dico ora è una copia deforme del reale, degli ostacoli che vedevo davanti a me insieme alla difficoltà necessaria a superarli. Avrei potuto diventare una benefattrice, invece sono caduta mille volte nell’autocommiserazione. Non vorrei che pensassi che mi sento vittima delle circostanze, ho capito di essere le circostanze, proprio per certe forme di interpretazione della realtà.

Marcel Proust, la bellezza, le atrocità

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di Mauro Baldrati

“Se leggendo la Recherche la realtà mi balzava agli occhi e mi prendeva la gola, cosa era stata allora la mia vita, se non una finzione?”

E’ solo uno dei tanti passi citabili di questo straordinario ibrido, una sorta di analisi, e al contempo di atto d’amore verso il grande libro, che si compenetra con una riscrittura reality dello stesso. Durante la lettura entriamo nei ricordi personali dell’autrice, discendente da un’antica famiglia aristocratica, i duchi di Luynes, (il bisnonno probabilmente è stato uno dei modelli del barone Charlus), il principe Murat, il re di Napoli bonapartista. Una macchina del tempo che, proprio come nella tecnica di Proust, ci introduce in un mondo fantascientifico fatto di ricerca ossessiva dello stile, di eleganza, di modestia esibita, di “tecnica del corpo e del controllo posturale, tutti elementi che rivelano a prima vista l’aristocrazia, un sistema fondato sull’ineguaglianza per nascita”. Ovvero: il sistema della Recherche, lo stesso dell’autrice.

La tenace lettrice di Proust è dentro l’opera, la vive oltre che leggerla e, proprio come il maestro, prima di entrare nel “mondo di forme vuote”, ne subisce il fascino, si abbandona con una dolce, perversa voluttà, all’attrazione del “levigato mondo nobiliare”:

A casa nostra i saloni di ricevimento vedevano sfilare il fior fiore della società gaullista, composta di aristocratici, politici e scrittori, da Ionesco a Gombrowicz. André Malraux e Louise de Vilmorin erano degli habitué, così come Corisande de Gramont, ingegnera di prodigiosa intelligenza, nipote della contessa Greffulhe (ispiratrice del personaggio della duchessa di Guermantes), nonché figlia di Armand di Guiche (grande e fedele amico di Proust) e figlioccia di Robert de Montesquiou (modello di Charlus). Non era la vecchia Francia antisemita e ultraconservatrice dei Courvoisier, piuttosto un compromesso tra Guermantes e Verdurin.

Attraverso i dialoghi, gli oggetti e i nomi emerge potente questo mondo separato, animato da una continua pantomima mondana, dove “il non-detto e il non-visto contano molto più della parola o del gesto, sempre misurati, calcolati, teatralizzati”. L’autrice, ancora bambina e ragazzina, già vive una terribile, silenziosa separazione dal sistema bloccato e sfavillante in cui il caso, la natura l’hanno fatta nascere. La sua omosessualità è una vergogna da tenere nascosta, una specie di dettaglio al quale mai si deve accennare. Come non pensare al triste stato degli “invertiti” del piccolo grande mondo proustiano? Un marchio dell’infamia che fa del narratore addirittura una voce omofoba, forse per godere di quella libertà espressiva concessa da una preventiva condanna?

Ma poi arriva la scoperta. La lettura. Marcel Proust, già esperto cronista mondano, meticoloso entomologo che classifica quelle farfalle multicolori, che registra quelle voci che sembrano filtrare dalle tombe di Spoon River, a partire dal secondo volume, All’ombra delle fanciulle in fiore, inizia l’opera di scavo. Dopo i giorni dell’infanzia, coi personaggi che entrano nel racconto coi loro fantasmi, i loro tic, e dopo quello straordinario romanzo nel romanzo che è Un amore di Swann, parte lo smantellamento dall’interno di quella “realtà che trapela sotto il lucente strato superficiale. Questa realtà è il vuoto.”

Laure Murat naviga all’interno delle Recherche, segue il narratore mentre esplora i territori desertificati del “bel mondo”, manipolando i personaggi qua e là isterici, volgari, crudeli e meschini che si nascondono dietro le maschere aristocratiche. Non lo fa con la denuncia, ma vivendoci accanto, affrontando le trappole della seduzione che esercitano le “differenze di trattamento tra le classi sociali”. Ne svela anche l’ignoranza, la cultura limitata e dozzinale (a parte Swann naturalmente, un suo esploratore particolarmente efficiente, e il Re dei Re, il terribile barone Charlus, che si staglia come una stella luminosa sulla flotta di supernove che vanno alla deriva). Scrive nel Tempo ritrovato: “Avevo frequentato abbastanza le persone di mondo per sapere che i veri illetterati sono loro e non gli operai elettricisti”.

Da questa navigazione, pagina dopo pagina, ricordo dopo ricordo, la Murat capisce dove si trova. Prende coscienza che “Alla ricerca del tempo perduto è la più sottile e crudele critica dell’aristocrazia francese mai condotta dalla letteratura”.

Quel mondo è il suo mondo. Quei “personaggi che alla fine si rivelano tutto il contrario di come sembrano all’inizio” sono i personaggi del suo ambiente, i suoi parenti e i suoi genitori, che disvela con ritratti impietosi.

Questo era lo spazio – e la poetica – che mi offriva Proust in un solo libro: una riflessione in perpetuo divenire agli antipodi delle trite genealogie, la certezza della mia reintegrazione nel consesso umano a fronte di una esclusione dall’ambito familiare, un paesaggio dove evolversi di continuo al contrario degli immutabili soggiorni nel castello eterno. Passavo così da una lettura verticale del mondo, monolitica, gerarchizzata, autoritaria, ereditata dall’Ancien Régime e dal XIX secolo, a una lettura obliqua dell’universo, plurale, globale e a tre dimensioni. Dalla clausura all’apertura. Dal passato all’avvenire.

Arrivata al punto giusto, pellegrina e straniera, liberata e consapevole grazie all’esperienza letteraria della Recherche, Laure Murat abbandonerà per sempre il suo ambiente, rinunciando al titolo e all’eredità. Si trasferirà a Los Angeles, dove insegna all’Università, con la sua compagna.

Forse dalla commistione di analisi letteraria e autobiografia questo libro è anche una interessante novità nella sterminata critica proustiana, e si potrebbe collocare accanto a quel formidabile pamphlet senza tempo che è Marcel Proust e i segni di Gilles Deleuze.

E noi, anche da questa lettura nella lettura, capiamo che la Recherche non è un libro sull’aristocrazia, ma sulla vita stessa, e sulle persone, sulle maschere dietro cui ci nascondiamo, vivendo una vita a due dimensioni.

Uno sfregio doloroso

Però questo testo saggistico/narrativo redatto con una scrittura ricca e raffinata contiene una trappola. Mimetizzata e imprevedibile.

Marcel Proust frequentava il sordido bordello Hôtel Marigny, in rue de l’Arcade, gestito da Albert Le Cuziat, un tipo ambiguo, colto, raffinato, un “blasfemo di grande moralità” (che sarà l’ispiratore di Jupien). Mentre l’autrice descrive questa sezione del libro, commentando la diceria per cui Proust cedette i mobili di famiglia alle sale dell’Hôtel (falsa, a quanto pare li regalò a Le Cuziat, che li trasferì, con suo grande rammarico, nel bordello), il lettore ambientalista-animalista d’un tratto incappa in questo passo a pag. 185, che gli raggela il sangue nelle vene:

Le testimonianze riferiscono che all’Hôtel Marigny Proust, stentando ad arrivare a un orgasmo sostanzialmente onanistico, si facesse portare dei topi in gabbia chiedendo che venissero infilzati con spilloni da cappello, poiché solo questa messinscena gli permetteva di raggiungere l’obiettivo.

Il lettore che per trent’anni ha letto, riletto e studiato la Recherche stenta a credere ai suoi occhi. Non intende dare nessun giudizio morale, ognuno è libero di fare ciò che vuole di se stesso, del proprio corpo. Può praticare il sadismo, il masochismo (ma sempre con partner consenzienti), il voyeurismo, l’onanismo, e nulla di tutto questo incide sulla sua dignità e sulle sue opere. Conosce e approva il Contre Sainte Beuve, il libello nel quale Proust teorizza la separazione dell’opera dal suo autore. Ma provocare dolore e una morte atroce a creature innocenti e indifese per il proprio piacere è ignobile, un atto di assoluta vigliaccheria.

Tutta l’impalcatura trema. Dov’era il narratore, sensibile, poetico? Dov’erano i segni dell’arte? E le madeleine? Nel sangue e nei contorcimenti di quei topi in gabbia?

Il trentennale lettore ambientalista-animalista cerca una soluzione. Questa scena non può, non deve interferire con la maestosità dell’opera, non ha il diritto di infangarla. E’ una miseria del suo autore. Casomai occorre cancellare quella forma di adorazione verso il genio, che fa dei proustiani non dei semplici lettori, ma dei devoti. Disapplicando, di fatto, proprio il Contre Sainte Beuve. Oppure “perdonando” chi, come Hemingway, uccisore seriale di leoni, elefanti, rinoceronti, a un certo punto, avvelenato dalla violenza che si portava dentro, ha rivolto il fucile contro se stesso, raggiungendo le sue vittime. Così Proust, torturato dal suo demone fin dall’infanzia, è stato costretto ad ammalarsi di un’asma letale che lo ha portato a una morte prematura.

O ancora, consolarsi con la possibilità che quelle “testimonianze” siano in realtà maldicenze prive di fondamento, come il Rimbaud trafficante di schiavi, per il quale non esistono indizi certi. Purtroppo se a riportarle è Laure Murat, c’è il caso che siano attendibili.

Infine, il lettore devoto dopo una sofferta riflessione può concludere che, proprio grazie alla sua disperata, sadica perversione, l’uomo di nome Marcel Proust, ha potuto creare il suo capolavoro, prima della fine.

Ma che delusione però. Che dolore. E che rabbia, per l’amara consapevolezza che, dopo quella lunga, esaltante avventura letteraria, nulla sarà più come prima.

 

 

 

Viaggio nelle stanze, e nell’isola, di Rossana Rossanda

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Foto dell’autrice

di Anna Toscano

Un piccolo schedario da tavolo, di quelli rotativi, le lettere dell’alfabeto spiccano maiuscole bianche su fondo blu, è appoggiato, accanto a un abatjour a base esagonale, sulla pelle verde filettata in oro del piano di un tavolo in mogano con tre cassetti, la sedia poco scostata, ai lati pareti di librerie colme di volumi, davanti tre finestre che danno sul cielo. Il cielo sull’isola della Giudecca, a Venezia. Il tavolo è quello di Rossana Rossanda e di K. S. Karol, gli arredi sono appartenuti a loro, come la biblioteca e le suppellettili varie di questa stanza e di quella attigua in cui ci sono un divano, una poltrona, un tavolo basso e altre librerie. Non è difficile, nei giorni di cielo non troppo nitido – quando non c’è il fenomeno dello “stravedamento” che permette di vedere le montagne come fossero quasi a distanza di una carezza – travisare il panorama oltre i rami degli alberi, non è difficile nel silenzio di questa zona a sud della Giudecca confondersi, pensare di essere altrove, ovunque, o qui.

Le due stanze sono nello spazio più alto, all’ultimo piano, di Villa Hériot, una costruzione al di fuori del comune con una vicenda che non passa inascoltata. La storia fa un balzo all’indietro se pensiamo alla nascita di Rossana Rossanda, un secolo fa, e alla nascita di questa villa: lasciamo per qualche riga il tavolo di Rossanda lì dove l’abbiamo appena visto e guardiamo il terreno, la terra su cui è costruito questo luogo incredibile.

Siamo agli inizi del XX secolo in una fetta di terra, l’isola della Giudecca, territorio di fabbriche e di edilizia popolare ma anche luogo prediletto da stranieri facoltosi che cercano terreni per trasformarli in giardini e costruirci case per trascorrerci alcuni periodi all’anno. Tra loro il francese Hériot qui compra il terreno di una ex saponeria e vi fa costruire due edifici progettati da Raffaele Mainella, un architetto dalla preponderante vena artistica.

In un grande parco affacciato sulla laguna, con all’interno due grandi edifici in stile neobizantino, un neobizantino eclettico e bizzarro, una bassa costruzione per la servitù, una fontana, panchine, stanno le care cose di Rossanda. L’insieme costituisce villa Hériot: nel 1947 diviene proprietà del comune che ne fa una scuola pubblica votata all’accudimento di bambini con particolari problematiche di salute, sperimentando così, nella grande aerea all’aperto tra alberi e arbusti, curative lezioni all’aperto. Ora la villa è sede della Società Europea di Cultura, dell’Università Internazionale dell’Arte, della Casa della memoria del Novecento veneziano, e dell’Iveser, Istituto Veneziano per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea.

Con l’Iveser ritroviamo Rossanda in un legame strettissimo e immaginabile, quello col territorio e la storia del territorio. Lei tra il 1930 e il 1937 vive a Venezia, al Lido, dove frequenta le scuole e instaura le prime amicizie, successivamente mantiene vivi i rapporti con la città e con molti veneziani, vi torna con una intensa attività politica negli anni Sessanta: tra frequentazioni con altri intellettuali e proteste studentesche la vive con passione e interesse. La città lagunare è nel suo cuore: lo scrive nell’autobiografia La ragazza del secolo scorso (Einaudi) e lo diceva spesso, come riporta Luciana Castellina, che Venezia era la sua città e quando ci tornava, tornava a casa; lo definiva “l’unico luogo” di cui era “nostalgica”. È stata questa sua dichiarazione ad aver persuaso Doriana Ricci, erede e interprete della sua volontà, a dire a Luciana Castellina “Dobbiamo fare qualcosa per Rossana Rossanda a Venezia perché Venezia è la sua città”. Da qui la donazione delle stanze di Rossanda e K. S. Karol, giunte nel 2021, con gli arredi e una biblioteca composta da circa tremila e cinquecento volumi comprendenti i libri scritti da loro, anche in diverse traduzioni, quelli su svariati argomenti di loro interesse e studio come saggi politici e filosofici sul mondo comunista, sulla storia politica italiana ed europea, sulla storia dell’arte e storia delle donne, molti i romanzi.

Foto dell’autrice

Dopo diverse iniziative su “Le stanze di Rossana”, nel giugno scorso c’è stata anche una mostra, sempre a cura dell’Iveser, con molto materiale trovato all’interno degli scatoloni della donazione. Non solo libri, infatti, ma documenti, reperti di giornali, lettere, album fotografici che ritraggono Rossanda nella vita privata e in quella pubblica.

Arrivare da una calle che finisce in laguna, fermarsi all’ultima entrata a sinistra, accedere attraverso un cancello di ferro, spesso cigolante, nel grande parco, la laguna a destra e a sinistra la prima delle due ville, procedere attraverso un altro spazio verde e poi la seconda villa. Entrare in questa, scalino dopo scalino, rampa di scale dopo rampa di scale, fino all’ultimo piano, alle due stanze, le sue due stanze, in cui non vi è nessun rumore se non quello dello scricchiolare del legno del pavimento, e sostare tra i suoi libri, quadri, suppellettili, fotografie, oggetti, è come una immersione nella vita di Rossanda, un’immersione per immagini e parole, una specie di “Romanzo di figure” alla Lalla Romano, ma anche un viaggio nella storia del paese e all’interno di villa Hériot.

Guardare lo schienale della sedia che è appena scostata dal tavolo e andare immediatamente con gli occhi a destra perché forse lì c’è lei, si è appena alzata e cerca una citazione in un libro. Lei che ha scelto Venezia per il tempo eterno, per l’aldilà, come la madre di John Berger che ha scelto Lisbona. Ce lo racconta Berger in Qui, dove ci incontriamo (Bollati Boringheri): nel primo capitolo narra che in un mercato di Lisbona, tra molta gente, ha scorto la figura della defunta madre e che l’indomani l’ha incontrata all’acquedotto nella calma del silenzio, lì lei gli svela che ha scelto la capitale portoghese per l’eternità: “Come fanno, i morti, a scegliere dove vogliono stare? Invece di rispondere, si è raccolta la sottana e si è messa a sedere sul successivo gradino della scalinata. Ho scelto Lisbona! ha detto, come se ripetesse qualcosa di molto ovvio”, e poco dopo gli svela che il padre invece ha scelto Roma, pare per il colore di una tovaglia.

Plausibile dunque che, come molte persone hanno scelto di vivere a Venezia e molte altre di venir seppellite nell’isola di San Michele, chissà quante avranno chiesto di trascorrere qui l’eternità. E non è difficile capirlo alla mattina presto al mercato di Rialto, quando solo i gabbiani fanno eco alle cassette che scaricano pesce, frutta e verdura, quando la scopa di saggina dei pescivendoli prepara i “masegni” per gli avventori e si ferma di fronte a sagome dalle sembianze note. Passa spesso un uomo con la sciarpa rossa, una donna col ciuffo bianco sui capelli neri, uno in tabarro e molti altri: Mario Stefani, Susan Sontag, Mariano Fortuny e chissà quanti si ritrovano qui, probabilmente attendono Rossanda Rossanda che dalle sue stanze nella parte sud della Giudecca ci mette un po’ ad arrivare.

Ho ancora le mani per scrivere, a cura di Aldo Nicosia

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“Ho ancora le mani per scrivere. Testimonianze dal genocidio a Gaza” raccoglie 222 testi di numerosissimi autori di Gaza, scrittori, poeti, giornalisti o semplici cittadini. Il sottotitolo dell’originale sottolinea che si tratta di testimonianze min dakhil Ghazza (“dall’interno di Gaza”), cioè scritte da palestinesi che vivono nella Striscia.

Diffuse perlopiù dai social networks, sono riportate in ordine cronologico, coprendo un periodo che va dall’ottobre del 2023 fino al settembre 2024. Mutuando un’espressione tipica del linguaggio militare, esse sono state composte a “distanza zero” dal teatro degli eventi che li vedono coinvolti, non da semplici spettatori, ma da attori, testimoni oculari, auricolari e con tutti gli altri sensi, sensazioni ed emozioni.

Il ricavato del libro andrà a sostegno della popolazione di Gaza attraverso l’associazione “Gazzella”

Da “La luce inversa”

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[Pubblichiamo un estratto di Mota, La luce inversa, Wojtek, 2025]

di Mota

 

Martin

L’essenza di questa sorta di guerra sta nel non dimenticare mai quanto si sia arrivati vicini a perderla. Malgrado la vittoria stessa appaia impossibile; sono piuttosto l’assiduità di un compromesso, la desquamazione dovuta all’addestramento e all’autodifesa, che nel proteggere una cosa inevitabilmente ne portano in superficie il nucleo fragile o indebolito, lo strato sottostante che non fa in tempo a rigenerarsi, prima che un nuovo scontro venga a comprometterne e a distruggerne i vulnerabili equilibri.

Sto per infrangere tutte le regole, le promesse, le buone maniere. Sto per rompere gli indugi.

Perché tutti, tutti noi, traiamo origine e sostentamento da un trauma.

Ho inchiodato il ricordo al muro di ossa che mi porto dentro, come un manifesto, e l’ho dissacrato attraverso la fame più assoluta che si possa concepire. Ho imposto al ricordo l’inedia implacabile, con essa l’ho torturato. Ma non moriva. Allora ho accettato che tra di noi fosse guerra perenne. Così l’ho risollevato dalla sua carcerazione preventiva, perché non potevo accontentarmi di un nemico azzerato. Una volta ripresosi, quel ricordo falciò e divorò tutti gli altri ricordi, tutti quelli buoni e perfino quelli mediocri, intridendo la mia casa di voci spettrali che ne infangassero e ne potessero maledire i risvegli. Tentò di manomettere ogni forma d’amore, o di semplice affidamento, e probabilmente ha ottenuto un successo superiore alle aspettative. E dopo anni di ingannevole pace, con appena un grammo di me da lasciare al rimorso, mi sono visto costretto ad azionare la macchina d’assalto, la fiamma carnivora del linguaggio che vuole solo oltrepassare, e a impugnare strangoli di ghiaccio e forbici da potatura stellare e a salire su giostre di offesa perpetua e a vibrare all’unisono con i sistemi nervosi dei terremoti; quando un uomo è sempre pronto a morire padroneggia la via, che sarà il pellegrinaggio dell’occhio dell’anima, e la via dei guerrieri.

L’oscurità possiede un colore, un caratteristico colore denso, abissale, una tessitura che il buio ordisce e regola, come se numerose mani di vernice fossero state sovrapposte dapprima caoticamente e via via con sempre maggiore metodo; una specie di riflesso negativo, che a fissarlo troppo a lungo ti si appiccica agli occhi.

Sdraiato nel suo letto, il bambino sta osservando il buio. È voluminoso, sopra di lui, una gelatina oceanica che occupa tutta la stanza. Il fratello minore dorme, respirando regolarmente, nel letto a due passi dal suo, verso la parete. Il padre dorme nella camera al di là del muro; la mattina si alza molto presto, all’alba, malgrado non sempre sia necessario, è solo un’abitudine inveterata, prepararsi il caffè e andare a comprare il giornale e la focaccia per la colazione dei figli; la porta della grande camera da letto dei genitori è appena accostata. La madre dorme in salotto, sul divano, davanti al televisore acceso; ma l’audio è al minimo, le voci e le risate e gli applausi e le sigle divisorie e consolatorie di quell’irraggiamento radiotelevisivo notturno si disperdono per la casa, ingoiate dalle tende e dall’intonaco, come molecole di suono troppo deboli per sperare di sopravvivere a più di mezzo metro di distanza dallo schermo. Richiami lontani, di naufragio. E furtivi riflessi azzurrognoli di lavatrici ultraeconomiche e serial killer sadici, sul pavimento.

Sembra una di quelle notti in cui si vorrebbe solamente gridare.

Non può continuare a osservare tutto quel buio e quel silenzio. Il bambino socchiude gli occhi, facendo affidamento su esili spiragli tra le palpebre per assicurarsi che nessuno volteggi o cammini o strisci lì fuori, che nessuno possa trasportarsi con un fruscio scheletrico da un lato all’altro della stanza, minacciando lui o suo fratello. Però, anche così, la profondità di quelle ore inanimate lo soverchia, e il bambino non possiede i mezzi per opporvisi. Pur riparato dagli strati di due trapunte, completamente nascosto, coperto fin sotto il mento, unicamente la testa fuori, la testa con il naso e la bocca per respirare e gli occhi per sorvegliare e all’occorrenza spalancarsi di colpo, nonostante quello scudo difensivo comune a tutti gli eserciti di bambini privilegiati dagli albori della civiltà privilegiata, questo bambino sente freddo e sa che il freddo non proviene dall’esterno; strofina i piedi inutilmente, e se anche il leggero rumore dei talloni che sfregano contro il materasso lo conforta un po’, l’ombra continua a essere troppo reale, troppo dura e malsana e traditrice, quell’ombra infinita che opera per farlo soccombere. Ma forse una tecnica c’è. Esiste un modo per racchiudere il suo letto e la stanza e la casa e il cortile, e la strada fuori incantesimata dalla nebbia, e la città e le altre città e perfino l’intero pianeta, racchiuderli in un involucro energetico infrangibile. Il bambino, imprigionato tra le lenzuola, con il rimbombo delle tenebre che si estroflette dal pavimento e dalle pareti come un’orda di braccia da una forra per cadaveri, lui che non può far altro che starsene lì immobile, sudando e avvertendo tra le gambe il pizzicore di quando si finisce irrimediabilmente con il pisciarsi addosso, temendo che quell’attimo debba durare per sempre, o per sempre anche solo possa, ora quel bambino chiude gli occhi, serra con una severità statica gli occhi incattiviti che non riescono a prendere sonno, abbandonando ogni cosa al proprio destino.

Gesù, inizia a bisbigliare. Gesù mio, so che sei qui. So che mi stai ascoltando.

Prega il Figlio crocifisso e non il Padre onnipotente, perché non sussistono dubbi su chi ispiri maggiore simpatia, tra il Figlio e il Padre. E il bambino, senza che nulla possa ormai disturbarlo o affliggerlo ulteriormente, o distoglierlo, intimidirlo, né l’intercessione, né la domanda, senza esitazione di fronte ai vizi di forma, alle questioni aprioristiche, la potestà di Dio, l’autenticità evangelica, con il sussurro più impercettibile di cui sia capace, il bambino ora prega per raggiungere semplicemente uno scopo.

Da quel momento, sembra che tutte le costellazioni del cielo e le contrazioni cardiache prodotte da ogni bestia mai nata stiano pulsando all’unisono. Per lui. Per riscaldarlo.

Anche se non sono stato bravo, so che mi aiuterai. Ti prego, Gesù, aiutami. Ti prego. Ecco, ho fatto di nuovo l’arrogante, come dice la maestra. Perdonami. Tu mi aiuterai se vorrai aiutarmi, sia fatta la tua volontà, sempre. Gesù, Gesù, potrai mai perdonarmi, ora che ho sbagliato di nuovo?

S’incrina, qualcosa di colpo s’incrina. Immediatamente quel buio argilloso e rampicante, al quale vengono date in pasto le anime difettose, difettose come la sua, quel buio si allunga e si rafforza, incalzandolo. Per un istante la realtà torna viva; il sudore che gli incolla il pigiama al corpo, il sonno costante di suo fratello, i suoni spiccioli che dalla tv si consumano in una lontananza sleale.

È il colore, è la pressione atmosferica dell’oscurità. Il bambino vorrebbe accendere la lampada sul comodino, ma è tardi, teme di svegliare sua madre, ha ben presente come reagisca in quelle circostanze, lei, destatasi di colpo sul divano, con una corsa spazientita oltre la soglia della cameretta, lei che gli chiede bruscamente perché ancora non stia dormendo, quella domanda che non è una domanda bensì un’accusa, un modo a doppio taglio di esercitare la premura; per cui ci ripensa, e non fa nulla. Come se l’insonnia, quando riguarda i bambini, meritasse piuttosto una condanna senza appello che non un moto di empatia.

Non sbaglierò più, te lo giuro. No, giurare è peccato. Te lo prometto, così va meglio. Ho bisogno del tuo aiuto, Gesù, e sai che ti seguirò per tutta la vita, pregherò e sarò buono e non dirò le bugie e da grande diventerò una brava, bravissima persona. Ma adesso proteggimi e non farmi morire. Proteggi quel mio fratellino che dorme tranquillo, non permettere che apra gli occhi in mezzo a tutto questo buio. Proteggi me e mio fratello, e mamma, proteggila sempre e non farla morire, e papà, proteggilo sempre e non farlo morire. Gesù mio, so che mi ascolti e ti ringrazio per tutto quello che mi hai dato. Perdona mamma e papà, forse loro non ti ringraziano spesso per tutto quello che ci hai dato, ma anche loro credono in te e sono buoni nel profondo del cuore. Dona loro la grazia e la fede, come dice il parroco, sii misericordioso. Ti prometto che starò zitto in classe e non riderò durante la messa, da oggi in avanti starò sempre zitto e non farò l’arrogante. Proteggimi e rendimi forte, non farmi morire, Gesù. Proteggi e non far morire la mia famiglia. Proteggi la maestra, i miei compagni, il maestro nuovo che in fondo è simpatico, proteggi i miei zii e i miei cugini e quelli della mia squadra di calcio ai giardinetti e anche quelli della squadra avversaria, e non farli morire. Proteggi i nonni e… Gesù, proteggi gli altri nonni e non farli morire… ma

lui

no… lui no…

Gesù, ti prego e ti supplico… lo sai quello che intendo, hai visto quello che fa… io lo so che deve andare all’inferno, e se sono stato cattivo e sono sporco allora andrò all’inferno anch’io, perché ho fatto la stessa cosa che fa lui. Non la farò mai più, Gesù. Lo sai, lo hai sentito, lui ha detto che è normale, che è una cosa normale, una cosa solo tra noi due, lui mi vuole bene, però se lo racconto a qualcuno andrò all’inferno con lui. Dice che siamo uguali, ormai. Dice che siamo maledetti. Mi fa schifo questa cosa che siamo maledetti, mi fa venir voglia di vomitare e vorrei urlare, e non so nemmeno se è la verità, Gesù, se fa star male, se è una specie di malattia, ma so che è una cosa sbagliata. Posso parlarne solo con te, lui non saprà mai che ne parlo con te. È un segreto. Tutto è un segreto. E non so se mi piacciono, i segreti. Lui mi ha fatto vedere il pozzo dove finiscono i bambini che raccontano i segreti, però ci ha messo sopra una lamiera perché dice che mi vuole bene, che mi vuole bene più di tutti gli altri messi assieme, non vuole che mi succeda qualcosa e io non devo assolutamente avvicinarmi al pozzo. Tanto non lo so a chi posso dire questa cosa, solo a te, nessuno mi crederebbe, non so proprio come dire questa cosa a mamma, mi vergogno, quando stavo per parlare con lei che mi sgridava ho sentito la gola che si chiudeva e mi mancava il fiato, mi viene il singhiozzo, mi manca l’aria, sento che sto per piangere e soffocare, qualcosa mi schiaccia la gola e il cuore si stringe e si blocca. Lui ha detto che mi succede così perché non devo dire nulla, è da quello che capisco che non devo dire nulla. Quando mi parla a bassa voce e si avvicina a me con quella faccia… non mi succederà niente, se mantengo il segreto. Mi starai vicino, Gesù? Posso mantenere il segreto per tutta la vita, se tu mi dai la forza, Gesù, se mi proteggi e non mi fai morire per questo. E se lui non tocca un altro. Nessun altro, ma prima di tutti mio fratello. Gesù… lui non lo tocca, un altro, io lo controllo ma devi controllarlo anche tu. E intanto proteggi tutti noi, e non farci morire. Ma lui non proteggerlo. Fallo morire se puoi. Fallo morire subito. Se lui muore, il segreto scompare, tutto scompare. Fallo morire. Non devo dirlo, è vero, è un brutto peccato. Perdonami, Gesù, continuo a fare l’arrogante, come dice la maestra, e a commettere peccati orribili, ma mi ricordo cosa ha detto il parroco dei peccatori. Che tu avrai pietà dei peccatori, che lo Spirito Santo scenderà anche su di loro. Dammi la forza, insegnami cosa devo fare per non commettere più peccati. Io voglio venire con te in paradiso. E ti chiedo scusa, Gesù, non tenere conto di quello che ti ho detto, cancella tutto. È colpa mia, colpa mia, colpa mia. Ho paura di morire e di andare all’inferno, ma sono nelle tue mani, così il buio va via e tu puoi salvarmi. Guarda dentro di me, vedrai che sono sincero, però… guarda dentro di me, guarda dentro di me, solo questo, Gesù. Perché se guardi dentro di me non ci sono più segreti, ma solo la verità… grazie di avermi ascoltato, Gesù. Grazie. E adesso fammi addormentare, ti prego, fammi addormentare. Amen…

Il bambino, al centro del buio, sente le lacrime che gli sfuggono dagli occhi chiusi, scivolano tra le ciglia, vanno a bagnare il cuscino. Ha sei anni, forse sei anni e mezzo. E certi aspetti del mondo non si possono recidere e gettare via perché il resto continui a sembrare incontaminato.

Ma adagio, sorgendo quasi fosse un ruscello, un’interferenza pacifica che si riversasse nella stanza in opposizione a quel ristagnare di tenebre, la stanchezza finale permette al bambino di allentare la tensione del collo e del torace, delle mandibole, delle gambe, di tutti i muscoli e i nervi dell’organismo; e il suo pianto è davvero corto, infinitesimale. Qualcosa dilaga nel buio, trasformandolo in un buio normalissimo, un buio nel quale sarebbe possibile perfino dormire.

E il bambino è talmente fragile, adesso, da credere che la salvezza sia reale. E, se non la salvezza, almeno una cura. Temporanea. Un sentimento, breve e indefinito, le cui conseguenze tuttavia apparissero, a un primo impatto, identiche alla salvezza.

Nuotiamo in questo cielo terso, dove non ci sono direzioni più valide di altre.

Luce Inversa, è così che si chiama.

Lo stato di regressione più avanzato ed evidente è quello di Siddiq. Ogni tanto perfino i lineamenti del suo volto paiono ringiovanire. Ma dal punto di vista fisico è quello che ha reagito meglio; si muove con agilità e scioltezza, si libra negli spazi come erba che dopo lo sfalcio venisse trascinata dal vento, le braccia che si dibattono con invidiabile sincronia, sbucando quasi fossero modanature di una carrozzeria brunita dalle maniche della t-shirt arrotolate sulle spalle. È qualche metro avanti a noi, costantemente qualche metro avanti a me e Vanessa.

Lei, invece, non riesco a inquadrarla. Il suo timore di perdere tutto non si armonizza con quella che riconosco come un’innegabile forza. Se per ora resiste, se avanza con noi, immagino che sia a causa dell’improvvisa paura di rimanere sola; la paura di deragliare, di smarrirsi. Ancora una volta.

Vanessa è bella, bella in quella che sembra l’unica maniera della bellezza, ed è caparbia. Ma voglio soprattutto che sia consapevole.

Qui non ci stiamo giocando un’opportunità.

Ci stiamo banalmente giocando tutto.

L’amico chimico di Primo Levi

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di Pasquale Vitagliano

Chiamatelo Ferro. All’anagrafe è Alessandro Delmastro, nato a Torino il 7 settembre 1917. Chimico come Primo Levi, che a lui dedica il racconto Ferro de Il sistema periodico e La carne dell’orso, nel quale, però, porta il nome di Carlo. Amante della montagna e capo partigiano nelle formazioni di Giustizia e Libertà.  Svegliarsi adulti. Vita di Sandro Delmastro, capo partigiano e amico di Primo Levi (Einaudi, 2025) è la biografia che Roberta Mori gli ha dedicato. Ricercatrice del Centro Studi Primo Levi, la Mori è riuscita a vascolarizzare la sua solida ricerca, tra documenti, corrispondenza e scritti inediti, con quella passione personale che può impegnare un’intera esistenza. Pertanto, questa biografia, in bilico tra personaggio letterario e drammatica testimonianza storica, irradia un luce aurorale generativa di nuovi sentieri di lettura e di studio. Non è solo la storia di Sandro, è la storia di un’intera generazione che ha arato e seminato il terreno della libertà.
Primo e Sandro si erano conosciuti all’università. Presto l’amicizia era nata tra loro. Eppure, non erano affini, non lo erano per origini, né per carattere. In comune, però, avevano l’amore per la montagna. Il padre di Sandro faceva il muratore, ma i suoi antenati erano stati fabbri e calderai nelle valli canavesane, dove d’estate da ragazzo aveva fatto anche il pastore. “Nella descrizione del carattere di Sandro”, scrive la Mori, “il confine fra realtà e letteratura si fa sottile”. La figura di Sandro risente dei personaggi avventurosi di Jack London, ma “è anche lontano parente del capitano MacWhirr, il protagonista di Tifone di Joseph Conrad”. Insomma, ci troviamo di fronte a un personaggio reale che proietta una sua luce speciale, quasi addirittura sapienziale e magica. Levi conserva una foto con Sandro che a tremila metri, a febbraio, mangia tranquillamente a torso nudo sotto il nevischio. Esprime una forza attrattiva che cancella tutto quello che sta intorno, anche i drammi della storia. Ad un certo punto Sandro scompare. Non abbiamo più sue notizie del periodo in cui egli è un ufficiale della Regia Marina. Lo ritroviamo, dopo l’otto settembre, in montagna, a 1480 metri in Val d’Angrogna, sopra Pra del Torno. In ottobre è stato nominato comandante del gruppo del Sap del partito d’azione. Anche Primo era in montagna, in Val d’Aosta, dove si era rifugiato con la madre e la sorella. Primo fuggiva, Sandro si nascondeva. Primo avrebbe voluto combattere, “ma non sapeva da dove cominciare”. Sandro, nella volontà di “dir no fino in fondo”, era diventato una “protesta vivente”. Arrestato dalla famigerata formazione fascista Ettore Muti, Alessandro Delmastro venne prima torturato, poi ucciso, nel tentativo estremo di mettersi in fuga, da un soldato bambino. Il cadavere venne lasciato sul selciato come monito orrendo. Quando considerarono terminata l’esposizione pubblica, gettarono il corpo inerte sopra un furgoncino dei rifiuti “con ostinato disprezzo”.
L’apparato fotografico confluisce dentro il percorso di ricerca, non ne è semplice corredo. Per quell’effetto che Sciascia seppe fissare con la parola entelechia, le foto proiettano il carattere di Delmastro, contestualmente ne prefigurano il tragico epilogo. Esemplare è la foto di copertina, con Sandro seduto su un sperone di roccia sulla Rocca Sella in Val di Susa; sembra rivolto verso “un altrove spazio-temporale”, come se guardasse la linea d’ombra della sua giovinezza che la guerra non gli consentirà di oltrepassare,
“Cara Ester, questo è il racconto dedicato a Sandro”. Tutto era cominciato il 24 maggio del 1974, quando Primo Levi spedì un breve messaggio alla sua vecchia compagna di Università Ester Valabrega, che di Delmastro era stata la fidanzata. Quel giorno Alessandro Delmastro era diventato Sandro. In un certo modo quella lettera segnava un dies natalis. La realtà, invece, vuole che egli sia sepolto a Zubiena, nella campagna piemontese. Ma il suo seme, davvero, grazie all’amicizia e all’amore per la memoria storica, è germogliato. “E’ stato raccolto e salvato”.

 

Sentimental journey

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di Carlotta Centonze

Provo ad aprire gli occhi, ma un dolore azzurro mi abbaglia. Quando calo di nuovo nel buio, come una molla le narici si allargano a far entrare più aria possibile. Il rumore della goccia di liquido che sento scorrere nel braccio è cristallino, il suo odore asettico mi punge fino alle lacrime. «Non si agiti, che altrimenti il liquido si riempirà di bolle.» La donna che mi parla ha un accento flemmatico, come se quello che ripete la annoiasse a morte. «Ci avevamo provato col primo occhio, ma lei è così ostinato. Le hanno dovuto azzerare anche il secondo.» Ora sento il suo profumo, un décolleté alla magnolia, ricco e carnoso. L’aria mi entra nel naso a fiotti, in risposta alla richiesta del petto su cui agisce una pressione costante, insopportabile. «La sterilizzazione parte dalla vista, è l’unico modo per mettervi alla prova prima dell’intervento definitivo.» Più parla, più ho la nausea. Appena la sento spostarsi, il suo odore viene rimpiazzato da quello troppo intenso di fiori recisi. Mi fa venire voglia di morire, su questo letto dalle lenzuola tirate e senza pieghe. Penso al mio corpo come a un imbuto, dentro ci passa un fiume schifoso, mi puntella e mi investe con la forza di un rigurgito acido e il suo puzzo marcescente mi cala in un sonno tondo come un uovo.

Il treno della metropolitana viene risucchiato dal buio della galleria, viaggiare è l’unico modo di sentire che i miei pensieri si spostano. L’aria che soffia dal tunnel è pesante del bruciato dei freni e dell’irripetibile mescolarsi delle nostre esalazioni.Sono in piedi vicino a un impiegato, ha la camicia zuppa di sudore e il fiato acre, diventa così insopportabile che mi sposto.
Mi siedo davanti a una ragazzina di tredici anni, è vestita per dimostrarne di più. Porta i capelli lunghi e folti sopra il viso, indossa un vestitino a quadri che sono sicuro sappia di sapone e sacchetti di lavanda.
Sono tentato di chiedere a sua madre di pagarla per lasciarmi la figlia a disposizione per una mezza giornata in studio.
Vorrei fotografarla, magari con Chiro. Poi cambio idea. Ultimamente appena concepisco un’impresa mi viene subito il desiderio di abbandonarla. Non credo sia rassegnazione o indolenza, piuttosto una persistente noia che mi impedisce di fare il minimo programma.
Il vagone piomba improvvisamente nel buio totale, l’aria si riempie di quell’olezzo ripugnante, mazzi di fiori che appassiscono.
Mi assale il panico, non so come farlo smettere.
Allora ho un’idea, apro la finestra, metto la testa fuori e poi mi lancio con tutto il corpo nella notte artificiale e profondissima.

Quando mi sveglio, mi ci vuole un po’ per capire dove sono. L’ospedale è dietro casa mia, non ho impiegato molto tempo ad arrivare e consegnare la busta che ho ricevuto nella buca delle lettere. Una convocazione d’urgenza ti piomba addosso e la giornata è da buttare. Ho maledetto il Ministero del Costume e ho preparato la borsa con un cambio.
Ora sono qui. Non vedo niente, se non nella mia testa, e finisco per pensare al passato, non avendo nulla da fare.
La donna di ieri non è ancora venuta. Mi rendo conto che vorrei fosse qui per coprire questo puzzo di fibra vegetale in decomposizione con il suo aroma familiare, di pane e olio di mandorle dolci.
Mi vengono in mente i suoi capezzoli, è lì che di sicuro si mantiene la nota più delicata del suo corpo. Pallide, maliziose, dolci roselline che solleticano il palato.
Ne ho visti di tutte le tipologie, li ho fotografati mentre il desiderio mi annebbiava la vista, ma questi non devo vederli per capirli, o almeno credo.
Mentre scatto delle immagini dei miei pensieri cercando di cristallizzare le pose delle sue gambe aperte verso di me, mi ricordo che ho sentito il suo odore nel buio della galleria, mentre sognavo.
Forse anche nel sonno le infermiere spiano per controllare l’esito della sterilizzazione?
Mi abbandono allo sconforto, e niente mi sembra più triste di non poter ammirare quei capezzoli.

Sto camminando sul lungomare inondato di sole.
Il mattino è gentile, canto una vecchia canzone, che forse ho appena inventato.
Mi ricordo che devo correre, gli altri mi aspettano. Quando arrivo al vicolo dove ci riuniamo sempre per tirare con la fionda, mi rendo conto che non vedo più nulla. Provo a urlare, ma non esce alcun suono.
Riconosco l’alito caldo di Abe, un fiato che sa di brodo di pollo anche se sta mangiando una frittella del venditore ambulante. Dietro al mercato, dove giochiamo, l’acqua si concentra in pozze tiepide che esalano i liquami degli scarti vegetali – cipollotti, funghi – ma anche delle budella animali – di galline, anatre e maiali.
Quell’odore mi commuove, per ragioni inspiegabili è come se creasse un tutt’uno olfattivo con le minestre bollenti della nonna, il vapore speziato che sale fino al soffitto in nuvole spesse.
Al buio non so usare le bacchette, allora provo a prendere gli spaghetti ficcando la mano intera nel piatto, sorprendendomi della mia stessa idiozia.
La mano, scorticata, puzza come una braciola di maialino da latte.

Non mi sono mai vergognato di dire che ho iniziato a usare la fotocamera per immortalare le donne con cui riuscivo ad andare a letto. Portavo poi le prove ai miei amici, che trovavo seduti nella nostra stanza, troppo piccola per starci in tre.
Ho sempre pensato che la vista conducesse tutte le mie azioni, ma non ne sono più sicuro.
«Lei reagisce benissimo alle cure, è uno dei migliori pazienti a sottoporsi alla prima fase del programma. Sta dando ottimi risultati.»
L’infermiera mi tocca dolcemente la fronte con la mano, il suo calore è rassicurante.
Vorrei che si sdraiasse vicino a me, per poter poggiare la testa sul suo petto e respirare il suo corpo, il collo, le ascelle.
Non so cosa dirle, le sue parole suonano false, come se le avesse ripetute troppe volte per dargli ancora un senso.
«Cosa succederà ora?»
Spero che non si sia accorta dell’angoscia nella mia voce.
Anche se quello che mi ha detto fosse falso, voglio coltivare l’illusione di essere davvero il suo paziente preferito.
«Non c’è fretta. Nei prossimi giorni le spiegheremo con calma la procedura.»
«Per quanto tempo dovrò stare ancora qui?»
«Per tutto il tempo necessario. Dovremo aspettare che la sua attività onirica si annulli, in modo da interrompere qualsiasi stimolo visivo del suo cervello. Vedrà, le piacerà e non vorrà più tornare indietro.»
Capisco che non era una coincidenza che i miei sogni fossero sempre più oscuri.
Non ci sono più dubbi che l’infermiera abbia visto le immagini prodotte dalla mia coscienza addormentata, e la cosa non mi dispiace.

Sono in un locale pieno di uomini.
L’unica ragazza che è nel bar è nuda e cammina da un lato all’altro del lungo tavolo, avanzando leggera, una vera coquette. Gli uomini la guardano e la toccano sulle gambe. Lei allora si china e le allarga. Loro scrutano in mezzo alla fica, schiusa come un frutto maturo, e avvicinano il naso e l’occhio alla fessura umida. Si spintonano per osservare, mentre la ragazza li lascia fare paziente. Un uomo le allarga le labbra tirando la pelle lucida e molle, vuole vedere meglio. Lì per lì non capisco cosa li attira, ma quando è il mio turno ne sono ammaliato e ci guardo dentro sperando di scorgere le mucose, di trapassare le viscere e scoprire infine l’ultimo segreto rimasto intatto, cioè il mistero del tempo.

La donna da una diventa molte, legate e vibranti. Calato nel buio d’improvviso, come un gattino cieco mi spingo anche io verso le loro cavità corporee, annusandone l’umidità stantia, cos’è questo odore di uovo? Una di loro partorisce una piccola sfera, e così tutte le altre. Lecco la pelle con i peli e il sudore eccitante delle ascelle e dell’inguine, le bocche piene emanano un lieve sentore di carne cruda, le nuche profumano di cuoio capelluto. Sto per lanciarmi sul culo e sui piedi di una ragazza bellissima, dopo che la vista improvvisamente è ritornata nitida e la vedo accucciata.
Fotografo quel momento in cui sembra che sia già morta: un feto, un uovo perfetto e bianco.
Ora che la vedo da vicino, la riconosco.
Un dolore dolciastro al petto e allo stomaco si espande in tutto il mio corpo.
Izumi.
Amore mio, sembri una barchetta sul fiume, il tuo alito di vegetazione mi sveglia il ricordo di tutta la vita insieme, ne ho scattato ogni momento, scoprendo che non potevo pretendere di conoscerti.
Vorrei abbandonarmi al tuo calore, al profumo dei tuoi angoli che è l’unica cosa che di te conosco bene.
Invece posso solo guardarti, e questo non basta affatto.

«Si svegli.»
Apro gli occhi, ancora intorpidito nel dolore ovattato del sogno. La vista mi è tornata, non è un buon segno.
Vedo l’infermiera per la prima volta, è brutta. Disprezzo le donne così poco curate e allo stesso tempo desiderose di attenzioni. Da quando sono qui non ha mai abbandonato quel suo tono accondiscendente, come se il trattamento riservato a me non fosse lo stesso che per tutti gli altri pazienti.
«È contento, vedo.»
«Veramente non so cosa pensare.»
«Meglio così, non c’è tanto da fare. Almeno ci abbiamo provato.»
Il suo viso non ha nulla di interessante, è una di quelle persone che danno l’impressione di non lavarsi mai i denti, il mio cervello ne ha già creato la puzza. Non sento più la fragranza di pane dei seni caldi. Tutta la sua figura mi crea una nuova nausea che mi schiaccia lo stomaco, non posso sopportare il suo patetico bisogno di essere guardata.
«Posso andare via quindi?»
«Nel pomeriggio le firmeranno le dimissioni. Sarà libero, almeno fino all’operazione definitiva.»
Mi sforzo di essere gentile e, anche se non so fingere, sembra essersela bevuta.
Resto da solo nella stanza che odora della mia urina, è da qualche giorno che non mi lavo.
Le luci mi infastidiscono, chiudo gli occhi e ripeto una parola qualsiasi come un mantra, per liberarmi da ogni pensiero.

Sulla spiaggia, il vento trasporta il fetore delle alghe depositate, la salsedine mi investe a zaffate scompigliando i miei pochi capelli.
Quando Izumi è morta, ho eiaculato cinque volte in tre ore.
Ogni volta mi sembrava di sentirmi meglio, di allontanarmi altrove.
Guardo il sole appoggiarsi sulle case vicino al mare, un tuorlo delicato sulle palazzine scolorite, la sua luce arancione è così bella che mi fa piangere. Ho attraversato la città per arrivare qui, e anche le camicie degli impiegati, milioni di camicie tutte uguali, persino quelle mi hanno fatto commuovere.
Il mondo è così bello che ti fa male.
Lo guardo e penso che, finché ci sono, ho un’intera città da fottere.

(l’immagine: illustrazione di Chiara Ghidelli)