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La vita esemplare di Fabio Maniscalco, archeologo in trincea

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di Tomaso Montanari

(Pubblichiamo l’intervento di Tomaso Montanari letto alla presentazione romana del volume di Laura Sudiro e Giovanni Rispoli, Oro dentro. Un archeologo in trincea: Bosnia, Albania, Kosovo, Medio Oriente, Skira 2015. Nato a Napoli il primo agosto 1965, Fabio Maniscalco, archeologo, è protagonista di una serie di originali, pionieristiche esperienze nella tutela del patrimonio culturale minacciato, sovente offeso, dai conflitti insorti tra la fine del Novecento e i primi anni Duemila. Rielabora e sistematizza le conoscenze sperimentate in Bosnia – Sarajevo in particolare –, Albania, Kosovo, Cisgiordania dando vita a una nuova disciplina, per l’appunto la tutela dei beni culturali nelle aree di crisi, che insieme all’archeologia subacquea diventa per lui materia d’insegnamento all’Orientale di Napoli. Un tumore provocato dall’esposizione all’uranio impoverito durante le missioni nei Balcani lo stronca, a soli quarantadue anni, il primo febbraio 2008.)

oro dentroOro dentro. Un archeologo in trincea: Bosnia, Albania, Kosovo, Medio Oriente è un libro che bisognava scrivere: Laura Sudiro e Giovanni Rispoli lo hanno fatto nel migliore dei modi. L’ ‘oro dentro’ del titolo è quello, metaforico, di chi ha il cuore abbastanza grande da spendere la propria vita per salvare un bene comune (proprio quel patrimonio culturale: e cioè la memoria e il futuro, di paesi in guerra). Ma è anche quello, purtroppo letterale, che l’uranio impoverito delle bombe Nato esplose in Kosovo ha fatto penetrare, insieme ad altri metalli, nel corpo in cui batteva quel cuore: fino a ucciderlo. Sono queste le due terribili facce della breve, ma meravigliosa, vita di Fabio Maniscalco.

Se questo Paese avesse ancora un servizio pubblico televisivo, la figura di Fabio (che non ho avuto la fortuna di incontrare di persona, ma che dopo aver letto questo libro mi sembra di conoscere da sempre) dovrebbe essere al centro di un racconto fatto di documentari, rigorose inchieste giornalistiche e (perché no?) anche di fiction capaci di far conoscere a tutti un italiano di cui essere, finalmente, fieri. Un italiano da cui imparare qualcosa.

Questo libro, d’altra parte, fa esattamente questo: anzi, fa qualcosa di più. È sempre raro (ma oggi è rarissimo) che un libro riesca a storicizzare la figura di un contemporaneo senza affogarla nella retorica, o senza ridursi ad un’inchiesta o ad una denuncia. Oro dentro, invece, ci riesce: è come se la materia della nostra vita quotidiana, la nostra cronaca, le nostre esistenze così seriali, simili, piccole e in fondo irrilevanti riuscissero qui ad apparire in una luce esemplare. Si arriva all’ultima pagina commossi, e profondamente turbati: ma soprattutto pieni di una fiducia rinnovata nelle possibilità di ognuno di noi.

Laura Sudiro e Giovanni Rispoli sono riusciti a trasmetterci il messaggio essenziale della vita di Fabio Maniscalco: e quel messaggio è che un singolo individuo può fare la differenza. Sempre: e – pensate! – perfino in Italia. Anche di fronte a sistemi corrotti e impermeabili (la nostra povera università), o ben decisi a non farsi cambiare (l’esercito): e perfino nel fuoco di terribili conflitti armati, mossi spesso da interessi imperscrutabili, giocati così in alto sopra le nostre teste.

Questo libro, dunque, fa quello che dovrebbero fare la scuola, o per l’appunto l’università: farci capire (quando siamo ancora in tempo) che la nostra vita è preziosa, importante. Forse essenziale. Può essere il granello che finalmente inceppa la macchina del sistema. Può essere quel millimetro in più che riesce a fare saltare lo stato delle cose. Può lasciare un segno. Può fare, davvero, la differenza.

fabio maniscalcoFabio cresce a Napoli, dove la progressiva distruzione del patrimonio artistico pare – come molte altre cose – fatale, irreversibile, immutabile. Se crolla un Lungarno nella mia Firenze (giustamente) il mondo tiene il fiato sospeso: ma se l’ennesima chiesa storica della Napoli in cui ho scelto di insegnare sprofonda nell’ennesima voragine, la notizia non arriva nemmeno al telegiornale regionale. Non inganni la propaganda di Pompei che rinasce e della Reggia di Caserta che risplende: chiunque vive in Campania conosce il vero stato delle cose.

Ma Fabio – che lo conosce come nessuno – non si arrende, e non si abitua: studia, invece. E non per fuggire: ma per cambiare le cose. A Napoli succede. C’è un bellissimo film (La seconda natura, di Marcello Sannino) che racconta l’esperienza di Gerardo Marotta e dell’Istituto di studi filosofici di Napoli. «La rivoluzione si fa studiando»: è questa la frase chiave del film. È questo l’unico modo di uscire dalla nostra condizione servile di uomini ad una sola dimensione – quella economica. L’unico modo di combattere e cambiare una classe dirigente dominata – dice Marotta – dalla «regina Ignoranza». La voce profetica di Marotta e la testimonianza eroica di Fabio Maniscalco arrivano all’Italia e all’Europa dal luogo da cui meno te lo aspetteresti: dalla Campania, che lo stesso Marotta definisce la pattumiera d’Europa, una regione popolata di ombre, di condannati a morte. È da questa terra – per millenni la più bella e feconda d’Europa –, da questa terra oggi ridotta ad un pozzo di veleni, da questa terra che avrebbe bisogno di tutto, che si alzano queste voci: fragili, e insieme fortissime.

La sua voglia di riscatto spinge Fabio, dopo una laurea in archeologia alla Federico II, ad andare a difendere il patrimonio dove le condizioni sono ancora più estreme: ufficiale a Sarajevo, e poi nel Kosovo. Ed è impossibile non pensare che sia stata la fragilità di Napoli ad insegnare a Fabio l’amore per le fragilità ancora più radicali. A Napoli, uno come Fabio non diventa egoista. Anche se Fabio è tormentato da quello che gli autori chiamano «la spirale del precariato»: una delle abissali vergogne dell’Italia presente. Ma proprio qui, in Italia, Fabio scopre che non ci si salva da soli.

In compenso è da solo, a mani nude, che il tenente archeologo Fabio Maniscalco riesce a fare quello che nessuno Stato sovrano sembra interessato a praticare: attuare l’articolo 7 della Convenzione Internazionale dell’Aja del 1954, che prevede che ogni esercito abbia un nucleo specializzato nella tutela del patrimonio culturale. È un’idea semplice e rivoluzionaria: mettere la conoscenza, la cura, la tutela nell’occhio del ciclone dei conflitti. Frivolezze? Preoccupazioni delle anime belle? No: sacrosanta sollecitudine di chi sa che, passata la guerra, la ricostruzione morale e culturale sarà impossibile se non potrà basarsi su un patrimonio monumentale ancora vivo e condiviso. È la lezione dell’Italia del dopoguerra: e Fabio la ricorda.

Ma Fabio è uno dei pochissimi: sono temi davvero marginali nel discorso pubblico. E la pubblica opinione non ha strumenti per giudicare. Per esempio, i caschi blu dell’arte voluti dal ministro Franceschini e accolti dall’Unesco sono una soluzione, o sono solo l’ennesimo spot? Quanto avrei voluto leggere un editoriale di Fabio Maniscalco, per poterlo capire!

E intanto nessuno ne parla. Fa impressione ricordarlo oggi, di fronte alle devastazioni dei barbari del sedicente Stato Islamico, ma anche gli stati europei – anche l’Italia – hanno contribuito, direttamente o indirettamente, alla distruzione di un’enorme fetta del patrimonio culturale del Kosovo. Lo sappiamo? Esiste qualche organo di stampa che sia interessato a denunciarlo, a documentarlo, a ricordarlo? Pare di no.

Fabio MANISCALCO

Fabio Maniscalco lo sapeva, e per anni ha combattuto con tutte le sue forze: andando sul campo, documentando, fotografando, studiando, fondando osservatori, scrivendo ai governi, mobilitando la pubblica opinione. Un archeologo, uno studioso, un soldato: ma prima un cittadino. Un cittadino esemplare.

Dietro tutto questo c’era una convinzione profonda: lottare per il patrimonio, significa lottare per i diritti fondamentali, per la salute psichica e fisica delle persone. Anche questa è una lezione imparata a Napoli: il veleno nella terra e la distruzione dei monumenti sono due facce della stessa medaglia. Quando dalla terrazza della Reggia di Carditello, devastata fino a poco tempo fa dalle razzìe della Camorra, si alza lo sguardo verso la campagna si vede un turbine di gabbiani: che non segnala il mare, ma la discarica di Maruzzella, criminalmente realizzata su un terreno acquitrinoso in cui il percolato penetra fino alla falda, avvelenando i frutteti circostanti, e compromettendo per decenni la catena alimentare, e dunque l’uomo. In questa distruzione simultanea dell’ambiente, del paesaggio, e del patrimonio storico e artistico pare di scorgere davvero «il cadavere della patria» (per usare un’espressione che Raffaello adoperò per descrivere la Roma classica devastata dai pontefici medioevali), cioè il volto sfigurato dell’Italia.

Fabio Maniscalco l’aveva capito: la lunga guerra per l’ambiente (usiamo un’espressione di Elena Croce), la lunga guerra per il patrimonio culturale, è anche la guerra per la nostra salute fisica e mentale. Come in un mito antico e crudele, Fabio ha sperimentato questa intima unione sulla propria pelle, fino a morirne: non basta essergli grati, bisogna proseguire il suo lavoro.

Aver scritto questo libro è stato il primo passo per farlo. Ora tocca a noi.

Le barisien

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di Nicola Fanizza

polpi

A volte, quando entro in un ristorante e vedo esposti in bella vista dei polpi arricciati, mi accade di pensare a Michele Cardassi, un anarchico libertario che ho conosciuto negli anni Sessanta. Fu proprio lui a proporre – in occasione della prima Sagra del Polpo, tenutasi a Mola di Bari nel 1964 – di utilizzare la centrifuga della lavatrice per arricciare i polpi. Questa operazione, tradizionalmente, si fa agitando i molluschi su un cesto e termina nel momento in cui i polpi diventano, per l’appunto, tutti ricci, con i tentacoli che sembrano dei veri e propri boccoli. Le carni allora diventano tenere e croccanti e i cefalopodi sono pronti per essere consumati crudi o alla brace.

Michele era un individuo davvero fuori dal comune, aveva un’intelligenza analogica, un modo di pensare che gli consentiva di percepire somiglianze e corrispondenze là dove nessun altro avrebbe saputo trovarle.

Ricordo la sua corporatura esile, i suoi occhi vivaci e il suo sguardo intenso. Ogni volta che lo incontravo, mi sorprendeva con le sue affabulazioni. Emergeva dai suoi pensieri una singolare miscidanza di vigorosa maturità e di freschezza infantile.

Era nato nel 1906 a Mola in una famiglia di modeste condizioni sociali. La madre cuciva in casa e il padre faceva il barbiere, un mestiere che impone l’ascolto degli altri. Parlava poco, con parole sorvegliate per non urtare la sensibilità dei clienti, e sempre a tempo debito. Da qui la tendenza di Michele – ereditata, forse, dal padre – a non sprecare il fiato.

Michele aveva manifestato sin dalle elementari la sua predisposizione per le materie letterarie e in particolare per il disegno. Quando la maestra gli dava la consegna di scrivere un tema, la sua fantasia mirabilmente viva e limpida gli consentiva di veicolare ardite analogie. La maestra, però, non riusciva a capirne il senso e lo invitava a scrivere senza i suoi soliti «voli pindarici». Michele non fu compreso neppure da suo padre che, non tenendo nel debito conto le sue vere attitudini, lo iscrisse alla scuola marittima, dove conseguì la patente di motorista. Lo studio delle discipline scientifiche – meccanica, termodinamica ed elettrotecnica – non si rivelò, però, del tutto inutile. Quelle conoscenze si riveleranno oltremodo preziose, poiché gli consentiranno di estendere il suo orizzonte.

Dopo aver ottenuto il libretto di navigazione, Michele trovò un imbarco su un motopeschereccio con la qualifica di aiutante motorista e partì per il Levante. Durante la sua permanenza a bordo, utilizzava al meglio i tempi morti per leggere alcuni libri che gli erano stati consigliati da due suoi coetanei – Onofrio Martinelli e Bruno Calvani –, che condividevano con lui la passione per la pittura. Michele partecipava alle loro discussioni. Sentiva il loro pensiero come una forza sensibile quanto lo è il calore, la luce e il vento. Diceva altresì che tale forza era presente anche nella sua mente, era la sua capacità di stabilire nuovi legami tra idee apparentemente disparate.

Sulla scorta delle sue frequentazioni e delle sue riflessioni si accorse ben presto che non era tagliato per la vita sul mare. Decise, pertanto, di seguire la sua autentica predisposizione e si diede all’arte del ritratto.

Quando gli veniva chiesto di eseguire un ritratto, Michele chiedeva al committente – mentre era in posa – di parlare di qualsiasi cosa e, preferibilmente, di quei momenti rari, violenti e fuggitivi che avevano costellato la sua vita. Voleva sentire il suono della sua voce, voleva scandagliare i sotterranei della sua anima per individuarne i tratti ineffabili e restituirli alla vista nel disegno del suo volto. Il ritratto disegnato doveva sempre raccontare la storia in un uomo in carne ed ossa, doveva parlare delle sue sofferenze, doveva parlare dei suoi desideri, doveva parlare della sua vita. Di fatto il disegno di un volto ci colpisce sempre in maniera diversa dall’immagine realistica di una foto, poiché parla alla parte più profonda di noi stessi.

Va da sé che un ritrattista non poteva vivere per molto tempo in un piccolo paese. Ben presto, infatti, cominciarono a mancargli il lavoro e, insieme, il respiro. Decise, pertanto, di raggiungere il suo amico Onofrio Martinelli che si era trasferito da poco tempo in Francia.

Questo Paese era diventato da pochi anni la meta prediletta dei fuoriusciti antifascisti, e Michele si gettò a tuffo nel contesto tanto caotico quanto stimolante della Parigi della seconda metà degli anni Venti. Qui la sua enorme curiosità lo porta a frequentare i movimenti libertari e gli ambienti delle avanguardie artistiche e – stando a quello che mi raccontò – strinse amicizia con Picasso, il quale lo avrebbe rappresentato in un ritratto in bianco e nero. Nondimeno l’esistenza di quel quadro è un vero e proprio mistero, poiché nessuno è riuscito mai a vederlo!

Gli anni vissuti a Parigi furono fra i più belli della sua vita. Le autorità francesi erano oltremodo tolleranti nei confronti dei fuorusciti italiani. Dipingeva solo quando ne aveva voglia; mangiava solo quando aveva fame; si abbandonava all’istinto e all’effervescenza magmatica del momento; viveva una dimensione di tempo senza tempo; era un autentico flâneur. Il suo rapporto con Parigi era diventato a tal punto empatico da fargli «dimenticare» persino la sua terra e la lingua dei suoi genitori. Michele parlava in francese anche quando incontrava i suoi conterranei. Nondimeno a ricordargli le sue origini pugliesi ci pensarono i suoi amici parigini: infatti, gli affibbiarono il nomignolo Le Barisien.

Dal suo fascicolo personale – conservato presso il Casellario politico centrale –, apprendiamo che nella primavera del 1930 Michele era rientrato in Italia e aveva manifestato in più occasioni la sua ostilità nei confronti del regime fascista. Da qui l’attenzione degli organi della polizia nei suoi confronti. La Commissione Provinciale di Bari decise di limitare la sua liberta personale e lo inserì «nell’elenco Categ. 5^ delle persone pericolose da arrestare in alcune contingenze».

Ecco qui di seguito il dispositivo argomentativo dell’Ordinanza del 5 luglio 1930, con cui venne «sottoposto ai vincoli dell’ammonizione»:

«Cardassi Michele di Natale ha sempre professato idee libertarie, delle quali ha tentato di fare propaganda ogni qual volta se ne è presentata l’opportunità.

Rimase alcuni anni in Francia, ove, vuolsi, abbia fatto parte di organizzazioni operaie estremiste, fra le quali svolgeva attiva propaganda antinazionale»*.

Per lui, che aveva le gambe nervose e infaticabili, la limitazione delle sue possibilità di movimento nello spazio e nel tempo era un duro colpo. Si sentiva come un leone in gabbia. Veniva continuamente sorvegliato, era circondato da delatori, e per di più non trovava lavoro. E tuttavia ciò che, probabilmente, lo spinse ad andare via da Mola di Bari fu la distanza che avvertiva nei confronti di una città che, improvvisamente, gli era diventata ostile. Era venuto meno il tessuto delle relazioni degne. Mola per Michele era diventata un inferno.

L’occasione propizia gli capitò nel febbraio del 1933, quando riuscì, finalmente, a espatriare clandestinamente, «valicando il confine nei pressi di Postumia» (Slovenia). Non appena superò la frontiera, Michele vide il cielo riempirsi di nuovi colori.

 

 

 

*Roma, Arch. Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Casellario politico centrale, Michele Cardassi, b. 1071. Michele Cardassi, in quanto «ammonito», per due anni doveva rincasare prima delle 20 e uscire dopo le 7 del mattino. Due volte la settimana aveva l’obbligo di presentarsi dai carabinieri e non poteva «trattenersi abitualmente nelle osterie, bettole o in case di prostituzione».

da “Sonnologie”

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[Presentiamo alcuni testi tratti dalla sezione iniziale di Sonnologie, Zona, 2016]

di Lidia Riviello

 

1.

i clienti si spingono oltre il
sonno nel vetroresina trattato

l’infusione sottovuoto è carissima

solo sulle barche se lo permettono un sonno per intero.

provenire da un paradiso
reinvestire nel poker

 

l’istituto lascia accese le vetrate
aperte le sedie a sdraio all’ingrosso
che non vedi ancora sulle spiagge

 

in questo sonno
solo il cinque per cento dei sogni
contiene palme mare sabbia tropicale.

l’istituto lascia accese le vetrate

 

 

sulle sponde
molti uomini decidono
se farsi fotografare prima del sonno

 

sul controllo delle nascite dei futuri
insonni sono stati scritti interi trattati.

 

si fa presto a sostituire questo trattato
visivo, la ventraia dipinta in un angolo della
sala con il panorama delle seychelles
taggato alle spalle.

sull’uso e non sul significato dei sogni

 

l’antiossidante per chi russa,
non credere sia una forma di
amore, la provano anche sugli
orsi.
piace vedere eventi di successo in serie di autoscatti
…………………………………………….riabilitativi che non devi
…………………………………………….intendere
…………………………………………….come tecnica erotica camuffata.

 

di questo sonno conservano molte versioni hd,
la programmazione in sala, l’esaltazione dell’insonnia.

il cliente non reagisce all’ingerimento di salmone

 

quelli nelle balaustre fredde del riposo dicono che i diversi livelli di
difficoltà impediscono la rimozione delle strutture, anche del fitness.

………………………………..non vengono ascoltati e per fortuna si dorme si
………………………………..sognano i cavalli
………………………………..così come sono stati sempre rappresentati.

 

qualcuno suggerisce di intenderlo come splendore del
rudere, l’addestramento al sonno,
un’attività che può dirsi del momento

…………………………………..ma nel bosco si fa fatica a convincere
………………………………….. tutti dell’infondatezza di un qualsiasi
………………………………….. prodotto pensato per il suo tramonto.

per la ostinata età del realismo si provocano nel cliente
delle reazioni che lo inducono a produrre molte visioni
superficiali come quella della città rossa

 

la camomilla cancellata
da tutte le schede dei profitti genera un problema di
esaurimento delle immagini mobili,

………………………………risolve la questione della cartellonistica fissa
………………………………in alcune località del litorale laziale.

 

i clienti dimenticano facilmente gli omaggi, il gesto dell’anulare
piegato teneramente ad indicare pretese di punti sulle spese
grandi marche durante i mondiali.

la performance divora l’azione politica

 

fuori dal mercato avremmo un altro aspetto, ma
la minoranza di cose sagge e meravigliose
ne conosce talmente che l’indotto, il marchio, il riciclo
fioriscono indisturbati
nel tribal

andrea mantegna non viene
esposto per un equivoco fra
prospettiva e orizzonte di attesa.

(…)

il sonno non è assicurato

 

sull’isola il cliente teme un colpo di sonno

………………………………….un colpo solo
andato a fondo nella preistoria, sul dorso
del pesce
si raffigura nel binocolo il naufragio del materno.

 

assiste alla sindrome lattea del dormiente successivo,

 

non si possono sognare mani
ma capita di forare il male senza impedire una nascita

mercanzia onirica
se l’uomo non dorme perde una qualità

 

se avessero costruito al toro un
mondo questi visualizzatori
non funzionerebbero sempre, sarebbero solo architettura

 

non reagiscono dentro la catena
se lasciati liberi nella cornice

 

una sola vena in trasferta
al passaggio dell’autoerotismo
si alimenta in questa specie di sonno

 

quando la vista splende, il sogno perde molto
gas, esalta definitivamente il mondo delle pose.

Da “La Resistenza dell’Impero”

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di Michelangelo Zizzi

Dalla galera i complici lanciano occhiate a rate
tra le non rade grate di sbarre.
Qui non si vede che un monaco,
un savio pare forse che il saio
rastrema in una luce di gloria,
lo si vede che passeggia con sbirri
nei cortili incantati dalla pioviggine,
il volto trapassa nel pertugio da sauro
con occhi a lato verso l’alba
orior che dalle pietre fitte si sporge
nell’antichità di rettile degli arredi
d’ombra d’oblò del carcere.

Non si dà vera vita se non nella falsa. Sulla tetralogia di Elena Ferrante/2

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[segue da  qui]

di Sara Farris*

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«Smarginatura» delle questioni di classe e di genere

Con la smarginatura i confini si dissolvono. Ma il tema della scomposizione dei margini corre lungo i quattro libri in modo meno esplicito e più metaforico quando la narrazione affronta questioni di confini di classe e di genere. Lena e Lila sono cresciute in una povera famiglia patriarcale dove era abbastanza normale vedere i propri padri picchiare le madri, così come, più generalmente, i maschi le femmine. Questi episodi di violenza assumono di fronte ai loro occhi un carattere quasi naturale e ineffabile: sono elementi ordinari della vita quotidiana. Eppure, entrambe le ragazze lottano, fin dai primi anni, ognuna a suo modo, per la propria indipendenza e per la propria emancipazione da un ambiente che le opprime e che riconoscono come profondamente ingiusto nei confronti delle donne. Lila è la prima a riconoscere il dominio maschile come una forma di potere, che lei decifra non in modo teorico, ma per questo in modo non meno radicale. Dopo la delusione per la fine di un amore intenso e clandestino con un giovane intellettuale (Nino), Lila decide di lasciare suo marito, uomo autoritario e ottuso, per stare con Enzo, che non le può certo garantire il livello di benessere del marito, ma che in compenso le sa trasmette integrità e passione politica. E soprattutto la rispetta. Lavorando come operaia Lila si scontra soprattutto con il sessismo che domina il suo ambiente di lavoro insieme agli altri problemi che affliggono le madri lavoratrici. Lo descrive in un discorso che assomiglia al potente, quanto memorabile, monologo di Giammaria Volonté ne La classe operaia va in Paradiso:

Disse sfottendo che non sapeva niente della classe operaia. Disse che conosceva solo le operaie e gli operai della fabbrica dove lavorava, persone da cui non c’era assolutamente niente da imparare se non la miseria. Ve l’immaginate, chiese, cosa significa passare otto ore al giorno immersi fino alla cintola nell’acqua di cottura delle mortadelle? Ve l’immaginate cosa significa avere le dita piene di ferite a forza di spolpare ossa d’animale? Ve l’immaginate cosa significa entrare e uscire da celle frigorifere a venti gradi sotto zero, e prendere dieci lire in più all’ora – dieci lire – per l’indennità freddo? Se ve l’immaginate, cosa credete di poter imparare da gente che è costretta a vivere così? Le operaie devono farsi toccare il culo dai capetti e dai colleghi senza fiatare. Se il padroncino ne ha necessità, qualcuna deve seguirlo nella camera di stagionatura, cosa che chiedeva già suo padre, forse anche suo nonno, e lì, prima di saltarti addosso, quello stesso padroncino ti tiene un discorsetto collaudato su come lo eccita l’odore dei salumi. (Vol. 3, p. 106).

Se Lila è la prima a comprendere il potere dei confini di genere, è anche la prima a comprenderne la fragilità: sarà infatti lei ad incoraggiare Alfonso, suo cognato, a vivere l’omosessualità in modo tranquillo. Lena, invece, scopre e sfida i confini di genere in un modo molto più libresco, ma non per questo meno capace di trasformarla. Mariarosa, sua cognata, la introduce al femminismo. La fa partecipare a gruppi di autocoscienza femminile. Lena è rapita, in particolare, da Carla Lonzi e dal suo famosissimo Sputiamo su Hegel. In questo saggio, la Lonzi propone di applicare la dialettica hegeliana servo/padrone al rapporto uomo/donna. Le donne hanno bisogno di diventare soggetti di una storia rinnovata, mettendo fine ad una condizione nella quale sono semplicemente un’ipotesi formulata da altri.

Come è possibile, mi dissi, che una donna sappia pensare così? Ho faticato tanto sui libri, ma li ho subìti, non li ho mai veramente usati, non li ho mai rovesciati contro se stessi. Ecco come si pensa. Ecco come si pensa contro. Io – dopo tanta fatica – non so pensare. Nemmeno Mariarosa sa: ha letto pagine e pagine e le ricombina con estro, dando spettacolo. Tutto qui. Lila invece sa. È la sua natura. Se avesse studiato, avrebbe saputo pensare a questo modo. (vol. 3, p. 254-5).

Lena scopre il potenziale trasformativo del pensiero femminista e della ribellione alla subalternità di genere; questa scoperta le cambia la vita e la getta subito in un groviglio fitto di contraddizioni. Ciò che la affascina infatti delle teorie femministe e dei gruppi di autocoscienza non è il loro attivismo, né le implicazioni politiche della loro ribellione; ma il fatto che questo modo femminile di pensare suscita in lei la stessa ammirazione e subalternità che ha sempre sentito nei confronti di Lila. Lena non usa infatti la sua nuova cultura femminista per sentirsi più vicina a tutte le altre donne, ma solo per essere più vicina a Lila. A differenza dell’amica – che riscatta la propria esperienza personale di abusi e di sfruttamento in fabbrica in lotta pubblica – Lena inizialmente sfrutta l’esperienza del gruppo femminista come carta da giocare a proprio vantaggio nella sua personale competizione con Lila. Anche in seguito, quando decide di scrivere un saggio sulla storia della cultura occidentale come cultura nella quale “gli uomini fabbricano le donne”, Lena ci parla di questa decisione enfatizzando ambiguità e motivazioni personali. Scrive sulle donne assecondando il pensiero femminista perché vuole fare colpo su un uomo: Nino. Sostiene la presa di coscienza delle donne e subito permette al suo amante di mancarle di rispetto e di ingannarla, mentendole. Tutti i passaggi del terzo e quarto volume sui rapporti di Lena con il femminismo e con le femministe sono perturbati dall’ansia e dai sintomi della sindrome dell’impostore. Da scrittrice ormai affermata, può far credere ai suoi lettori di essere riuscita a rompere con successo le barriere del canone letterario dominato dai maschi – il suo primo libro era un testo all’avanguardia per le sue esplicite scene di sesso, scritto proprio alla vigilia della rivoluzione sessuale – ma non può mentire a se stessa. La sua mancanza di sicurezza e di autenticità rispetto al suo impegno intellettuale e femminista non può essere disgiunto dalle sue crisi di autostima rispetto alla sua appartenenza di classe. Superando i confini di genere, le barriere del canone letterario e perfino le forme normative della rispettabilità borghese – lascia suo marito e le sue figlie per Nino, il suo amore di gioventù – Lena dà in realtà forma alla sua ansia per la sua incerta identità di classe. L’educazione e il matrimonio le hanno infatti permesso di fare una scalata sociale lasciandosi alle spalle il mondo popolare nel quale era nata per entrare a far parte della classe media riflessivo. E tuttavia si sente sempre estranea ad entrambe le realtà sociali. Mentre Lila supera i confini del proprio corpo fino a temere la disintegrazione del mondo che la circonda, Lena oltrepassa i limiti della sua identità di classe e di genere. Mentre Lila sembra affrontare il terremoto emotivo e sociale che la sovrasta con determinazione, cercando disperatamente di proteggere se stessa e suo figlio, Lena lascia che tutto ciò per cui vive e che la circonda cada a pezzi: il suo matrimonio, la sua relazione con le figlie e con se stessa.

E tuttavia, la Ferrante complica, con l’intelligenza delle soluzioni narrative, la logica binaria che oppone l’immagine di Lila, persona autentica, a quella di Lena, personaggio invece condannato all’inautenticità. Non è infatti la apparentemente falsa e autoironica Lena la stessa che ci racconta le sue battaglie per essere una persona vera con appassionata onestà? Se infatti al suo personaggio, che viola i confini delle gerarchie di classe e di genere, è negata la solidità tanto di convinzioni salde quanto di godere una dignità irreprensibile, quello che tuttavia lei ci lascia come narratrice è invece la sincerità: la lotta per la verità nonostante la consapevolezza del suo impossibile possesso.

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Il doppio e il perturbante

È stato osservato che la tetralogia di Elena Ferrante appartiene alla tradizione dei romanzi costruiti su una coppia, una coppia memorabile. Come Fastaff e il principe Hal, come Settembrini e Naphta, i personaggi di Lena e Lila ci rimangono impressi per la forza della loro relazione quasi simbiotica.

Per comprendere a pieno il significato di questi romanzi, e della loro enigmatica conclusione, mi sembra importante invece pensare a Lena e a Lila come a due facce della stessa persona; in altre parole, propongo di immaginare Lila come una proiezione simbolica dell’immaginazione di Lena. Se vale quest’idea, la tetralogia può essere interpretata anche come una narrazione del doppio e del perturbante, come nel caso del William Wilson di Poe o del Dorian Gray di Wilde. È stato Freud, come è noto, a legare il tema del doppio, presente nella letteratura tedesco dell’Ottocento, al tema del perturbante (das Unheimliche). La presenza di uno schema narrativo che duplica lo stesso destino, gli stessi misfatti e perfino gli stessi nomi nella vita di due persone diverse (vale a dire il protagonista e il suo doppio) è ciò che crea la sensazione inquietante di qualcosa di strano e perturbante. In altre parole, ciò che rende una serie di eventi diversi e identici all’interno di una narrazione come esperienza del perturbante, è la sensazione, se seguiamo Freud, che le coincidenze non sono casuali, ma pezzi di un puzzle che nasconde un significato fatale. E ancora più importante è il fatto che per Freud il perturbante si genera dall’intuizione che il doppio nei romanzi non sia una persona reale ma un automa o un’ombra immaginaria, sulla quale il protagonista proietta parti di sé che non conosce o che non accetta. Se vale questa prospettiva, è difficile non osservare che la tetralogia di Elena Ferrante ha tutti gli ingredienti per essere considerata come una narrazione del perturbante.

Nino, l’uomo amato da Lila da ragazza, diventa, col procedere della narrazione, l’amante e il partner di Lena da adulta. Ma Lila, da piccola, ha anche sempre sognato di diventare scrittrice; e sarà questa la professione di Lena. Sia Lila che Lena hanno due figlie più o meno nello stesso periodo e Lila chiama la sua Tina, dal nome della bambola di Lena. Le due figlie sembrano ripetere la stessa traiettoria delle madri: Tina è precoce ed estremamente intelligente proprio come Lila, mentre Imma, la figlia di Lena, è una bambina abbastanza comune. Ancora più significativo è il fatto che la figlia di Lila sparisce nel nulla, esattamente come Tina, la bambola di Lena, è sparita anni prima senza più essere ritrovata. Almeno fino alla fine del romanzo…. E tuttavia, il susseguirsi di queste coincidenze non coincide mai con una semplice ripetizione dell’identico. Ognuna di esse si presenta in fasi diversa della vita delle due amiche. Più precisamente, Lena “realizza” i sogni della sua infanzia e adolescenza – come quello di diventare l’amante di Nino e una famosa scrittrice – in età adulta. Ed è all’apice del suo successo come scrittrice e come femminista che Lena rivive, questa volta per interposta persona, il suo complesso di inferiorità verso Lila nel rapporto quotidiano fra sua figlia e la figlia di Lila, la geniale Tina. E questa è probabilmente la ragione per cui Tina deve sparire… per la seconda volta! La sua presenza come reincarnazione di un doppio inquietante di Lena le impedisce di rinascere da se stessa.

Passo dopo passo, la Ferrante ci porta a scoprire il rapporto fra le due protagoniste come l’incontro e il desiderio di Lena con il proprio doppio. È un incontro carico si sofferenza e di angoscia, ma di cui ha bisogno per trovare se stessa. La Ferrante non racconta lo sviluppo del personaggio di Lena come un percorso lineare, come una sorta di maturazione di potenzialità già esistenti nel suo carattere. Lena da adulta non è la versione matura e dischiusa del personaggio Lena da bambina. Piuttosto, la sua personalità ha bisogno di un confronto e di un rispecchiamento continuo con Lila, e di riconoscerla come suo doppio (e poco importa qui capire se Lila sia un personaggio fittizio o reale) per incarnarsi realmente. Ed è forse per questa ragione che solo alla fine del quarto volume, proprio nelle ultimissime righe, dopo che misteriosamente ritrova nel suo appartamento le due bambole perdute nella sua infanzia (lasciate lì presumibilmente da Lila), che Lena esprime il dubbio di aver vissuto la propria vita come una proiezione, o forse addirittura come la realizzazione della vita di un suo doppio:

[Lila] mi aveva ingannata, mi aveva trascinata dove voleva lei, fin dall’inizio della nostra amicizia. Per tutta la vita aveva raccontato una sua storia di riscatto, usando il mio corpo vivo e la mia esistenza (Vol. 4, p. 451).

L’enigmatica scoperta dell’esistenza delle due bambole, che Lena pensava ormai perse per sempre, illumina l’oscura mancanza della scomparsa di Lila. “Ora che Lila si è fatta vedere così nitidamente, devo rassegnarmi a non vederla più” scrive Lena nell’ultima commovente frase del romanzo. Ora che Lena può finalmente riconoscere la menzogna originaria di Lila, che fu centrale per tutta la loro lunga amicizia, lei immediatamente capisce anche che Lila non può più tornare. O forse, per Lena le due bambole sono solo metafore della sua relazione con Lila, una proiezione simbolica della loro relazione d’amicizia. Ancora più rilevante è il fatto che Lena ci dice che ha appoggiato le due bambole “contro il dorso dei suoi libri”. E solo ora che le osserva da vicino si rende conto di quanto siano brutte e a buon mercato. Ora che può finalmente vivere incarnata nella propria pelle, Lena è pronta a vedere le due vecchie bambole come due lati conflittuali della sua stessa personalità; come due relitti di un passato nel quale era ancora una ragazza povera che abitava quell’inferno di miseria che è stato il sud Italia. Ed è solo opponendosi a questo passato che può finalmente riconoscersi, nel presente, come una scrittrice di successo. Al di là dei significati possibili del ritrovamento delle due bambole, noi lettori non possiamo non sentire una profonda sensazione di nostalgia e di confusione. Perché capiamo che le verità ora visibili non sono semplici, né tanto meno univoche: “la vita vera, quando è passata, si sporge non sulla chiarezza ma sull’oscurità” scrive la Ferrante in uno degli ultimi densi passaggi di questa tetralogia. Si trova se stesse attraverso l’incontro con l’Altro e si perde l’Altro quando la sua presenza non è più necessaria. Tutto questo, però, non significa aver finalmente raggiunto una verità solida su cui potersi riposare.

[Fine].

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*Traduzione dall’inglese di Daniele Balicco.

il dibattito no, no, il dibattito no

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Il dibattito
di
Philippe Muray
(traduzione di effeffe)
Non si dovrebbero mai fare dibattiti. Il dibattito, come il resto, nel nostro mondo di intransitività incalzante, ha perso il suo complemento diretto. Si fanno dibattiti ancor prima di sapere su cosa: quel che conta è riunirsi. Il dibattito è diventato una mania in solitaria da praticare in dieci, cinquanta, cento, uno stereotipo celibe e contemporaneamente gregario, un modo di stare insieme, un magma di interglosse che consente di consolarsi costantemente del fatto di non raggiungere mai, da soli, alcunché di fondamentale. Non si dovrebbero mai fare dibattiti; oppure, nel caso non se ne potesse davvero, fare a meno, limitarsi a dibattiti sulla necessità di fare dibattiti. Chiedersi all’infinito, fino all’ esaurimento, qual è l’ideologia del dibattito stesso e la sua necessità mai messa in discussione; e come è possibile mai che il reale molteplice che lo stesso dibattito pretende di dibattere si dissolva alla stessa velocità con cui si dibatte. Eppure nessun dibattito potrà svilupparsi su una siffatta questione, poiché è proprio tale evaporazione del reale ad essere il vero scopo inatteso di qualsiasi dibattito. Si convocano le questioni fondamentali e le si sciolgono, man mano nelle macchine macinatrici della comunicazione. E più c’è dibattito, meno vi sarà il reale. Rimarrà alla fine solo il miraggio di un campo di battaglia in cui si diffonde l’illusione logorroica e imperitura che si possa decifrare il mondo solo attraverso un dibattito; o, se non in questo, in un successivo dibattito, forse. E’ di questa illusione che si nutre l’animatore di dibattiti.
Perché bisogna fare dibattiti? Qualsiasi argomento oggetto di dibattito si deve supporre debole, per definizione, dal momento che può essere demolito o intaccato da un altro argomento. Ogni pensiero che si è costretti a sostenere merita di cedere. E del resto il vero pensiero, il pensiero fondamentale, inizia soltanto laddove il dibattito finisca (o si zittisca). Orbene, solo ciò che è fondamentale conta perché apre alla piena conoscenza della realtà umana, e non lo si ottiene mai per sfregamento di idee composite le une contro le altre come, nel racconti orientali, si strofinino le pantofole per farne venire fuori il genio. Un nuovo pensiero, un pensiero fondamentale del mondo non può essere discusso, ponderato con calma, soppesato in buona compagnia, emendato, corretto, sfumato, palpeggiato, ammorbidito con pro e contro fino a che non assomigli a una mozione di compromesso di una riunione sindacale o la miserabile sintesi finale di un congresso del partito socialista. Qualsiasi proposta originale è minacciata in un dibattito da quel che potrebbe succedergli di peggio: un protocollo d’intesa. Un nuovo pensiero del mondo può e deve essere assestato come dissidenza irrimediabile, come un’incompatibilità d’umore. Non bisogna argomentare, bisogna tagliare di netto. Pensare, è presentare la frattura.
da Essais de Philippe Muray (Les belles lettres)

Per una tomba senza nome

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Per una tomba senza nome, J.C. Onetti, SUR Edizioni 2016
Per una tomba senza nome, J.C. Onetti, SUR Edizioni 2016

[pubblichiamo la prefazione di Antonio Pascale a Per una tomba senza nome, romanzo di Juan Carlos Onetti, edito da SUR nel 2016, e apparsa sul quotidiano l’Unità il 27 febbraio 2016.]

di Antonio Pascale 

Alcuni motivi per leggere questo libro 

Supponiamo che amate le saghe e tuttavia, proprio perché le conoscete a menadito, riuscite a indovinare dopo pochi capitoli come va a finire l’intera stagione e insomma desiderate qualcosa di più complesso (anche perché qualcosa vi dice che la complessità a volte è affascinante).
Supponiamo ancora che vi piace tanto leggere – e non necessariamente le saghe – ma provate una certa stanchezza per le tradizionali, abusate strutture narrative che da millenni regolano l’andamento di una storia.

Nicola Vacca, «Vite colme di versi»

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di Giacomo Verri

Nicola Vacca, raffinato amante della poesia, e poeta lui stesso, racconta, in un volume uscito per i tipi di Galaad edizioni, il proprio viaggio ideale attraverso ventidue poeti del Novecento; non solo maestri italiani, ma anche stranieri, non solo i nomi dei grandi ma anche quelli dei ‘sommersi’ nel mare sempre più vasto e inquinato di chi si autoelegge poeta: accanto ai ritratti di Caproni, di Ungaretti, di Campana, di Celan o di Prévert, abbiamo così anche quelli di Beppe Salvia, di Lorenzo Calogero o di Nika Turbina, “la poetessa bambina”, morta a Mosca a soli ventisette anni nel 2002, e il cui nome, in Italia, è pressoché sconosciuto ai più.
vitecolmediversiA ognuno di questi poeti, Nicola Vacca regala un ritratto stringato ma sempre teso a cogliere l’essenziale delle loro formule, delle loro parole, delle loro esistenze. Se vogliamo indicare un filo rosso che lega i ventidue medaglioni, diremmo che la voce dei poeti prediletti dall’autore è quella che pone il verbo in “disarmonia con l’epoca” (per forzare una formula di Caproni il cui ritratto, forse non a caso, sta in apertura di volume).

Così di Dario Bellezza scrive che “con la docile rabbia del diverso ha pronunciato la deriva e la forza dei sentimenti, con la pietra del peccato ha scolpito nel nulla il colore eterno della poesia”, oppure dell’appartato Beppe Salvia si dice che attraverso le parole quotidiane, quelle che tanti di noi utilizzano per essere orrendi e banali, egli ha invece affidato al cuore “le beffe più dolci e più misere del dolore e della memoria”.

Mentre indugia e pennella intorno alle figure dei poeti amati, in specie quelli che stanno bocconi sull’orlo dell’oblio, Nicola Vacca tira le orecchie al nostro triste Paese quando non rende omaggio ai suoi padri, quando lascia “che si spengano nell’indifferenza assoluta” e nell’effimero abbaglio dell’apparenza. E al contempo indica anche, indirettamente, il compito della poesia: “definire l’indefinibile” come ha insegnato Giuseppe Ungaretti, laddove l’indefinibile è quel bilico precario che simboleggia la grazia e la condanna dell’esistere, a un tempo; ma anche “mantenersi integri nel mare magnum della nuova schiavitù globale”, come da decenni fa un artista poliedrico qual è Leonard Cohen, o come ha fatto, orgogliosamente, il folle genio di Marradi.

La poesia, dunque, va oltre e custodisce le solitudini, spiega Nicola Vacca, anche e soprattutto quando le parole si consumano “in prossimità della morte” o sull’orlo dell’orrore.

Nicola Vacca, Vite colme di versi, Galaad edizioni, euro 11

La forma fragile del silenzio

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di Nicoletta Prestifilippo

la forma fragile del silenzioEsiste un modo incantevole di fare le parole. Proprio farle: giostrarle, accarezzarle, impastarle con le mani, sporcarsi con quelle fin sulla punta del naso per un gesto distratto; e odorarle così, come fossero un pasto allettante preparato con cura e poi offerto agli affetti più cari. Sono il prodotto di lettere ammonticchiate e vivaci che si incuneano tra i ricordi e l’esperienza, disegnando un luogo comune che funga da ritrovo per molti: sono una piccola cosa che per avere un senso vero e forte, deve conoscere la stretta buona dell’alleanza.

Ci si serve di quelle con l’umiltà di chi impara, e non ha pretese di insegnamenti da lasciare arrampicare sopra un pulpito: vi è uno spirito di condivisione molto forte, alla base, che si apprende per istinto e nel tempo accresce; vi si attinge sempre per esigenza, pur di dirsi e dire ciò che conta.

L’espressione è l’accento che si posa sulla libertà, il racconto che lascia in caldo i pensieri buoni uniti alle affinità più inaspettate, e li ritrova con semplicità per mezzo di un’alchimia che non si ostenta. Si resta al fianco di chi si vuole per davvero, con la vivacità di un’intenzione che non conosce geografia; e a prescindere dal tempo che si impiegherà, per tornarsi incontro a più riprese: l’affinità è una distanza davvero piccola, che si accorcia presto col sorriso tipico dell’impazienza.

Si hanno sensazioni simili: lievi ed energiche, addolcite, morbide d’intesa, ammirate, leggendo La forma fragile del silenzio: scritto da Fabio Ivan Pigola con l’impeto delle cose lasciate scorrere d’un fiato e così dense, fitte, affatto macchinose: si legge di un solo evento che si allunga senza risultare mai gravoso. Quel che ha da dire è di ampia importanza, eppure accade senza fretta. Consente al lettore di appoggiarsi a ogni stato d’animo, e lo accompagna nei pressi dell’irrimediabile: un significato ultimo, stretto, che non lascia speranze, eppure ne trova mille acquattate dietro gesti piccoli. Si può trovare un senso nuovo anche in ciò che non si può prevedere, nelle difficoltà. Ma serve un’armonia che in pochi sanno apprendere, tutta interiore, fievole e testarda. Indispensabile.

 

Il soggetto del racconto ha un’età piccola e un’umanità grande, e vi fa ritorno ogni volta che cambiano le prospettive e accresce il timore di non sapersi dare un verso, una ragione. È un hombre di nome ma non di fatto: ed è un’identità giocosa, la sua, che si appella al vizio buono della confidenza. Si muove in una storia che ha per ambientazione le strade, le voci, i dolci pendii, la spuma di un mare che bagna terre liguri generose e accucciate in una posa che garantisce a chi la vive, una libertà felice e necessaria: culla di un’infanzia vissuta al riparo dal frastuono delle grandi città, e di una crescita lenta, languida, che si fa spazio in un tempo robusto che solletica, sospinge, pungola gli attimi belli e poi volta pagina, con esuberanza, sforzo, crudeltà di distacco. Poiché la vita chiede sempre qualcosa in cambio, elargendo grosse fette di bellezza a chi la vive; ed è strettamente legata a un destino che non sa far altro che scompigliare ogni previsione, per puro capriccio: così il protagonista del racconto si trova a dover fronteggiare un male più grande della sua stessa età, che spegne con lentezza inesorabile ogni suono, ogni stridio, qualsiasi nota reperibile in natura, o pizzicata sulle corde della sua chitarra: le mani sono solo un passaggio. L’emozione conduce al sentimento che se mette a tacere le parole, trova piena espressione in una sintonia differente, in frequenze osate e accompagnate ad altri accordi. Si imparerà a conoscere quell’hombre che ha per sé un’ingenuità, un candore, un’innocenza che nemmeno sospetta. E ha «una faccia ebete, il sorriso tonto di chi non chiede altro che esistere, esistere per l’istante e per tutti quelli che non si ripeteranno».

Si finisce per volere un po’ di bene a delle frasi così, alla fatica, alla spontaneità, al candore che portano impresso. Si familiarizza come per contatto con la propria volontà di esserci, senza farsi alcuno sconto: credo non vi sia territorio più ostile dell’indifferenza, quando la si infligge per prima a sé stessi. Ma vi sono libri come questo che insegnano a indugiare, a sfogliare spogliandosi un po’, deponendo armi e difese: un passo dopo l’altro in profondità, col coraggio che serve per ascoltarsi senza doversi subito rinnegare; libri in grado di condurre con agilità al sorriso, alla partecipazione, al gravitare di immagini nella mente, che hanno il profilo esatto degli affetti di sempre: Jesus, Sua Perversione il Conte di Pietralata, Barbie, il Calamaro, Minestrina, e forse su tutti Sugar; una donna in piccolo, lei, carica di tutta la forza che serve, e generosa negli sguardi offerti a chi sa calamitare il bene e le attenzioni, pronta a una fiducia che in lei pare coriacea, e rivela una maniera di intendere il mondo che non è poi così in disfacimento: c’è del buono e sa vederlo tutto.

È questa la risorsa prima e forse unica, di chiunque sappia ancora dichiararsi innamorato di ogni cosa fin dal primo respiro: invecchia con lentezza e non invecchia mai davvero; avrà piccoli segni sul volto, negli anni, che sono come i segni di chi passa e resta, trascorre il tempo e non lo scansa, ama e soffre, raccoglie le illusioni e ne fa un vanto.

Un passo dopo l’altro si arriverà a una conclusione senza punto: l’inchiostro è ancora tutto da versare, così come le incognite e lo stupore di una vita mai approcciata per difetto.

 

Fabio Ivan Pigola ha il dono della delicatezza, lo si capisce fin da subito: nonostante i picchi di introspezione, i tocchi divertiti e divertenti che sono come pennellate di colore a ravvivare una tela anonima. Ciascuna parola gocciola sulle pagine, lascia una traccia di sé offerta con garbo e raccolta con uguali intenzioni. Lascia dei residui appiccicati all’animo del lettore, e sono di una dolcezza che non conosce eccessi; hanno l’alone opaco del sogno deposto accanto al risveglio, che coglie di sorpresa e si nutre della stessa: unisce coloro i quali non sono mai sazi di sospirare tutta la bellezza che si può, con tanto di occhi aperti. E non temono che la notte arrivi ancora a scoperchiare i desideri più grandi, in una sorta di rincorsa, di circolo vizioso: che siano adulti o bambini, poco importa. Ciò che conta è restare pronti alla sana follia che allarga quei sorrisi ebeti e dà senso a tutto quanto, a dispetto di ogni contrarietà.

Perché tout le monde déteste le Parti Socialiste

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Questo articolo, in versione ridotta, è stato pubblicato ieri sul manifesto.

Le foto sono di Jean Segura e Alhil Villalba.

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Sciopero Sncf del 12 maggio. Manifestazione a Parigi, Montparnasse.

di Jamila Mascat

Una lotta, per natura, non è un torneo amatoriale che possa concludersi per i contendenti con la soddisfazione di aver partecipato. Ancora meno nel caso della – tanto entusiasmante quanto estenuante – mobilitazione contro la Loi el Khomri che ha visto da quattro mesi a questa parte centinaia di migliaia di studenti, lavoratori, intermittenti e precari francesi dispiegare una quantità eccezionale di energie fisiche e morali per resistere alle pressioni, e soprattutto alla repressione, del governo Valls.

L’ultima grande giornata di sciopero nazionale interprofessionale, indetta dai sindacati tuttora contestatari lo scorso 14 giugno, è stata una sintesi paradigmatica, per quantità e qualità, dell’onda lunga di questo movimento. Un milione e 300mila persone in marcia in tutta la Francia secondo gli organizzatori, spezzoni compatti e rumorosi dei lavoratori che in queste settimane hanno riabitutato il paese al gusto un po’ retro della lotta di classe (uno per tutti quello dei portuali di Le Havre, a Parigi, che ha respinto le cariche dei celerini), centinaia di giovani fantasisti in testa alla parata parigina che dribblavano come potevano le granate scagliate dalla polizia, 1500 lacrimogeni lanciati solo nella capitale secondo Libération, centinaia di feriti da percosse e esplosioni (di cui uno molto grave la cui nuca bucata ha fatto tristemente il giro del web) stando alle stime di Streetmedics, le squadre mobili di volontari addetti al primo soccorso dei manifestanti. E ancora cortei non autorizzati e incendiari in serata tra République e Belleville e a fine giornata un bilancio di oltre 70 fermi.

Anche se questo appuntamento non è l’ultimo – sono già previste due nuove date di sciopero per il 23 e il 28 – la sensazione è che il braccio di ferro contro il governo, visibilmente determinato a non fare marcia indietro, abbia raggiunto una fase di stallo. L’incontro tra la ministra del lavoro El Khomri e il segretario nazionale della CGT Philippe Martinez, il 17 giugno, non lascia sperare niente di buono, mentre prosegue l’iter di discussione della legge in senato.

La ronda delle lotte

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Sciopero Sncf del 12 maggio. Manifestazione a Parigi, Montparnasse.

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Finora la ginnastica del movimento è stata sufficientemente agile per dare continuità alla staffetta delle lotte. Da marzo gli studenti hanno aperto le danze cominciando a perturbare le piazze, per conto proprio o a fianco dei sindacati ancora in sordina, da aprile la Nuit debout ha occupato la Place de la république sfidando quotidianamente le restrizioni inposte dallo stato di emergenza prolungato fino all’estate; a maggio è iniziata la ronda degli scioperi, quelli veri, all’appello di CGT, Force Ouvrière e Solidaires.

Da metà del mese scorso sette raffinerie su otto sono rimaste paralizzate o quasi per circa tre settimane lasciando a secco il 20 per cento delle pompe di benzina. Nei terminal petroliferi di Fos-sur-Mer e Lavéra, nel porto di Marsiglia, gli scioperi hanno impedito il carico e scarico di 25 gassiere. Il porto atlantico di Saint Nazaire, altro snodo fondamentale del traffico energetico, è rimasto chiuso per giorni.

Le centrali nucleari hanno ridotto la produzione di energia, e i conduttori ferrioviari rallentato la circolazione dei treni, rischiando di essere richiamati in servizio su Parigi e dintorni per il debutto degli Europei. E sempre per inaugurare l’inizio del camapionato, dai primi di giugno i netturbini municipali degli inceneritori e dei depositi di rifiuti di Ivry-sur-Seine e Saint-Ouen hanno incrociato le braccia, costringendo la sindaca della capitale, Anne Hidalgo, a trovare soluzioni di emergenza per rimuovere i cumuli di rifiuti ammassati nella metà degli arrondissments della città.

Eloquenti le reazioni dall’altra parte della barricata, mentre secondo i sondaggi il 62% dei francesi avrebbe espresso la propria solidarietà al movimento (e i risultati di una consultazione cittadina sulla Loi Travail organizzata dall’intersindacale, e ancora in corso, verranno consegnati alle prefetture e alla presidenza della Repubblica il 28 giugno). Il gruppo Total ha minacciato di ritirare i propri investimenti dal suolo nazionale (le perdite per la compagnia durante le tre settimane di inattività delle raffinerie sono state stimate a 130 milioni di euro); Pierre Gattaz, il presidente di Confindustria ha dato dei “terroristi” ai dirigenti della Cgt, El Khomri ha accusato duramente i lavoratori di aver “preso in ostaggio” il popolo francese, e Valls ha definito “inaccettabile” il tentativo dei sindacati di “bloccare il paese” e “colpirne gli interessi economici”.

L’ opposizione ha invocato la requisizione delle raffinerie, come aveva fatto Sarkozy nel 2010 per dare un taglio al movimento contro la riforma delle pensioni (operazione peraltro poi contestata dall’ILO secondo cui “le motivazioni economiche non possono essere evocate per giustificare le restrizioni del diritto di sciopero”). Il governo, invece, si è contentato di una strategia offensiva di manomissione.

Le intimidazioni verbali (l’ultima, dopo il 14 giugno, la minaccia di Hollande di vietare alla CGT di manifestare per ragioni di ordine pubblico) non sono state le uniche repliche. Ovunque i lavoratori in sciopero sono stati confrontati sul campo alle pressioni delle direzioni aziendali e agli interventi marziali delle forze dell’ordine. A Fos-sur-Mer, Lavéra, Donges, Lorient, Brest, Rennes, Douchy-les-mines, la polizia ha evacuato i picchetti che bloccavano da giorni l’accesso ai depositi petroliferi. E nel deposito SIM di Gonfreville-l’Orcher in Normandia, il terzo più grande d’Europa, la prefetta del dipartimento di Seine-Maritime ha autorizzato il ricorso al personale in servizio non qualificato per far ripartire i rifornimenti di kerosene verso gli aeroporti parigini.

Fare scintille

nuits cheminotsSciopero Sncf del 12 maggio. Manifestazione a Parigi, Montparnasse.

Fuor di metafora, i lavoratori hanno fatto fuoco e fiamme, e a volte scintille. Davanti alle raffinerie per giorni hanno incendiato i pnemautici per tenere in vita i picchetti. A Valenciennes, il 29 maggio, l’unione dipartimentale della Cgt, insieme ai collettivi antifascisti locali, ha improvvisato uno spettacolo pirotecnico davanti alla prigione di Sequedin, dove era stato incarcerato preventivamente Antoine, un giovane militante sindacale, accusato di resistenza a pubblico ufficiale durante una manifestazione a Lille, e ora, dopo il processo, condannato insensatamente a 10 mesi di reclusione. Nel settore dell’energia i dipendenti di Edf e Enedis hanno rilanciato l’operazione “Robin Hood” già inaugurata nel 2004 all’epoca della protesta contro le privatizzazioni. Così, hackerando gli impianti elettrici hanno ridotto temporaneamente le tariffe di consumo per centinaia di migliaia di utenti delle banlieue di Parigi. Per divertirsi hanno interrotto la corrente nella residenza di Gattaz a Saint-Raphaël , e nel municipio di Tulle, in Corrèze, feudo elettorale di François Hollande.

In sostegno ai grévistes le iniziative di solidarietà sono state numerose. La campagna finanziaria lanciata dalla Ctg Info-Com ha raccolto finora oltre 450mila euro. Nei giorni scorsi è iniziata la distribuzione degli assegni di sostegno ai comitati di sciopero che vanno avanti da settimane. Il comitato dei ferrovieri della Gare d’Austerlitz, uno dei più combattivi su Parigi, mobilitato da circa un mese, ha ricevuto 20mila euro. Molti degli cheminots non sono affiliati a nessuna organizzazione sindacale e non nutrono alcuna simpatia nei confronti della CGT. Come altri militanti della base del sindacato, temono che la direzione finisca per accettare di firmare il decreto che prevede la riforma statutaria della Sncf, una Loi Travail versione ferrovie dello stato. 20 mila euro sono stati incassati anche dal comitato dei netturbini di Ivry-sur-Seine, nell’ultimo periodo i principali protagonisti delle perturbazioni nella capitale. Le montagne di rifiuti intassate sui marciapiedi parigini, insieme al panico da penuria di carburante nelle stazioni di servizio francesi, hanno efficacemente imposto agli occhi di tutti lo spettacolo del lavoro e dei lavoratori invisibili nella lotta contro il capitale e il suo governo.

Ora è iniziato il conto alla rovescia e le chances di ottenere il ritiro della Loi Travail potrebbero sfumare. Eppure le piazze ancora fumano, e non solo per colpa dei lacrimogeni, e la rabbia generosa e solidale che questa stagione di lotte ha inaugurato sicuramente non andrà in fumo.

Il n’y a pas de bon gaullisme

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Sciopero nazionale, 14 giugno. Dopo il corteo, a Parigi, Esplanade des Invalides.

Ce l’abbiamo messa tutta”, dice Eric Sellini, della CGT Total, “e in ogni caso non finirà qui”. Qualsiasi cosa decida la confederazione sindacale rispetto alle trattative con il governo, infatti, la mobilitazione contro la Loi el Khomri ha conquistato sul terreno della lotta – per la varietà delle forme sperimentate, dalle più classiche alle più inventive – una serie di risultati destinati a durare. Per primo il battesimo o, a seconda dei casi, il ritorno di una pratica del conflitto che ha scosso dal torpore una generazione militante e ne ha iniziata un’altra.

Poi la frattura definitivamente consumata tra il Partito socialista e il popolo della gauche che finirà inevitabilmente per ripercuotersi sulle prossime elezioni presidenziali: in quanti contro lo spauracchio del Front National e dell’estrema destra saranno ancora disposti ad appoggiare la sinistra destra dei socialisti? Non solo tout le monde déteste la police, ma ora, meglio tardi che mai, tout le monde déteste le PS. Infine di fronte all’offensiva di una repressione sistematica che ha colpito indistintamente tutti (studenti e sindacalisti, giovani e lavoratori di ogni sorta), la lotta di classe è stata costretta a cimentarsi giorno dopo giorno con le ingiustizie della giustizia di classe, mostrando che non c’è guerra contro la macchina capitalista che possa esimersi dal misurarsi con la violenza dei suoi apparati. Quella violenza, insaziabile, arrogante e volgare, ha fatto irruzione sulla scena senza veli.

In un intervento presentato nel 1968 al Comité de lutte contre la répression alla Mutualité di Parigi, Sartre diceva che la repressione a volto scoperto non è altro che una manifestazione ufficiale della guerra permanente che il sistema combatte contro i lavoratori. Che si tratti di sfruttamento o manganelli, la matrice è la stessa. Per questo, per la nudità a cui espone il comando, la repressione rappresenta un “momento di verità”. Il testo, poi pubblicato dal Nouvel Observateur, è intitolato « Il n’y a pas de bon gaullisme ». In questo stesso senso la Loi travail ha impartito una lezione che nei mesi a venire tutti saranno costretti a ricordare: non solo che, parafrasando, non può esserci un buon capitalismo, ma anche che non può esistere una sinistra capitalista di governo che si comporti diversamente da come si sta comportando in Francia.

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Sciopero nazionale, 14 giugno. Dopo il corteo, a Parigi, Esplanade des Invalides.

“Dispatrio” e altre rubriche. Uno scorcio sulla traduzione di poesia in rete

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(Questo intervento doveva far parte di un dossier sulla traduzione di poesia, curato dalla rivista  “Tradurre”. Per disaccordi intervenuti con la redazione, lo pubblico qui come pezzo autonomo. Mi sono basato soprattutto sul lavoro realizzato su Nazione Indiana, perché offre un materiale ricco e pertinente, ma anche perché è un materiale che “avevo sotto mano” e che mi è stato quindi facile raccogliere e organizzare. Mi pare evidente, però, che il tema della traduzione di poesia in rete sia, per la vastità e per la dispersione inerente ai materiali della blogsfera, in gran parte ancora inesplorato.)

 

di Andrea Inglese

 

Per parlare a ragion veduta della traduzione di poesia in rete, bisognerebbe fare un censimento accurato di tutti i blog letterari, di gruppo e individuali, verificare che spazio dedicano alla traduzione di poesia, e naturalmente alla traduzione “inedita” di poesia, ossia non già uscita su carta, in qualche rivista o collana di poesia.

Overbooking: Zena Roncada

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Qui come altrove, c’è la donna che ruba il tempo e se lo mette via.
Le piace rubare quello del mattino, quando nel letto c’è la quiete delle cose e la giornata è lenta ad avviarsi. Allora può stirarsi e sentire il corpo che si sveglia: sono i momenti dell’esserci in pigrizia, coi pensieri in attesa di un approdo.

Le piace anche guardare l’acqua che si scalda: nel giro della pentola, aspettare che le bolle scoppino in sommosse, per acquietarsi con la pasta a pioggia, rovesciata. Altro non c’è da fare che dare tempo al tempo.

La sera si trova a ripassare quei momenti vuoti di ogni cosa, da riempire con quello che potrebbe. Con il soffio di fughe e scorribande, con lana di un altrove ancora da scoprire, dentro la mappa del guanciale.

 

 

Nota

di

Effeffe

Ci sono autori, autrici, il più delle volte però accade alle donne, che sebbene abbiano vissuto di lettura, accompagnato creazioni artistiche, esercitato un ruolo importante per ostinate e coraggiose comunità letterarie, delle grandi città o delle province, il più delle volte però nelle periferie del regno,  restano di poche parole. Poche parole e giuste. Poche parole sufficienti a tessere racconti pieni di grazia; si tratta di voci allo stesso tempo energiche e discrete, per lo più discrete, poco esibite, appartate. Qui come altrove pubblicato da Effigie, si compone di cinquantasei voci, storie, dotate di quel raro dono per certe narrazioni, di essere universali e straordinariamente locali, territorialmente definite e concrete. Anni fa mi è capitato di compiere un viaggio insieme all’autrice e ad alcuni altri giovani autori proprio partendo da casa sua a Sèrmad. Ricordo la particolarità della luce del mantovano, l’aria rarefatta, e lo strano modo in cui il cielo avvolge figure e cose. Andammo a vedere una mise en scène dei dialoghi con Leucò di Cesare Pavese in una fabbrica dismessa. Quando ho letto le cinquantasei storie e pagine di questo nuovo lavoro, il gioco di sguardi tra il qui ed altrove, tra i mestieri di uomini e donne per lo più attraverso il fiume che attraversa le loro vite e quello ancora più intenso e sofferto che si svolge negli interni delle case, dove i mestieri si fanno, ho sentito quella stessa forza insieme mitica e dimessa di quello che considero il più bello tra i libri di Cesare Pavese. E più particolarmente alla battuta che chiude il dialogo tra Ulisse e Calipso.

CALIPSO Lo sarai, se mi ascolti. Che cos’è vita eterna se non questo accettare l’istante che viene e l’istante che va? L’ebbrezza, il piacere, la morte non hanno altro scopo. Cos’è stato finora il tuo errare inquieto?
ODISSEO Se lo sapessi avrei già smesso. Ma tu dimentichi qualcosa.
CALIPSO Dimmi
ODISSEO Quello che cerco l’ho nel cuore, come te

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Qui come altrove, c’è l’uomo della barca, che è lunga e scura come l’anima di Po, quella segreta. Dell’uomo e della barca si sono persi i nomi: per chiamare il primo basta un verso, un richiamo d’anatra di passo, l’altra è di tutti e di nessuno.

Selvatici, possono sparire e riapparire senza scandali d’assenza: al modo delle canne che bucano il terreno o della zucca ricciuta che sale lungo il tronco del salice impiccato, ma poi ricade senza più un sostegno.

L’uomo della barca ama l’estate, perché cuoce l’umido del legno e secca il remo, fino a renderlo affilato. Ama le notti, perché accendono le rive di grilli acidi e rane ubriache in sottofondo. Allora prende la barca e va verso l’isola, dove le cappe camminano al mattino in spirali di sabbia sotto traccia.

Nel tratto senza ombre la luna è grande e gialla, dentro l’acqua: tremula in righe orizzontali. L’uomo la rincorre e la rompe con il remo, per far tacere la malinconia della bellezza.

 

Il realismo segreto nelle forme di Alberto Colognato

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di Giovanni Palmieri

Listener

Alberto Colognato, Senza titolo (monotipo), cm. 34 x 48, 1988,

collezione privata.

   Il singolare destino di Alberto Colognato, pittore ma soprattutto scultore tra i più significativi della scena novecentesca italiana, ricorda per molti versi quello del dottor Pasavento, lo scrittore inventato da Vila-Matas nell’omonimo romanzo che ha cercato tutti i modi per scomparire pur continuando a scrivere.

 

Nato a Verona nel 1912 e morto a Milano nel 1996, Colognato, detto il Biondo, dopo gli studi accademici ha cominciato negli anni Trenta ad esporre i suoi quadri in alcune mostre del veronese. Richiamato alle armi nell’esercito della Repubblica Sociale Italiana, nel 1943, è stato tra i promotori e gli attivisti più accesi dei G.A.P. di Verona.

Dopo la guerra e la cruciante esperienza resistenziale, si stabilì a Milano dove ebbe modo di ritrovare Renato Birolli e altri amici pittori del gruppo di “Corrente” come Treccani, De Micheli e il critico Raffaele De Grada. Ma fu conosciuto e stimato anche da Morlotti e Cassinari.

Sposatosi con la pittrice Luigia Zanfretta, insegnante all’Accademia di Brera e al Liceo artistico Hajech di Milano, il Biondo sin dal 1942 aveva abbandonato la pittura per dedicarsi alla scultura e alla grafica.

Legato alle ultime propaggini del modernismo cubista e delle avanguardie storiche, Colognato sviluppò un’arte personalissima che partiva da una rilettura e da una contaminazione originale delle esperienze di Braque, Léger, Harp, Ernst, Giacometti, Moore e Laurens.

Due le direttrici fondamentali del suo lavoro: lo sfruttamento idiomatico dei materiali particolarmente amati (la terracotta, il marmo, il cemento ma anche il legno, il caolino e il gesso) e un’adesione quasi religiosa a quello che chiamerei il realismo segreto delle forme. I suoi Arlecchini, i Tori, le figure femminili, i Torsi accovacciati ecc. non cercano, infatti, l’arte nell’incanto di una realtà metafisicamente intesa ma, al contrario, esaltano e ricreano la realtà più concreta, ma anche più sconosciuta e segreta, per il tramite dell’architettura artistica. Da qui il suo potente costruttivismo (Léger era uno dei suoi numi) e le sue sintesi volumetriche che riuscivano ad imporre la visione aurorale di quelle forme dinamiche che l’occhio, distratto dalla ricostruzione dell’insieme olistico, normalmente non coglie. Ciò che l’occhio normale vedeva, non lo interessava… “Troppo visto”, diceva spesso criticando un dipinto eccessivamente mimetico.

Insomma la sua era una scultura in potenziale ma perenne movimento. Non il pieno del gesto, non l’allusione concettuale, non il simbolo analogico, non l’astrazione dello spazio e meno che mai il proclama ideologico, ma solo (si fa per dire) la sintesi delle forme viventi colte nei loro molteplici punti di vista, e la grazia diretta dell’intaglio e della scheggiatura infinitesima della realtà. Ciò che inseguiva Colognato era infatti il microcosmo del vivente, la sua eloquenza segreta. Pertanto la sua fu una scultura di piccole dimensioni proiettata e concepita non per le grandi sale o per i musei ma solo per gli spazi domestici e privati.

La grafica, a cui il Biondo si dedicò per tutta la vita, era la faccia bidimensionale e inscindibile della sua scultura. Dominata dalla figura femminile in tutta la sua forza dinamica, la sua opera grafica rifuggiva dalla serialità commerciale ed era infatti composta quasi esclusivamente da monotipi colorati dopo l’impressione calcografica e da rari linoleum tirati in pochissime copie non numerate.

 

Solo agli inizi della sua carriera, Alberto Colognato espose le sue opere in mostre appartate e collettive presso la Società Belle arti di Verona o presso la Bevilacqua. Accettava di comparire solamente in esposizioni organizzate da enti quali la Croce Viola o sedi di sindacato. In seguito più nulla. La sua concezione puritana e anticommerciale dell’arte, non meno di un carattere particolarmente schivo e riservato, gli impedirono sempre di esporre il suo lavoro e dunque di farsi conoscere. Ogni tanto vendeva o più spesso regalava le sue opere ad amici e a privati, che oggi sono di fatto gli unici a conoscerlo. Critiche, accuse e obiezioni non valsero. Riteneva immorale sborsare anche poche lire per esporre in gallerie private.

Così le sue due case milanesi (quella di via San Paolo e quella, ultima, di via Nullo) divennero i musei privati dove Colognato nascondeva le sue statue, i suoi quadri e i suoi disegni. In esse vi erano opere dappertutto: pareti, corridoi, ante di armadi, pavimenti, soffitti, cantine e persino i soffitti erano tappezzati  e ingombri di opere. L’amico Flavio Simonetti ricorda che un giorno accompagnò a casa del Biondo “uno dei maggiori critici d’arte dell’epoca, Marco Valsecchi, che apprezzò i lavori dello scultore veronese e gli garantì una mostra gratuita, in una galleria del centro, la quale si sarebbe sobbarcata anche le spese di un catalogo” (in Alberto Colognato detto il Biondo, a cura di Luigi Meneghelli, Galleria dello Scudo, Verona 2001, p. 25). Colognato non disse no ma non consegnò mai i lavori da esporre e alla fine rinunciò anche in questa fortunata occasione.

Non credo che il Biondo ignorasse che nel mondo dell’arte non esiste valutazione critica che prescinda dall’esposizione e dalla vendita delle opere. In altri termini l’accettazione di una pur minima notorietà e delle regole del mercato (anche quello pre-capitalistico) sono condizioni imprescindibili del lavoro di un artista. Forse non ritenne che la sua arte (o l’arte in generale) dovesse sottomettersi alla turpitudine dello scambio commerciale pur dovendo sapere, però, che è quest’ultimo  la base di ogni possibile comunicazione artistica.

Forse, semplicemente, volle scomparire dagli occhi del mondo e non essere riconosciuto.

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Alberto Colognato, Senza titolo (china su cartoncino), cm.

22, 5 x 16, 5, s. d. ma anni Sessanta. Collezione privata.

   Ho conosciuto il Biondo da bambino perché era amico dei miei genitori e frequentava spesso casa mia. Mio padre, musicista, negli anni Sessanta era uno degli esecutori specializzati nella musica postweberniana e Colognato era particolarmente interessato alla musica espressionista e atonale che lo ispirava nel corso del suo lavoro. Da adulto, l’ho reincontrato nelle sue due case-laboratorio ma non ha mai voluto vendermi alcuna sua opera. L’ho, però, ascoltato e visto al lavoro. Aveva la grazia e la pulizia di un artigiano azteco che serve appassionatamente una divinità nascosta. Conosceva tutto e tutte le tecniche. Tutto sapeva e tutto sapeva dimenticare come solo i sapienti sanno fare.

Alla fine degli anni Novanta, lui e la Luigia sono morti senza figli né eredi, quasi poveri e del tutto soli, come spesso ti lascia la vita che ti lascia.

La loro casa era in affitto e io non so che fine abbiano fatto le opere che ancora vi erano contenute.

Nel novembre del 2000, a Milano, nello Spazio Laboratorio Hajech del Liceo artistico I° è stata organizzata una mostra intiolata Due artisti, due cittadini. Opere di Luigia Zanfretta ed Alberto Colognato. In quell’occasione sono stati presentati due volumi: il catalogo della mostra, curato da Vittoria Gosen per Guerrini e Associati e la monografia di Manuela Sabia, Luigia Zanfretta – opere, documenti, scritti, Ed. Raccolto (Cascina del Guado, 2000).

Nell’ottobre del 2001, a Verona, la Galleria dello Scudo ha organizzato una bella mostra di sculture di Alberto Colognato. Il catalogo, uscito per le edizioni della galleria veronese (Verona 2001) s’intitola Alberto Colognato detto il Biondo ed è stato curato da Luigi Meneghelli con contributi di Giorgio Trevisan, Luigi Meneghelli e Flavio Simonetti. Poi più nulla.

A me sembra poco, anzi pochissimo. Perciò questo mio scritto fa appello a quanti ancora sanno di Alberto Colognato e vogliono o possono evitare che la forbice del tempo recida non solo i volti ma anche, e assai più gravemente, le opere.

 

 

Quel silenzio assordante che copre tutti i naufragi

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Giovanni Accardo intervista ALESSANDRO LEOGRANDE

Alessandro Leogrande, giornalista e reporter, da alcuni anni racconta le tragedie dell’immigrazione, lo ha fatto con “Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud” (Mondadori 2008) e con “Il naufragio. Morte nel Mediterraneo” (Feltrinelli 2011), lo fa col nuovo libro, “La frontiera” (Feltrinelli 2016), un’inchiesta che si può leggere come un romanzo e che in parte si svolge anche a Bolzano. Un libro fondamentale per capire chi sono i numerosi profughi che sbarcano a Lampedusa o muoiono nel Mediterraneo, da cosa scappano e quali terribili violenze devono affrontare nei loro viaggi verso l’Europa.

Diario parigino 5. La democrazia bloccata, la crisi del Partito Socialista e i movimenti di contestazione in Francia

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di Andrea Inglese

Proviamo a guardare la sequenza più ampia. In Francia, paese del presidenzialismo, per 17 anni abbiamo un presidente della Repubblica che viene dai ranghi della destra. Chirac è rieletto per due mandati consecutivi dal 1995 al 2007, e Sarkozy, che gli succede, lascia la carica, nel maggio del 2012, a Hollande, nuovo presidente socialista. Prima di lui, bisogna risalire alla lunga parentesi rappresentata dal doppio mandato di Mitterand (1981-1995), per trovare un altro presidente socialista. Non azzardo un bilancio politico dell’ultima presidenza di destra, quella di Sarkozy, ma alcune cose risultano evidenti.

Non si dà vita vera se non nella falsa. Sulla tetralogia di Elena Ferrante.

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di Sara Farris*

Non si dà vita vera, se non nella falsa”1. Con queste parole Franco Fortini capovolse una delle frasi più celebri di Theodor W. Adorno: non si dà vita vera nella falsa (Es gibt kein richtiges Leben im Falschen). Nei Minima Moralia Adorno sembra infatti suggerire che è impossibile, in un mondo socialmente ingiusto, vivere una vita vera, da un punto di vista etico e morale. Una sincera aspirazione alla verità e alla giustizia, così come la possibilità di godere pienamente dell’esistenza, non è pensabile senza una rivoluzione sociale. Fortini critica quest’idea, ma la sua posizione non è meno radicale. Capovolgendo la sentenza di Adorno, insiste sul fatto che ciò che chiamiamo giustizia e verità o vita etica deve poter emergere anche nel mezzo dell’inautenticità e della violenza della società capitalistica. Perché la vita vera, pensata come un qualcosa di puro e di inossidabile, in realtà non esiste; e forse non esisterà mai. La vita, così come il lavoro politico, è sempre un impasto di vero e di falso, di autentico e di inautentico, di razionale e di irrazionale, di rivoluzioni e di riforme. La nostra esistenza, sotto il dominio stregato del capitale, è imbrigliata in mille contraddizioni. Se vogliamo provare a costruire un ordine sociale migliore dobbiamo conoscerle e attraversarle. Per Fortini il comunismo non si realizza nella costruzione di una sorta di felice e utopica isola protetta, ma nel concreto dispiegarsi della nostra capacità di lottare in favore della giustizia comune; combattendo anche contro noi stessi. Questa frase sembra dunque suggerire che c’è un problema nel modo in cui Adorno pensa la vita vera: e il problema è che quest’idea non lascia spazio alla realtà instabile, torbida e perturbante della nostra esistenza in questo mondo, realtà che non sarà cancellata nemmeno da una società più giusta.

Quando ho letto i romanzi di Elena Ferrante non ho potuto fare a meno di pensare a queste parole di Fortini. Non serve che mi dilunghi sul caso Ferrante e sul successo internazionale della tetralogia intitolata L’amica geniale. Ricordo solo che negli Stati Uniti l’uscita in traduzione dell’ultimo volume è stata festeggiata organizzando veri e propri parties; mentre è notizia recente della prossima realizzazione di una serie televisiva basata sulla tetralogia. Se si leggono la maggior parte delle recensioni, apparse su giornali e riviste, troviamo lodi entusiastiche di questi quattro romanzi, soprattutto per la chiarezza dello stile di scrittura e per la precisione con cui vengono descritte emozioni complesse. Nonostante infatti i molti punti di vista teorici con cui la tetralogia è stata analizzata, la maggior parte dei critici insiste soprattutto sulla rilevanza dei motivi psicologici a cui la Ferrante è riuscita a dare voce; e c’è chi l’ha addirittura definita come “maestra dell’indicibile”2.

Per chiunque abbia letto questi romanzi è difficile non riconoscere che gran parte del loro fascino deriva dalla franchezza con cui Elena Greco – voce narrante e co-protagonista di questa narrazione – costringe il lettore a confrontarsi con paure e desideri profondi che difficilmente si ha il coraggio di discutere con altri e con se stessi; e di descriverne la logica in una prosa così accurata. E tuttavia sarebbe riduttivo sostenere che il mondo della Ferrante è solo un mondo psicologico. Come tutti i grandi romanzi, la tetralogia non è solo un esteso affresco di passioni umane, ma è soprattutto una finestra spalancata sulla storia grande, è una condensazione di mondi personali e sociali. Gli eventi storici non sono infatti trattati dalla Ferrante come semplice materiale inerte ma sono inseriti nella narrazione come parte espressiva della biografia dei personaggi. Le loro vite lievitano nel suo dispiegarsi; sia quando provano a intervenire attivamente, sia quando soccombono di fronte ad un destino apparentemente assegnato.

In questo articolo cercherò di restituire una parte della complessità dei romanzi di Elena Ferrante pensandoli come viaggi appassionati alla scoperta di molti archivi nascosti della storia d’Italia e del Sé. Per fare questo mi concentrerò soprattutto su un tema centrale della sua scrittura: il tema della “smarginatura”. È questo tema, e i modi molteplici con cui la Ferrante ci si confronta, a rendere la tetralogia una testimonianza della nostra ambivalente esperienza del vero e del falso tanto come esperienza della vita psichica, quanto come categoria dell’agire politico.

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Una narrazione su due donne

La tetralogia che inizia con il volume intitolato L’amica geniale – ed è il titolo anche dell’intera serie di romanzi – è il racconto di un’amicizia fra due donne, Lila e Lena. Entrambe sono cresciute in un povero rione di Napoli nel secondo dopoguerra. Lila è un personaggio apparentemente senza paura, una bambina eccentrica che incute timore, con il suo temperamento e la sua determinazione, perfino nei bambini maschi più grandi. Lena è invece una ragazza più docile e probabilmente per questa ragione, è nello stesso tempo sedotta e turbata dai modi spavaldi di Lila. La loro amicizia inizia il giorno in cui Lena lancia la bambola di Lila in uno scantinato buio esattamente come Lila aveva fatto con la sua bambola. Ma quando le due bambine scendono a cercarle, non le trovano più. Le bambole sono scomparse. Per Lina le ha rubate Don Achille, l’uomo nero del rione:

La volta che Lila e io decidemmo di salire per le scale buie che portavano, gradino dietro gradino, rampa dietro rampa, fino alla porta di don Achille, cominciò la nostra amicizia (…). Don Achille era l’orco delle favole, avevo il divieto assoluto di avvicinarlo, parlargli, guardarlo, spiarlo, bisognava fare come se non esistessero né lui né la sua famiglia (Vol. 1, p. 24)

In questo episodio apparentemente banale sta in realtà la chiave per capire il significato dell’amicizia che lega Lena e Lila da questo primo incontro iniziale fino alle ultime righe dell’ultimo volume. A partire dalla perdita delle bambole e dalla visita a Don Achille, si formerà infatti, fra le due ragazze, un forte legame fatto di odio e di amore, di dipendenza e di bisogno di autonomia, di fiducia e di diffidenza. L’attaccamento di Lena a Lila si intensifica una volta che Lena scopre qualcosa che la turba e al contempo la eccita. Lila non è solo la figlia indisciplinata e imprevedibilmente coraggiosa di un calzolaio; è anche una bambina geniale.. Lila impara a leggere prima di ogni altro bambino e bambina del rione; è incredibilmente precoce e riesce senza alcuno sforzo ad insegnare a se stessa ogni cosa la interessi. Lila è acuta e perspicace; sa giudicare il carattere delle altre persone in modod tagliente e per questo spesso sembra isolarsi dai suoi coetanei. Lena si sente sedotta e nello stesso tempo sfidata dall’eccezionale intelligenza di Lila. Passerà tutta la vita cercando di emulare la superiorità intellettuale dell’amica; e di scoprirne il segreto. Ma la competizione accademica fra le due ragazze si interrompe presto a causa di un costume comune nell’Italia meridionale dei primi anni cinquanta. Entrambe sono infatti figlie di lavoratori poveri e nessuna delle due è destinata a continuare gli studi dopo i primi cinque anni obbligatori delle scuole elementari. Le loro famiglie non hanno né le risorse economiche per farle studiare in scuole prestigiose, né tantomeno vogliono perdere la possibilità che il loro lavoro sia d’aiuto al sostentamento famigliare. E ciononostante, mentre la famiglia di Lila conferma questo costume, nonostante la rabbia e la disperazione della ragazza visto che l’unica cosa che desidera è continuare a studiare, la famiglia di Lena alla fine decide, grazie all’insistenza della sua insegnante, di permetterle di iscriversi alla scuola media. Questo evento è l’inizio di una serie di movimenti di separazione e di incomunicabilità, così come di riavvicinamento, fra le due amiche. Entrambe capiscono subito che esistono due modi per conquistare l’ascesa sociale che desiderano: o attraverso l’educazione, o attraverso un matrimonio con un uomo più ricco. A Lena è permesso di seguire la prima strada: frequenta il Liceo Classico e poi vince una borsa di studio alla Normale di Pisa per studiare lettere classiche. Lila invece seguirà la seconda strada, sposando un commerciante benestante del rione. Lena lentamente riuscirà a staccarsi dalla mentalità chiusa, povera e violenta del rione, mentre Lila non lo potrà fare e molto raramente lascerà quelle quattro strade dove è cresciuta. Eppure, nonostante Lena sia riuscita ad avere una vita di successo – negli anni diventerà una scrittrice e sposerà un suo collega della Normale, destinato a diventare un noto docente universitario appartenente ad una famiglia importante della sinistra italiana – si sentirà sempre inferiore alla sua amica d’infanzia Lila, che invece non ha potuto studiare e dopo aver lasciato il marito, lavorerà per un periodo come operaia in un’industria di salumi per poi diventare proprietaria di una piccola impresa di computing.

Lena è la voce narrante di questa storia. Il racconto dell’amicizia con Lila si espande su sei decenni ed è la storia del suo scendere a patti con i debiti emotivi ed intellettuali – reali ed immaginari – che sente nei confronti dell’eccentrica e brillante Lila. Ma il racconto autobiografico di Lena è anche una testimonianza sull’Italia del secondo dopoguerra, una vera e propria full immersion nella sua storia, nei suoi conflitti politici, nelle sue metamorfosi fino al suo recente degrado. Mostrandoci il mondo ambivalente dei sentimenti e dei ricordi che ha costruito su Lila, e che ha condiviso con lei, Lena ci guida attraverso gli anni della ricostruzione dalle rovine della guerra, gli anni d’oro del boom economico e dei cambiamenti sociali, gli anni dei movimenti studenteschi, della rivoluzione sessuale, del femminismo, dell’ascesa del Partito Comunista fino agli anni del terrorismo rosso e del lento declino degli anni 80 e 90, con i più ambiziosi fra gli ex studenti di sinistra trasformatisi in funzionari corrotti dell’amministrazione pubblica e le famiglie camorriste al comando dei corpi pubblici e privati dello Stato.

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«Smarginatura». Sulla mutazione antropologica in Italia.

Uno dei concetti più ricorrenti, intriganti, e tuttavia oscuri, che si possono trovare nel ciclo Napoletano è il concetto di “smarginatura”. Questo è il concetto attraverso cui Lila descrive l’esperienza dell’espansione del proprio corpo – così come degli oggetti e delle persone che la circondano – fino al punto di rottura dei margini e alla conseguente frantumazione violenta in mille pezzi. La prima volta che incontriamo questo tipo di esperienza è nel primo volume quando Lila è ancora una giovane adolescente in procinto di sposare un noto commerciante del rione. È il 31 dicembre e tutti si stanno preparando a festeggiare l’Ultimo dell’anno. Il fratello di Lila, Rino, Stefano (il suo futuro marito) e gli altri ragazzi che gravitano intorno alle due amiche sono tutti particolarmente eccitati perché stanno per fare una gara con la famiglia camorrista nemica del rione, la famiglia Solara. La gara consiste nel riuscire a sparare il petardo più grosso. Lila guarda lo spettacolo quasi disgustata e in silenzio:

Le stava accadendo la cosa a cui ho già fatto cenno e che lei in seguito chiamò smarginatura. Fu – mi disse – come se in una notte di luna piena sul mare, una massa nerissima di temporale avanzasse per il cielo, ingoiasse ogni chiarore, logorasse la circonferenza del cerchio lunare e sformasse il disco lucente riducendolo alla sua vera natura di grezza materia insensata. Lila immaginò, vide, sentì – come se fosse vero – suo fratello che si rompeva. Rino, davanti ai suoi occhi, perse la fisionomia del ragazzo generoso, onesto, i lineamenti gradevoli della persona affidabile, il profilo amato di chi da sempre, da quando lei aveva memoria, l’aveva divertita, aiutata, protetta (Vol. 1, p. 172).

Il primo incontro di Lila con l’esperienza della smarginatura in altre parole si verifica quando crede che suo fratello Rino inizi a comportarsi come i ragazzi ricchi e arroganti appartenenti alle famiglie camorriste del rione. E questo accade quando Rino, grazie alla creatività della sorella e alla promessa di investimento economico di Stefano, riesce finalmente a vedere la possibilità di arricchirsi come proprietario di un’industria di scarpe. Negli occhi di Lila, invece, la brama di far soldi ha trasformato il fratello in una persona irragionevole, che ha ormai un’unica ossessione: diventare ricco. Essendo di estrazione popolare, sia Lena che Lila hanno sempre desiderato di diventare benestanti, ma ora Lila inizia a considerare i soldi in modo diverso:

Ora pareva che i soldi, nella sua testa, fossero diventati un cemento: consolidavano, rinforzavano, aggiustavano questo e quello. (…) Parlava di soldi senza più niente di luminoso, erano solo un rimedio per evitare che suo fratello combinasse guai. (Vol. 1, p. 175).

Lila userà in altre occasione l’immagine della smarginatura. Ma questa esperienza diventa devastante quando, con l’andare degli anni, dopo la separazione da suo marito Stefano e dopo la rottura con il suo amante Nino, finirà per lavorare in una fabbrica di mortadelle per sostenere se stessa e suo figlio piccolo. Nel lavoro di fabbrica Lila prova su di sé l’esperienza dello sfruttamento, delle molestie sessuali, dell’umiliazione, della fatica, e soprattutto della mancanza di tempo da dedicare all’educazione del figlio. Ma molto più che la stanchezza per i turni di lavoro e l’impossibilità di combinare cura del figlio e impiego, sarà l’incontro con la politicizzazione del movimento studentesco e operaio del ‘68/69’ a causarle un esaurimento nervoso. Una mattina, appena arrivata al lavoro, scopre che la sua testimonianza, data durante una riunione politica, sui molti casi di violenza di cui è stata testimone in fabbrica, è stata trasformata, senza il suo consenso, in un volantino politico scritto da studenti di estrema sinistra. L’obiettivo è quello di trasformare la fabbrica dove lei lavora in un luogo di rivolta operaria. Tutte le persone che lavorano con lei capiscono che c’è Lila dietro le accuse riportate sul volantino; il suo capo la minaccia di licenziarla e i suoi colleghi la disprezzano per aver reso il clima in fabbrica ancora più insopportabile. E quella notte lei è così furiosa con gli studenti per non averla avvertita di quanto stavano per fare e per averla, in questo modo, messa nei guai che inizia a sentire il suo corpo come se fosse sul punto di esplodere.

Si stava coricando di nuovo quando all’improvviso, senza una ragione evidente, il cuore le finì in gola e cominciò a battere così forte che sembrava il cuore di un altro. Conosceva già quei sintomi, si accompagnavano alla cosa che in seguito – undici anni dopo, nel 1980 – battezzò “smarginatura”. Ma non era mai accaduto che si manifestassero in modo così violento, e soprattutto era la prima volta che succedeva quando era sola, senza gente intorno che per un motivo o per un altro avviasse quell’effetto (Vol. 3, p. 112).

La smarginatura è l’esperienza della trasformazione di ciò che è conosciuto in qualcosa di misterioso, della metamorfosi di ciò che è vero in qualcosa di falso, di ciò che è piacevole in una cosa disturbante, è l’inversione del senso di familiarità in una condizione di estraneità e pericolo. È la paura del mondo che prima distrugge i confini del corpo e poi si trasforma in qualcosa di mostruoso. Credo che un modo possibile di leggere il concetto di smarginatura sia quello di riferirlo alla resistenza e alla paura di Lila di fronte ad un mondo che sta cambiando davanti ai suoi occhi; potremmo leggerla come il suo rifiuto di accettare e di adeguarsi alla nuova Italia industrializzata e alla sua falsa modernità. In un certo modo, l’orrore che lei prova per la smarginatura potrebbe essere letto come lo spavento di fronte a quanto Pier Paolo Pasolini ha definito come mutazione antropologica. Una sorta di omogeneizzazione violenta della società, dove idee, usi, costumi, gusti, desideri e apparenze sono ormai prodotti progettati in serie dal consumo di massa. Lila riconosce l’universo orrendo della mutazione antropologica la prima volta in suo fratello quando osserva come l’avidità lo stia trasformando in una persona accecata dalla cupidigia. Ma soprattutto, Lila fa esperienza della mutazione antropologica e in parallelo della possibilità che il suo corpo vada in mille pezzi quando capisce che i disordini politici sul suo posto di lavoro non sono il risultato dell’organizzazione politica dei suoi colleghi, ma l’effetto dell’ingenuità e della stupidità degli studenti della classe media che vogliono un “soccorso” operaio alle loro lotte:

Gli studenti fecero discorsi che le sembrarono ipocriti, avevano un piglio dimesso che strideva con le loro frasi sapute. Il ritornello, inoltre, era sempre lo stesso: siamo qui per imparare da voi, intendendo dagli operai; ma in realtà sfoggiavano idee fin troppo chiare sul capitale, sullo sfruttamento, sul tradimento delle socialdemocrazie, sulle modalità della lotta di classe (Vol. 3., p. 104-5).

E qui ci troviamo di fronte ad un altro motivo classico di Pasolini: l’artificialità e la debolezza della coalizione fra studenti e operai. Basti solo pensare alla sua famosissima difesa, negli scontri di Valle Giulia, dei poliziotti, figli di immigrati poveri, contro gli studenti ribelli e borghesi. In un certo modo Lila guarda gli studenti con lo stesso sguardo di classe pasoliniano, eppure si schiera con loro. Nonostante la sua rabbia per la loro immaturità, Lila sente che hanno ragione. È d’accordo con la loro denuncia del capitalismo come fonte di ingiustizia, anche se pensa che la loro denuncia sia troppo astratta, priva di un’esperienza diretta di cosa sia la vera ingiustizia. Lila diventa così un’attivista sindacale e, grazie alla penna di Lena, riesce a denunciare pubblicamente le brutali condizioni di lavoro in fabbrica sulle pagine del più importante quotidiano di sinistra del Paese.

Quando ogni cosa sembra andare in mille pezzi dentro di lei e tutt’intorno, quando il silenzio e l’assenso sarebbero scelte molto più facili, Lila invece continua a lottare, prendendo sempre le difese dei più deboli. Nonostante la sua mancanza di confini, la sua persona trasmette solidità e dignità: Lila è una donna integra. Nel rapporto conflittuale con questi tratti specifici della sua personalità, come l’onestà e l’autenticità, perfino quando si manifestano in modo spiacevole, prenda forma la voce narrante di questa storia: il personaggio di Lena che, a differenza dell’amica, vede se stessa come una donna falsa, inautentica e “opaca”.

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Fine prima parte.

* Traduzione di Daniele Balicco.

Desidero ringraziare Antonio Montefusco per avermi fatto conoscere Elena Ferrante e per i suoi commenti preziosi ad una versione precedente di questa recensione. Grazie mille a Daniele Balicco per l’ottima traduzione dall’inglese.

1. Il testo di Fortini è disponibile sul sito di Lavoro Culturale: http://www.lavoroculturale.org/non-si-vita-vera-se-non-falsa/. Per un’introduzione alla vita e all’itinerario politico e intellettuale di Franco Fortini si veda il libro di Daniele Balicco, Non parlo a tutti. Franco Fortini intellettuale politico, Roma, Manifestolibri, 2006. Sul pensiero di Fortini si veda l’introduzione inglese di Alberto Toscano al volume intitolato I Cani del Sinai: F. Fortini, The Dogs of the Sinai, translated by A. Toscano, Seagull, 2014.

2. Vedi:http://www.theguardian.com/books/booksblog/2014/jun/12/elena-ferrante-writer-italian-novelist.

Cronaca senza storia

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css mark[tre estratti da
Cronaca senza storia (poesie 1999-2015)
Elliot Edizioni, 2016]

 

 

 

 

di Matteo Marchesini 

CRONACA SENZA STORIA

Mania

Sentire ogni tempesta, ogni dolore
come se fosse eterno:
non aver altro di cui fare altro governo.

Ma quando torna la festa non sentire
più niente:
l’orrore è divenuto incomprensibile
come a chi sogna.

Al risveglio rimane la vergogna. 

L’autorialità ai tempi di internet

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di Giuseppe Carrara

Nel 2005 Bret Easton Ellis diventa il protagonista di una delle sue storie: Lunar Park. Ad un certo punto del romanzo scrive: «l’autore del libro non è nel libro», frase che potrebbe adattarsi al panorama virtuale caratterizzato, secondo molti, dalla completa realizzazione della profezia di Roland Barthes: l’autore è morto. Ma se alla fine degli anni Sessanta il discorso del semiologo francese era più di metodologia critica e si guardava alla nascita del Lettore (con la L maiuscola), al tempo del web si delinea un terzo uomo. C’è chi, come Pierre Lèvy, ha parlato di intelligenza collettiva e di opera come attrattore culturale in cui la differenza fra ideatore e fruitore diventa sempre meno riconoscibile. Altri, come Benjamin Woolley, hanno parlato di wreader, crasi di writer e reader.

Senza dubbio il web ha favorito l’appropriazione delle storie da parte dei fruitori che hanno iniziato a dire la loro attraverso fan fiction e produzioni non autorizzate sugli universi finzionali a loro più cari. Contemporaneamente il cyberspazio ha permesso la creazione di universi immersivi e trans(cross)mediali.

Dall’uscita, nel 1977, del primo capitolo di Guerre Stellari abbiamo assistito a una cascata di derivati inimmaginabile: si è venuto così a configurare il prototipo di una narrazione profonda e multilivello. L’universo creato da George Lucas poteva essere esplorato in tutte le sue aree grigie lasciate in ombra dai film, sia in modi ufficiali (per esempio attraverso le due serie di fumetti lanciate rispettivamente dalla Marvel e dalla Dark Horse) che non ufficiali (attraverso le creazioni dei fan). Queste ultime ebbero anche una certa importanza: il Dvd di George Lucas in Love (1999) – potenzialmente la parodia più famosa di Star Wars – superò le vendite il Dvd di Star Wars Episode I: The Phantom Menace (1999), durante la prima settimana di uscita. Non minore fu il successo di Troops (1998) che, nella durata di dieci minuti (e dal costo di appena 1200 dollari), scimmiottava Stars Wars attraverso una sorta di parodia poliziesca. E le opere fan-made non si esauriscono qui: dal filmino amatoriale della quattordicenne Dana Smith Kid Wars (2000) al corto Les Pantless Menace realizzato con le action figures da Evan Mather, fino a Star Wars: Revelations (2005), prodotto da Shane Faleux in open source con l’apporto di centinaia di fan (per la durata di 40 minuti). E passando per le decine di migliaia di fan fiction presenti sul web (9351 sul solo sito fanfiction.net).

Alcuni di questi contributi sono entrati a far parte del “canone” e hanno contribuito in maniera significativa ad ampliare l’universo delle Guerre Stellari, altri creano discussioni e dibattitti (anche molto accesi) fra i fan – o tra i fan e la casa di produzione. Secondo Frank Rose, in questo panorama, è evidente che i media digitali abbiano creato «una crisi di autorialità. Quando il pubblico è libero di entrare in un mondo fittizio e influenzare il corso degli eventi, l’intera struttura dei mass media del ventesimo secolo comincia a sgretolarsi» (Immersi nelle storie, p. 68). Si passerebbe, in questo modo, da un modello command and control (comanda e controlla i gusti del consumatore) a uno sense e respond (dialogo, ascoltare e osservare per essere pronti a cambiare e ad adattarsi).

Ma la fan culture non è una conseguenza del web: come fa notare Henry Jenkins, pioniere della fanfiction theory, fanzine cartacee nascevano già nella fine degli anni settanta; il web ha contribuito solamente ad amplificare il fenomeno e garantire una maggiore visibilità. Nella cultura dei fan, i personaggi non sono più considerati proprietà dell’autore; per questo motivo, nell’agosto 2008, Helen Ross crea su Twitter un account a nome di Betty Draper (personaggio della serie TV americana Mad Men) e inizia a twittare in sua vece. Il fenomeno si moltiplica velocemente e iniziano a comparire su Twitter altri personaggi della serie che iniziano a interagire fra di loro e con il pubblico – e il tutto senza l’autorizzazione dell’AMC. Ross e gli altri twittatori sono diventati parte dello spettacolo.

I primi studi sulla fan culture lodavano questa presa di potere da parte del pubblico, non mancando di sottolineare (e lodare) l’indifferenza verso le leggi sul copyright (che hanno creato non pochi problemi ai fan: basti ricordare le Potter Wars), lo sprezzo verso i modelli capitalistici di lavoro artistico, l’insistenza sulla rappresentazione di aspetti oscurati dai media mainstream (soprattutto negli ambiti della cultura femminista e queer), il rifiuto della canonica distinzione fra autore e lettore. Sicuramente tutti aspetti lodevoli, ma che restano su un piano piuttosto sociologico e prendono poco in considerazione l’aspetto estetico. Geremiadi contro la sciatteria linguistica (o più in generale artistica) di questi prodotti si sono alzate da più fronti; gli entusiasti della rete hanno spesso risposto che il web fa sviluppare la capacità di problem solving collettivo, il dibattito pubblico e la creatività grassroots. Ma ancora sono due piani diversi di problemi e si schiaccia la questione estetica sotto i risvolti politici dell’operazione.

Forse sarebbe più giusto dire che si trovano tanto esempi virtuosi, quanto viziosi. The Sugar Quill è uno dei più importanti siti di fanfiction su Harry Potter, ogni storia pubblicata viene prima sottoposta a beta-lettori per un processo di revisione fra pari: i fan chiedono consigli sulle bozze dei loro lavori quasi completi in modo da migliorarne la stesura finale. Il sito nasce proprio con lo spirito di creare un posto dove gli autori di fan fiction possano confrontarsi e crescere assieme per migliorare il proprio modo di scrivere. Alcune piattaforme si danno anche regole contenutistiche: non contraddire il “canone”, limitarsi a espandere l’universo, trattare solo di aspetti poco approfondite dall’universo di partenza. Ma è difficile far rispettare queste regole ai fan più accaniti. Lesley Goodman nota come molte fan fiction nascano dalla volontà di “aggiustare” qualcosa che ai fan non è piaciuto: l’autore non sarebbe morto, ma fallisce, i fan allora si appropriano dell’universo da lui creato per aggiustarlo. È la così detta fix-it fic. Prendiamo, per esempio, Who killed Roger Ackroyd: The mystery behind the Agatha Christie Mystery di Pierre Bayard. Bayard riprende un romanzo di Agatha Christie The murder of Roger Ackroyd e decide che la soluzione data dalla sua autrice non lo soddisfa, per questo riscrive la storia e “aggiusta” quello che secondo lui c’era di sbagliato. La fix-it fic funziona esattamente così, ma possiamo dire che questo procedimento mina in qualche modo l’autorialità nei romanzi di Agatha Christie? Sarebbe come a dire che Guildenstern e Rosencratz are dead di Tom Stoppard in qualche modo sottrae l’Amleto al suo autore, oppure Wide Sargasso Sea di Jean Rhys, appropriandosi di Jane Eyre, impone di ripensare la categoria di autorialità. Ma tanto Tom Stoppard quanto Jean Rhys sono autori affermati e, a pieno titolo, nel canone letterario e storiografico del Novecento.

La saga Cinquanta sfumature nasce come fan fiction sul mondo di Twilight: visto il successo ottenuto online un editore piuttosto sveglio decide che forse vale la pena investirci su: vengono eliminati tutti i riferimenti al mondo di Bella e Edward e nasce così uno dei best seller più fortunati degli ultimi anni. Ma anche Cinquanta sfumature, come i testi di Stoppard e Rhys, è un’opera tutto sommato nuova in cui la funzione-autore (per usare una terminologia foucaultiana) funziona in modo del tutto indipendente dal mondo di Stephenie Meyer, la cui autorità autoriale non è, di fatto, sminuita in alcun modo dai romanzi di E. L. James.

Cosa c’è di diverso nelle fan-fiction?

Quando, nel dicembre 2008, la Del Rey ha pubblicato The Complete Star Wars Encyclopedia (tre volumi, più di 1200 pagine), Howard Roffman, executive producer di Guerre Stellari, ha consegnato l’opera a Luca e gli ha detto, scherzando, che probabilmente non conosceva il 60 percento di quello che c’era scritto lì dentro. E infatti, Wookieepedia, l’enciclopedia di Star Wars lanciata nel 2005 da Chad Barbry e compilata dai fan, era ben più approfondita di quella ufficiale, lo Star Wars Databank, disponibile sul sito web ufficiale della saga. «Lucas avrà anche creato Guerre Stellari – scrive Frank Rose – ma ha dovuto ammettere che ormai erano i fan i veri proprietari della saga». La domanda allora sorge spontanea: chi controlla una storia? Il suo autore o chi ne fruisce?

Se per uno strano gioco della sorte domani Conan Doyle dovesse trovarsi a camminare di nuovo su questa terra e si imbattesse in una tipica rappresentazione del suo Sherlock Holmes (oppure decidesse di guardare un episodio dell’omonima serie della BBC), avrebbe una reazione forse ancora più stupita di quella di Lucas; probabilmente faticherebbe non poco a riconoscere il detective londinese partorito dalla sua penna. In un’altra sede ho tentato di ripercorrere la creazione del mito-Sherlock: il famoso cappello stile deerstalker e il tipico cappotto sono entrati infatti nell’immaginario comune grazie alle illustrazioni di Sidney Paget sulla rivista The Strand a partire dal 1891. Riprendendo l’iconografia di Paget, Frederic Dorr Steel, illustrando le short stories apparse sul giornale americano Collier’s Magazine dal 1903, inserì un altro elemento destinato a far storia: la pipa calabash. Tutti questi elementi furono resi famosi ed entrarono ufficialmente nel mito-Holmes grazie agli spettacoli teatrali di William Gillette, che sdoganò un altro elemento che farà storia: la vestaglia da notte che il detective indossa abitualmente in casa. All’ultimo radiodramma di Gilette si deve anche la nascita della famosissima battuta «Elementare, Watson!», di cui non si trova traccia nei libri. La lente di ingrandimento entra nell’immaginario grazie all’interpretazione cinematografica e televisiva di Basil Rathbone. La storia potrebbe continuare a lungo, ma quello che interessa rilevare è che Sherlock Holmes come lo conosciamo e lo fruiamo noi oggi non è lo Sherlock Holmes di Conan Doyle. Dunque in questo caso l’autore è davvero morto? Sembrerebbe di sì, ma forse una correzione è necessaria. Tanto Sherlock Holmes quanto Star Wars hanno subito un destino simile: non si tratta più di una saga di libri o di un film, ma di un mito a tutti gli effetti e lo spiega bene Gianluca De Sanctis su doppiozero nel suo intervento Star Wars, mitologia Jedi e cultura convergente: «In questo senso potremmo dire che il Jedismo, con le sue infinite piccole comunità, più o meno serie, è un prodotto di quella che Henry Jenkins ha chiamato «cultura convergente», che nasce e prospera attraverso il web, dove i fan si uniscono, mettono insieme le loro passioni, discutono, insomma, “convergono” sull’oggetto del loro desiderio, esercitando su di esso il proprio potere creativo. Ogni anno la saga viene celebrata in tutto il mondo da migliaia di fan che organizzano convention, raduni, vere e proprie parate in costume (l’equivalente moderno di un rito antico?). Non si tratta di cerimonie religiose nel senso proprio del termine, ma il confine tra il fan e il devoto può essere molto labile. Le chiese jediste nascono dalla medesima istanza, tradurre il racconto in atto, ma perseguono il loro scopo a un livello molto più alto che interessa la stessa realtà sociale. I real Jedi non si limitano a commemorare il testo filmico, intendono realizzarlo concretamente nell’esperienza quotidiana, vogliono essere dei veri Jedi, o meglio, vivere da Jedi. Se la forza di una religione dipende dalla sua capacità di migliorare la vita delle persone, aiutandole a realizzare la propria identità individuale e sociale, poco importa quale sia l’origine o la natura del racconto sul quale essa pretende di fondarsi. L’importante è che il racconto circoli, diventi oggetto di comunicazione, in altre parole, che abbia un pubblico di cui riesca a catalizzare attese e speranze». E di mitologia in riferimento a Sherlock Holmes parla anche Alessandro Gazoia nel terzo capitolo di Come finisce un libro.

Ma il mito, nominalmente, non ha un autore. Posso leggere Il segno dei quattro nell’edizione dei Gialli Mondadori e riconoscere senza problemi che l’autore di quell’opera è Conan Doyle, così come posso guardare Il Ritorno del Jedi e riconoscerne la paternità a George Lucas senza troppi problemi. Ma quando queste creazioni trascendono il loro statuto per diventare miti e immaginari condivisi l’autore si fa sempre più trasparente fino a evaporare. Il web ha semplicemente facilitato questi processi di creazione di mitologie e immaginari condivisi, ma, mi sembra, non ha intaccato visibilmente la questione dell’autorialità nei testi letterari. Grazie al cyberspazio la circolazione delle storie ha raggiunto livelli, mai visti, per cui, come fa notare giustamente Gazoia: «il mito è oggi pronto alla vendita, mediato digitalmente, connesso in rete (socializzato) e genera storie, pure nella “vita reale”. Il mito è prezioso, va consumato in ogni forma e deve essere protetto in ogni modo: almeno questa è la posizione delle grandi industrie dell’intrattenimento». Oggi i fan socializzano i miti e se ne riappropriano.

È questa la vittoria della creatività e della partecipazione popolare? Gli elementi che salutavano entusiasticamente i primi studiosi di fan-fiction bastano a considerare questo fenomeno come qualcosa di unicamente positivo? Oppure siamo semplicemente di fronte a enormi quantità di lavoro gratuito a vantaggio dell’industria dell’intrattenimento che non fanno che confermare i rapporti di forza, nel materiale e nell’immaginario?

Se davvero essere apocalittici è solamente un altro modo di essere integrati, non vogliamo inciampare in questa impasse; e dovrebbero essere lontani i tempi in cui la cultura di massa veniva aprioristicamente bollata con un marchio rosso. Ma neppure possiamo farci troppo ingannare dagli splendori della creatività grassroots. L’inserimento di Boba Fett (cacciatore di taglie comparso in uno speciale tv) nei film di Star Wars non deve forse troppo al successo ottenuto come action figure tra i giovanissimi? Alcuni hanno parlato di fan come rulemakers. Altri, prendendo in prestito la terminologia dagli anime e i manga, chiamano questo fenomeno fan service: l’inserimento di elementi secondari nella trama per compiacere gruppi di fan (dopo un attento studio della comunità) e legarli sempre di più al brand. In questo modo la BBC, dopo il successo della serie TV Sherlock, può editare The Adventure of Sherlock Holmes in sola versione cartacea per lo scopo esclusivo di venire collezionati: «all’appassionato di Sherlock – scrive Gazoia – regalo quindi il libro, un oggetto sociale che può mostrare l’appartenenza a una comunità di fan. L’aura, il valore cultuale dell’esemplare unico per Walter Benjamin, riesce così a permanere nell’era della riproducibilità tecnica, che è anche riproducibilità tecnica, raffinatissima e commerciale, dell’immaginario».

Le comunità di fan, insomma, si appropriano sì delle storie, ci interagiscono in maniera molteplice, immersiva, attraverso vari media e su più livelli, ma tutto ciò ha risvolti solamente sulla questione della fruizione dell’opera (o dell’universo finzionale): il web non celebra il funerale dell’autore, semmai lo fanno quei pochi universi che arrivano a diventare delle mitologie. Basti pensare a quanto poco peso abbiano i fan nelle opere di moltissimi autori di successo e universalmente riconosciuti: se scorriamo il sito fanfiction.net non troveremo nessuna storia sulle opere di DeLillo, otto ispirate a Infinite Jest di David Foster Wallace, nessun riferimento a Thomas Pynchon. Anche Stephen King, che pure è un autore di fortunatissimi best seller, conta appena 341 fan-fiction, contro le decine di migliaia su Sherlock Holmes, Twilight, Harry Potter, Star Wars, Naruto e Inuyasha.

Da questo breve elenco possiamo desumere che le narrazioni serializzate hanno più successo nelle fandome; i generi più riconoscibili sono privilegiati sulle opere di più difficile classificazione; la transmedialità facilità la creazione di una fan-culture perché permette una maggiore immersività del fruitore e una più ampia esplorazione dell’universo finzionale. Che il grande nemico dell’autore, allora, non sia il web, ma il franchising?

Prendiamo Matrix delle sorelle Wachowski: dall’uscita del primo film nel 1999 il loro intento era quello di giocare con un nuovo tipo di narrazione sinergica che Herny Jenkins chiama “co-creazione”: «le aziende collaborano fin dall’inizio per generare un prodotto in cui siano coinvolti tutti i loro settori permettendo a ogni medium di generare nuove modalità di consumo e ampliare i punti di accesso al franchise» (Cultura Convergente). Così accanto alla trilogia di film troviamo una serie di corti animati, The Animatrix (2003), creati da famosi animatori giapponesi, sudcoreani e statunitensi (come Peter Chung, Yoshiaki Kawajiri, Koji Morimoto e Sinichiro Watanabe), ognuno dei quali porta il suo personale contributo nell’universo creato dalle Wachowski. Dave Gibbons, Peter Bagge, Neil Gaiman, David Lapham, Geof Darrow, Bill Sienkiewic e Paul Chadwick, tutti scrittori già affermati nel settore, hanno creato una serie a fumetti. Paul Chadwick è anche stato lo sceneggiatore del gioco massive multiplayer (che si è andato ad affiancare a Enter the Matrix). Ognuno di questi supporti esplora zone lasciate in ombra dai tre film, ricollegandovisi anche da molto vicino: l’antefatto dell’inseguimento su autostrada in Matrix II, per esempio, si trova nel videogame.

Nel caso di Matrix, però, non siamo di fronte a un semplice ampliamento dell’universo di partenza e quindi una costante riproduzione dell’identico volta solamente ad aumentare le vendite di prodotti derivati. Ognuno degli autori che hanno partecipato al progetto The Matrix vi ha contribuito con il proprio apporto originale – ed è questo il modo in cui il franchising riesce a funzionare anche in modo virtuoso per il fruitore e non solamente come una macchina per far soldi. Prendiamo Chadwick, già famoso per la sua serie a fumetti su Concrete (uno pseudo comic di supereroi che serve, in realtà, come veicolo per proporre al pubblico questioni attuali di natura sociale ed economica), porta nell’universo The Matrix il suo contributo di critica al paesaggio urbano e di denuncia per la devastazione ambientale che segue la guerra tra umani e macchine.

Possiamo, dunque, ancora dire che gli autori di Matrix sono le sorelle Wachowski? Forse no. E non si può nemmeno paragonare questo tipo di franchising al lavoro di squadra che sta dietro la creazione di un best seller: non siamo alla presenza di uno studio delle abitudini del lettore per creare qualcosa che sia il più possibile vendibile, ma alla creazione di un universo espanso in cui ogni collaboratore porta il suo contributo originale, riconoscibile e quindi legato a una propria autorialità. The Matrix, al di là dei risultati estetici, è un emblematico esempio di possibilità di lavoro collettivo che il web favorisce e aiuta.

Ancora una volta, quindi, possiamo sottolineare che non è il web a uccidere l’autore: e anche nel caso del franchising non c’è davvero una morte vera e propria: i vari contributi sono riconoscibili, legati a un’autorialità forte. È l’universo finzionale nel suo completo a nascere dal lavoro congiunto di più personalità e quindi solo in questo caso si può parlare di morte dell’autore.

Mitologia e franchising, non il web, sono i nemici dell’autore che, anzi, sembra stare piuttosto bene nel cyberspazio. Lo conferma anche lo stato della Net Literature: quel genere di letteratura nata sul web, che si serve del web e non può esistere senza. Altresì nota come Electronic Literature o Digital Literature, è quel genere che si nutre di forme e materiali del web, concepita per essere fruita esclusivamente su dispositivi elettronici che permettono l’interattività e l’uso di ipertesti. Gli esempi, come si può vedere sul sito della Electronic Literature Organization (ELO), sono davvero molteplici e vanno dai romanzi scritti in forma di SMS, progetti collaborativi in opensource, chatterboots, poesie create da algoritmi, testi in codework style, etc.

Come nota Florian Harling, questi prodotti sottintendono quasi sempre un’autorialità forte, come nel caso di The Bubble Bath di Susanne Berkenheger, opera digitale, creata sotto forma di sito web, sull’importanza politica dell’hacktivism. Anche i lavori collettivi sembrano essere esteticamente interessanti quando la libertà del lettore non è assoluta (e spesso dietro i lavori ci sono poche personalità autoriali forti, come nel caso di The famous sound of Absolute Wreaders). Ancora Harling nota come i collaborative works funzionino meglio in contesti informativi e non artistici: si pensi a Lostpedia, un’enciclopedia fan-made in cui gli spettatori di Lost cercavano di far chiarezza in una delle serie più intricate e ambigue della storia della televisione. Guardiamo anche a Wu Ming, il loro è sì un lavoro collettivo, ma se dietro ai loro romanzi vi si riconosce un’autorialità forte, ben definita e identificabile, su Giap, il loro blog, i confini tendono a sfumarsi: diventa uno spazio di discussione, tanto che il collettivo twitta anche i commenti degli utenti.

Insomma: l’autore, nel cyberspazio, tutto sommato sembra sopravvivere; il web, semmai, ha modificato le abitudini di fruizione, dando la possibilità, ad autori e lettori, di creare universi espansi, narrazioni transmediali, immersive, a volte interattive (non sempre riuscitissime, come nel caso del cinema interattivo di Bob Bejan…). Fino a pochi anni fa sarebbe stato impensabile interagire sui social con i personaggi dei romanzi. Oggi invece, su Facebook, possiamo chiedere a Chirù Casti (protagonista dell’ultimo romanzo di Michela Murgia) con quale penna preferisce scrivere. E se Michela Murgia con il suo Chirù non interagisce, il rapporto fra Tommaso Pincio e Ligeia Tissot ha un vago sentore d’incesto. Ligeia Tissot è la protagonista femminile di Panorama, l’ultimo romanzo di Pincio. E il profilo facebook di questa ragazza sembra quasi una protesi del libro: Ottavio Tondi e Ligeia hanno una virtuale storia d’amore per quattro anni, attraverso le onde invisibili di un social network, che dà il titolo al romanzo. Dal Panorama a Facebook, Ligeia continua a mettersi a nudo, racconta di sé, del suo ultimo tatuaggio, le sue riflessioni sulle relazioni di coppia. E con lei interagisce Pincio, i lettori, ma anche altri scrittori, fra i like di Giuseppe Genna e i commenti di Paolo Sortino.

E può bastare così poco per mettere in discussione la questione dell’autorialità? No di certo, possiamo stare tranquilli: internet e l’autore, per ora, non sono nemici giurati, con buona pace di Roland Barthes. Ma per quanto sarà ancora così? Cosa accadrà se un A. I. vincerà un premio letterario? Che risvolti avrà nel nostro concetto di autorialità? E che ruolo giocano gli algoritmi in questo campo? Alcuni (Frédéric Martel) auspicano una collaborazione tra uomini e algoritmi (e la chiamano Smart Curation, che però non convince del tutto), il problema è aperto. Ma, per ora, questa è un’altra storia.

[Ho chiesto a Giuseppe Carrara di approfondire per Nazione indiana un suo articolo uscito su Cultweek relativo alla relazione tra internet e lo statuto dell’autorialità.  Sulla questione ma riferito alla poesia e ad un progetto editoriale intitolato significativamente Autoriale (una nuova collana della Dot.com Press e un blog), rimando ad un mio breve scritto La collana Autoriale e l’autorialità tra Barthes, Foucault e la Rete che si può leggere qui. B.C.]

La scelta

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di Giovanni Dozzini

(Pubblichiamo un estratto dal nuovo romanzo di Giovanni Dozzini – La scelta, Nutrimenti – per gentile concessione dell’editore. Nel giugno del 1944 l’Italia è divisa in due. I tedeschi continuano a dettare la loro legge spietata di occupatori, ma gli alleati li costringono a ritirarsi progressivamente verso nord. Nel cuore del paese, poco sopra la linea del fronte, uno sparuto numero di ebrei scampati alla deportazione ha trovato rifugio su un’isola. Nel vicino villaggio gli abitanti sanno della loro presenza e hanno sempre fatto finta di niente. Ma quando incombe il pericolo imminente di una rappresaglia tedesca dovranno decidere cosa fare di sé e degli ebrei.)

lasceltaIl giorno in cui la guerra dilaniò Isola cominciò con un sole tremolante e notizie di buona pesca che si spargevano velocemente lungo l’unica via del paese. La notte, sopra Castiglione, era stata tutto un circo di bengala e di bombe, aerei scuri nell’oscurità che sputavano fiamme di luce e d’esplosivo, facevano tremare i cristiani e spingevano i pesci nelle reti. Le barche erano partite poco prima che il cielo cominciasse a prender fuoco, e avevano assistito allo spettacolo ferme d’impotenza in mezzo al lago. Un’ora prima dell’alba era finito tutto, e i pescatori tiravano a bordo i carichi di persicaccio, e quando fecero ritorno già dimenticavano il bombardamento cantando le loro canzoni. Le donne lavavano i pavimenti e preparavano le zuppe del pranzo, quelle con meno bocche da sfamare avevano già sbrigato gli affari di casa e s’erano messe ai ferri, qualcuna sulla strada, qualcuna alla finestra. Nella piazza ancora non riecheggiava il fischio di Ercolino, il calzolaio, che da quando aveva smesso di pescare, mezza vita prima, aveva preso a svegliarsi, diceva lui, a un’ora da signore. Era silenzio, quindi, perché i pescatori risparmiarono presto il fiato per sistemare il pesce e portarlo alla cooperativa. Chi rimaneva si dedicava alle reti, le ripuliva e le stendeva al sole e cercava le falle e i nodi più allentati, mentre i gatti s’avvicinavano invocando gli avanzi mozzati della pescata. Quanto era accaduto il giorno precedente, e quanto era accaduto due notti prima, sembravano dimenticati, o ignorati senza sforzo. Quella era la normalità, o almeno la normalità della guerra, perché il pesce si vendeva meno e peggio, e la fatica di vivere si faceva sempre più sentire.

I discorsi fatti da Don a Torresi e agli altri avevano tranquillizzato tutti, ma il prete in realtà non era tranquillo affatto. Il fronte correva, la faccenda dei polli dimostrava quanto i tedeschi fossero nervosi, e poi c’era la gente del Castello lasciata al proprio destino, e quindi pericolosissima. Lo stesso Cenci, il capo delle guardie, il giorno prima gli era sembrato indeciso, quasi disorientato: era rimasto da solo, e non sapeva cosa fare di sé e della sua famiglia. Da quando i ragazzi della guarnigione lo avevano mollato aveva lasciato la casa in paese e s’era portato tutti al Castello, la moglie, il padre anziano e i due figli, più per non dover rispondere alle domande degli isolani, pensava il prete, che per qualche forma di prudenza o di progetto. La strada dal Castello al paese non l’aveva percorsa nessuno nelle ultime trentasei ore, da prima della fuga nella pioggia, nessuno tranne lui, e a questo punto quella gente aveva bisogno di scendere per procurarsi un po’ di cibo. L’allarme per gli spari dei tedeschi per loro s’era già esaurito, la fame reclamava la sua parte, e una giornata intera, per come stavano messe le cose, era molto più di una giornata. Adesso Don si rammaricava per non aver portato con sé perlomeno una sporta di pane e un po’ di pesce, quando era andato a parlare con Cenci subito dopo l’incidente. Sarebbero scesi, quindi, come erano scesi sempre, di tanto in tanto, e ancor di più nei pochi giorni da quando erano partite le guardie. A meno che non li avesse anticipati lui, andandogli perlomeno incontro. Fece colazione col formaggio, si alzò di scatto e chiese ad Amalia di radunare del cibo. Lasciaci il necessario per un paio di giorni, le disse, il resto lo porto su. Quando le due borse di pelle furono pronte le imbracciò e s’avviò. Prese per San Salvatore e per San Michele, in modo da non dover attraversare tutto il paese. Era bene che nella testa degli isolani frullassero meno idee possibili.
Nel frattempo Enrico era già passato a bussare alla finestra di Clara, nella sua casa al centro del borgo. Lei aveva risposto bussando a sua volta, dall’interno, e poi era corsa fuori, sul retro, per dargli la mano. Di giorno, per suo volere, non osavano ancora di più.

“C’è da stare tranquilli”, aveva detto lui. “Torresi c’ha spiegato tutto”.

E via con la storia del prete e delle sue rassicurazioni: sulla fuga della gente del Castello non aveva saputo dir niente, ma sui tedeschi aveva garantito di possedere informazioni confortanti. Più s’avvicina il fronte, meno tempo e voglia avranno di venire a darci noia.

“E tu che di me non ti fidi mai”, aveva ammiccato Enrico rubandole un mezzo bacio sulla guancia. Poi era corso via, ad aiutare suo zio e gli altri alla cooperativa. Sandro Bozzi, a quel punto, aveva già pronte le sue cassette nuove per il mercato da portare a terra prima di pranzo. Non era giorno di spartizione, quello, ma di spedizione.

Si fecero così le dieci del mattino, il lattaio dei Nebbiai venne e tornò a terra, da dietro i colli di Magione e ancora più a sud si sentirono colpi e scoppi, un paio di aerei passarono sulla linea dell’orizzonte ma non s’avvicinarono, né si capì dove fossero diretti di preciso. Si battagliava a poche decine di chilometri da Isola, ma per le cose di Isola non cambiava niente.

La barca dei tedeschi tornò a metà mattina, più o meno alla stessa ora del giorno prima. Stavolta non si fece annunciare dalle grida e dai canti marziali, e attraccò un po’ più a nord del pontile, come peraltro succedeva quasi sempre. La dinamica fu la solita: tre soldati sbarcarono, uno rimase a bordo di guardia. Insieme al sergente e a quello che aveva sparato ai polli stavolta c’era un ragazzo più scuro di capelli e di pelle, e sicuramente più giovane. La sentinella, invece, per quanto riuscivano a vedere i pescatori e i bambini che assisterono all’arrivo dell’imbarcazione, poteva essere la stessa, o un’altra, o chiunque. I tre attraversarono a passo svelto lo spiazzo d’erba che separava la riva dalle prime abitazioni, costeggiarono sul retro la Casa del Capitano del Popolo e la chiesa del Gesù e si trovarono all’imbocco della piazza tra le reti stese al sole. Si fecero largo nella solita formazione, il sergente appena davanti e gli altri due ai lati. Dell’ostentata e fasulla bonomia con cui s’erano presentati il giorno precedente adesso non c’era alcuna traccia. La faccia del sergente era tirata, nervosa, le braccia piegate sui fianchi come il duce, le gambe dritte e dure. Uno degli scagnozzi, quello nuovo, impugnava una piccola mitraglia, il tizio dei polli la portava a tracolla stringendo in mano la pistola. Prima di allora non una sola mitraglia aveva mai fatto comparsa a Isola.

Il sergente scrutò la piazza e prima di parlare radunò i pescatori con dei gesti eloquenti, poi trascorse qualche secondo come domandandosi a chi rivolgere per primo le poche parole di italiano che gli sarebbero servite a chiedere ciò che aveva da chiedere. Cercò il pescatore con cui aveva già avuto modo di fare affari, ma il suo sguardo non lo colse. Mario Tacconi, a quell’ora, era ancora alla cooperativa, come quasi tutti. Quindi ne scelse uno a caso dei pochi presenti. Erano meno di una decina, e i marmocchi se l’erano già data a gambe.

“Radio!”, urlò. “Dofe?”.

Parlando aveva cercato di imitare il gesto della mano con cui gli italiani solevano domandare, le dita unite a becco d’uccello e portate ripetutamente verso la faccia. Gli uomini rimasero a tacere. La maggior parte non spostò gli occhi, sbarrati e vuoti, da quelli del tedesco, ma un paio si scambiarono delle occhiate interrogative che il soldato novizio colse come un cenno di intesa o di timore d’essere scoperti. Fece un passo avanti borbottando qualcosa all’indirizzo del superiore, quindi, e sollevando leggermente la canna della mitragliatrice si rivolse, alternativamente, ai due che s’erano guardati.

“Eh?”, gridò. “Eh?”.

Quelli allargarono le braccia e scossero la testa, e il sergente gli si fece davanti fin quasi a toccargli i piedi coi propri.

“Radio?”, ripeté. “Tu. Radio. Dofe?”, disse a uno dei due, un quarantenne magro e coi lunghi capelli corvini che cominciavano a diradarsi all’altezza delle tempie.

“Radio?”, gli fece eco il pescatore.

“Radio, zì!”, urlò il tedesco, non senza una venatura di sollievo.

Nonostante le grida e il tono perentorio, non pareva essere completamente sprovvisto di condiscendenza. Voleva ottenere ciò di cui aveva bisogno, ma dava l’impressione di sapere come comportarsi coi civili. Terrorizzare, ma gradualmente. Anzi, a singhiozzo. Dovevano fidarsi e poi avere terrore, spaventarsi e poi fidarsi di nuovo. Non dovevano mai sapere cosa aspettarsi, da lui. Ecco, ora c’era da essere accomodanti.

“Dofe?”, disse, stavolta senza urlare.

Il pescatore si grattò la testa, mentre tutti i suoi compari lo guardavano in silenzio. Poi si voltò verso quello che aveva già guardato prima.

“C’è quella di Sepioni, no?”, gli disse.

L’altro annuì.

“Sepioni una radio ce l’ha”.

Amelia Rosselli, l’io, l’avanguardia

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di Daniele Barbieri

 

Ho trovato in un aforisma di Nietzsche la chiave per capire il metodo compositivo di Amelia Rosselli, e la relazione tra quel metodo e il problema dell’io, anzi della sua riduzione. Ecco le parole di Nietzsche (da Il crepuscolo degli idoli, La “ragione” nella filosofia, 5,  trad. Mirella Ulivieri) :

Il linguaggio appartiene, secondo la sua origine nel tempo, alla forma più rudimentale di psicologia: se prendiamo coscienza dei presupposti fondamentali della metafisica del linguaggio — in parole più chiare, della ragione — penetriamo in un rozzo feticismo. Esso vede ovunque autore e atto: crede nella volontà come causa in generale; crede nell’«io», nell’io come essere, nell’io come sostanza, e proietta la fede nell’io-sostanza su ogni cosa — solo così crea il concetto di «cosa»… L’essere viene penetrato col pensiero, interpolato ovunque come causa; solo dalla concezione dell’«io» segue, come derivato, il concetto di «essere»… […] La «ragione» nel linguaggio: oh, che vecchia donnaccia ingannatrice! Temo che non ci libereremo di Dio perché crediamo ancora alla grammatica…

L’inganno del linguaggio, secondo Nietzsche, starebbe proprio nella separazione tra soggetto e oggetto, intesi come sostanze diverse, l’una dotata di volontà e ragione, l’altra inerte, ma non per questo non dotata di essere, e interpretabile causalmente. Il (nostro) linguaggio sarebbe il principale perpetuatore di questa prospettiva: dall’idea di io nasce quella di essere, che è a sua volta alla base dell’idea di Dio. Dio, essere e io non sono che conseguenze della (nostra) grammatica, ovvero della (nostra) ragione.

Prendiamo ora un frammento molto citato della prefazione di Alfredo Giuliani all’antologia I Novissimi (1961):

Ovviamente, l’inclinazione a far parlare i pensieri e gli oggetti dell’esperienza è un atto individuale, di me che scrivo e che non voglio affatto nascondere la mia soggettività. La “riduzione dell’io” è la mia ultima possibilità storica di esprimermi soggettivamente […]. Ora, però, dalla parte dell’oggetto, che è ancora penetrabile e pronunciabile senza falsità, si svolge una poesia che, secondo la “qualità dei tempi”, cerca l’unità di visione e quindi il recupero di quel medesimo io prima ridotto metodicamente. Dialettica, se vogliamo, dell’alienazione. (pp. 22-23 dell’edizione Einaudi 1965)

Se rileggiamo Giuliani alla luce dell’aforisma di Nietzsche, ci accorgiamo che la (comunque problematica – anzi, dialettica) riduzione dell’io continua a svolgersi in una prospettiva di rapporto tra soggetto e oggetto, solo che – a differenza che nella lirica tradizionale – è l’oggetto a trovarsi in primo piano. Del resto, poche righe prima, Giuliani aveva scritto anche che:

Troppo frequentemente, nelle poesie che vorrebbero essere le più aliene dall’intimismo, l’io si nasconde con orgoglio e pervicacia dietro una presunzione di oggettività. Le apparenze, come di solito, ingannano. In realtà – e ciò spiega perché diamo importanza a un certo orientamento metrico – il tono non solo fa la musica del discorso, ma ne determina l’operatività, il significato. Così la riduzione dell’io dipende più dalla fantasia linguistica che dalla scelta ideologica. (p 21)

È quindi l’oggettività ciò che andrebbe cercato in vista di una riduzione dell’io. Ma se seguiamo Nietzsche, l’oggettività non è che una conseguenza di un’organizzazione del linguaggio basata sull’io-ragione-grammatica: nella negazione apparente della soggettività, dunque, l’oggettività non farebbe che riproporla surrettiziamente, rimettendo in campo – proprio con il cercare di escluderlo – il soggetto attraverso l’oggetto che esso crea, e che insieme lo crea, perché soggetto e oggetto (e dunque soggettività e oggettività) escono dalla stessa matrice linguistica.

Di più, la teorizzazione stessa di Giuliani, che coinvolge nella stesura di riflessioni critiche anche gli altri autori dell’antologia, e che poi, come bisogno di teoria, caratterizzerà fortemente l’operare della futura neo-avanguardia, è un’operazione progettuale, e, in quanto tale, un’operazione che si basa su quella volontà che Nietzsche vede alla base del processo di organizzazione dell’essere in soggetti (che possono volere) e oggetti (che non hanno volontà). In altre parole, la preoccupazione critica medesima di Giuliani lo porta di per sé in direzione contraria a ogni possibile riduzione dell’io, come lo porterà (lui e i suoi compagni di viaggio dal ’63 in poi) ogni concezione progettuale dell’agire poetico.

Si noti che il problema di Giuliani (la riduzione dell’io) è importante, ed è importante anche l’apparato critico-esplicativo con cui la nuova avanguardia nasce. Il problema è che si tratta di due strade incompatibili, quasi opposte se seguiamo la prospettiva nietzscheana. Del resto, Giuliani è consapevole che l’io, così ridotto, viene recuperato “dalla parte dell’oggetto”, come afferma in fondo alla prima delle due citazioni riportate. Ci si potrebbe domandare in che senso l’oggetto possa essere “ancora penetrabile e pronunciabile senza falsità”, visto che, se si parla di oggetto, non può che esservi un soggetto che lo conosce e quindi ne determina la modalità cognitiva, e l’eventuale verità. Più che a una dialettica le ottime intenzioni di Giuliani sembrano portare a un pasticcio, a un’uscita velleitaria da qualcosa da cui, in quei termini, appare impossibile uscire. Alla luce dell’aforisma di Nietzsche, tutta la neoavanguardia appare imbrogliata in questo pasticcio, almeno nella misura in cui la riduzione dell’io viene dichiarata come centrale.

Alla fin fine, in questa prospettiva, nemmeno i testi più rigorosamente oggettuali di Balestrini riducono l’io più di quanto non faccia il pascoliano Pasolini, nelle sue Ceneri di Gramsci. L’io vi riemerge in forme diverse, indubbiamente, più apparentemente mediato dagli oggetti e dalla “fantasia linguistica” – ma sin tanto che si ragiona in termini di oggetti, si sta ragionando anche in termini di soggetto, ovvero di un io che organizza il mondo secondo la propria grammatica.

Certo, se una qualche riduzione dell’io è davvero possibile, si può trattare solo di una sospensione momentanea, non di una esclusione. Nel linguaggio ci viviamo, e non ne possiamo uscire. Al massimo possiamo costruire l’allusione a un diverso tipo di rapporto con il mondo – oppure lo possiamo descrivere, ma la descrizione sarà inevitabilmente oggettuale, contraddicendo nel metodo ciò che andrebbe affermando nel merito. Sospendere l’io potrebbe voler dire portarci nell’area della consapevolezza dell’artificiosità dell’opposizione soggetto/oggetto, attraverso un linguaggio che evochi una relazione diversa non tra il soggetto e il mondo (che sarebbe già riproporre l’opposizione che si vuole oltrepassare) bensì semplicemente tra le cose (e, anche qui, la parola cose è già troppo forte, ma il linguaggio stesso organizza il mondo in cose, e non se ne scappa). Del resto, anche in uno psicoanalista come Jacques Lacan, che pare molto vicino a quest’ordine di problemi, l’io (il moi) viene descritto sì come una sovrastruttura, ma anche come una sovrastruttura di cui non è possibile fare a meno, almeno per noi – visto che noi interagiamo nel mondo anche attraverso la sua mediazione, e la nostra società è costruita su questa mediazione.

Il modo di lavorare di Amelia Rosselli sembra più consapevole del problema di Nietzsche di quanto non appaiano Giuliani e la neoavanguardia. Con questo non si vuole dire che Rosselli conoscesse questo aforisma e il pensiero nietzscheano in generale – anche se probabilmente non ne era del tutto aliena. In ogni caso, mi interessa più la convergenza che non la eventuale derivazione. A volerne ipotizzare per forza una storia, sappiamo come agisca in queste parole di Nietzsche un fondo schopenaueriano, il quale a sua volta si rifà all’arrivo in Occidente di prospettive orientali, variamente intese.

D’altra parte, sappiamo anche che Rosselli frequenta il buddhismo Zen (anzi Chan, il suo più antico corrispondente cinese, da cui lo Zen deriverebbe) sin dal 1954, e che la sua convergenza con John Cage, mediata dal pianista David Tudor, conosciuto a Darmstadt intorno al ’60, è fortemente rafforzata dal comune utilizzo dell’I Ching, l’antico libro dei mutamenti cinese. Non si tratta dell’adeguamento a una moda, che all’epoca non esisteva, se non come una vaga tendenza, certo non ancora influente. Per Rosselli si tratta di una prospettiva importate, di cui vanno assunte le premesse e le conseguenze. Tardi, nella sua vita, avrebbe anche confessato di essere da lungo tempo di fede buddhista[1].

Il buddhismo cinese e giapponese è diverso da quello tibetano. Solo a costo di vere forzature lo si può considerare una religione. È piuttosto una concezione del mondo – o meglio, una non-concezione, salvo che per noi Occidentali anche una non-concezione del mondo ne è una concezione. Arrivando in estremo oriente, il buddhismo si trova a enfatizzare quelli tra i suoi aspetti che sono maggiormente compatibili con la lingua-pensiero cinese; e quindi un’enfasi sulla prassi, e sulla sintonia col fluire del mondo, che sono scomparse dal pensiero occidentale con la sconfitta del pensiero eracliteo a vantaggio di Platone.

Una delle conseguenze di questo modo di pensare è l’enfasi sui processi di improvvisazione. Se osserviamo, per esempio, come lavora un calligrafo cinese (la calligrafia espressiva è una delle grandi arti dell’estremo oriente), scopriamo che un’opera d’arte calligrafica va realizzata tutta di un colpo, senza ripensamenti, magari dopo un lungo processo meditativo (che non è un processo progettuale – ovvero l’artista non deve già costruirsi progettualmente l’opera nella sua mente) in cui viene cercata una sintonia con il flusso delle cose circostanti, ma senza possibilità di tornare sui propri passi. Essa, cioè, non deve essere studiata, progettata. Il training del calligrafo si baserà dunque sulla conquista di una fluidità operativa estrema, in modo che la mano possa scorrere con massima naturalezza, portata dalle circostanze del momento. Solo così si produrrà un oggetto efficace.

Il calligrafo non riproduce un oggetto, e non deve pre-figurarsi un oggetto. Non concepisce se stesso come un soggetto che debba affrontare e risolvere un problema, né espressivo né altro. La sua soggettività non viene negata in nome di un’oggettività: sono soggetto e oggetto insieme a ritrovarsi sospesi, a vantaggio di una messa in sintonia del gesto della mano con la situazione. In Occidente, nel campo delle arti, il primo a seguire una procedura di questo tipo è Jackson Pollock, che non a caso incontrerà presto sulla sua strada la calligrafia cinese. Ma nel campo musicale, la pratica dell’improvvisazione è sempre stata una costante, messa in ombra soltanto nella musica colta degli ultimi secoli a causa del predominio formale della partitura; ma profondamente riemergente, per esempio, nella pratica del Jazz.

Le operazioni di John Cage vanno nella medesima direzione, ma con una componente provocatoria in più. Cage vuole renderci consapevoli della sospensione, non solo farcela inconsapevolmente vivere, come quanto ascoltiamo, per esempio, un’improvvisazione di John Coltrane. Il problema della riproduzione tecnica della musica toglie infatti una parte del senso all’improvvisazione musicale: nella sua improvvisazione, Coltrane si è infatti sintonizzato con una situazione del presente che non è più quella di noi che ascoltiamo la sua registrazione, e ce la possiamo solamente immaginare. Cage agisce in modo da costringerci ad affrontare la questione della simultaneità e della sintonizzazione con il flusso anche in un contesto di riproducibilità tecnica, e la provocatorietà delle sue operazioni ci costringe a riflettere teoreticamente sulla nostra stessa immersione nel flusso.

Se ora passiamo a osservare la modalità di scrittura di Amelia Rosselli, ci possiamo rendere conto che questa modalità di improvvisazione è pervasivamente presente nel suo lavoro; è anzi forse la condizione stessa della sua specifica modalità di riduzione dell’io. Certo, lei poteva rivedere, correggere, migliorare, quello che aveva già scritto; ma questo lavoro di editing non doveva comunque toccare quella sensazione di flusso che era nata da una modalità di scrittura basata sulla concentrazione e sull’improvvisazione. La macchina da scrivere, a leggere le sue stesse parole in “Spazi metrici”, aveva in questo processo un duplice ruolo: da un lato serviva per costruire il cubo, ovvero quella sorta di scatola che, a partire dalla lunghezza del primo verso, doveva inquadrare i successivi in quella medesima quantità tipografica, in maniera da negare il verso libero – in quanto espressione della sintassi e quindi dell’io e della sua organizzazione, discorsiva, del mondo. Dall’altro, la macchina da scrivere permetteva alla sua mano scrivente di correre più veloce di quanto non avrebbe permesso la penna, portandola vicina alla velocità stessa del pensiero, messo così maggiormente in grado di scorrere senza intoppi, con il suo flusso naturale.

Gli spazi metrici appaiono così, in questa prospettiva, come un altrettanto duplice stratagemma per sospendere l’io: da un lato mettendo in tensione la grammatica (poiché alla sospensione vera e propria non si può arrivare) e la metrica tradizionale con essa (e il verso libero ne fa parte, indubbiamente); dall’altro creando la scatola che possa contenere il flusso scrittorio senza creare ostacoli, senza porre barriere.

Si noti che il metodo di Rosselli non va confuso con la pratica dell’automatismo surrealista. Rosselli ammette di avere fatto molti esperimenti con quella pratica, ma di averla anche poi superata. L’automatismo surrealista si basa sulla pretesa di portare a galla le istanze dell’inconscio, e quindi ancora una caratteristica (per quanto profonda e nascosta) del soggetto. La scrittura rosselliana è invece una scrittura di improptu, nel senso musicale del termine, che funziona perché da un lato attraverso la sua modalità produttiva e dall’altro attraverso quella fruitiva che richiede, mette tra parentesi sia il soggetto che il mondo. I quali emergono poi, di fatto, ed emergono moltissimo, ma non in una relazione soggetto-oggetto, nella quale un soggetto descriverebbe degli oggetti, ma semplicemente perché quelli sono, inevitabilmente, gli elementi del linguaggio che abbiamo a disposizione. Rosselli può sospendere la relazione cognitiva, fondante (e anche questo parzialmente e momentaneamente), ma non può sospendere le conseguenze di tale relazione che stanno depositate nel linguaggio.

Date le premesse che abbiamo trovato nell’aforisma di Nietzsche, la sua poesia va tanto lontano quanto può, e probabilmente più lontano di chiunque altro, almeno in Italia.

[1] Sul buddhismo di Rosselli e sulla frequentazione dell’I Ching, vedi Fusco F., Amelia Rosselli, Palermo: Palumbo, 2007, pagg. 76-81.