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Parole sotto la torre – X edizione

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Parole-2016

Nόστοι, i ritorni

Da un approfondito esame delle sceneggiature delle pellicole di produzione hollywoodiana sembra che la battuta più ricorrente della storia del cinema di tutti i tempi sia “Back home”. “Tornare a casa”.

Tutta la narrazione occidentale è fatta, in buona sostanza, di due storie: una guerra fratricida durata dieci anni, e un ritorno a casa durato altrettanto. Da tremila anni a questa parte non facciamo altro che combinare questi due elementi primari per raccontare la nostra storia, la nostra identità culturale.

Il ritorno, in letteratura, significa molte cose. Per tornare bisogna innanzitutto essere partiti. Aver lasciato la terra natia, o le proprie idee, i pregiudizi, il mondo conosciuto, sempre identico a se stesso, per poi scoprire l’altro mondo, nella sua molteplicità e nelle sue differenze. Farsi straniero, conoscere la solitudine, intrecciare amori, amicizie, gioie e dolori. Tornare, poi, vuol dire scoprirsi diversi. La patria tanto amata non ci somiglia più, noi siamo cambiati e forse il nostro sguardo e la nostra esperienza saprà cambiare, in parte, la terra dei nostri padri.

“I ritorni”, in letteratura, non implicano necessariamente un viaggio fisico. Può avvenire anche nell’animo. Ogni romanzo in fondo è il percorso di un essere umano attraverso la scoperta del suo vero io. Le identità non sono mai fisse. I protagonisti che abbiamo conosciuto nelle prime pagine del libro, saranno differenti nelle ultime. Leggere resta il modo più semplice e più avventuroso di conoscere se stessi, conoscendo al contempo il mondo intero. Leggere. Tornare a leggere.

Programma

MERCOLEDÌ 20 LUGLIO

Ore 21
Proiezione del cortometraggio: L’amore… tutta un’altra cosa
Di e con Ignazio Vacca e Petula Farina
Conduce Andrea Contu

GIOVEDÌ 21

Ore 21
Tornare al territorio
Giacomo Sartori, Sebastiano Venneri
Conduce Lello Caravano
In collaborazione con Legambiente Sardegna

Ore 22.30
Il ritorno a scuola
Edoardo Albinati
Conduce Gianni Biondillo

VENERDÌ 22

Ore 19.30
Partire è tornare
Ilario Carta, Anna Maria Falchi
Conduce Stefania De Michele

Ore 21
Non si fugge dalla storia
Alessandro Mongili, Giorgio Todde
Conduce Nicolò Migheli

Ore 22.30
Il Vento – Storia di Gavino e di altri dispersi
Spettacolo teatrale di e con il Theatre en vol

SABATO 23

Ore 21
Il ventre molle della nazione
Roberto Costantini, Francesco Recami
Conduce Gianni Biondillo

Ore 22.30
La fine della storia
Marco Balzano, Gigi Riva
Conduce Marco Zurru

DOMENICA 24

Ore 21
L’isola dei sogni ricorsivi
Cristian Mannu, Gesuino Nemus
Conduce Marco Zurru

Ore 22.30
Il ritorno delle stagioni
Samuel Bjork
Conduce Anna Rita Briganti
Interprete Virginia Dessì

Ho ucciso l’Anticristo

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di Matteo Pascoletti

l43-cagliari-mostra-marco-130613182501_bigQuando Luciano decise di rubarmi i pensieri avevo diciotto anni e lui quaranta. In paese l’ammiravano tutti perché faceva il chirurgo, ma siccome non poteva aprirmi la testa e prendermi i pensieri dal cervello, trovò un’altra via. Eravamo poveri, così una domenica mattina andò al campo, da mio padre, a dirgli che voleva sposarmi, e lui acconsentì. Quella sera, a cena, quando dissi che non volevo, perché Luciano era vecchio e gli puzzava l’alito, mio padre mi prese a schiaffi davanti a mamma impietrita. Allora mi piegai.
Da sposati, Luciano prese a frugarmi i pensieri. La prima volta provai paura, ribrezzo e dolore, e infatti persi sangue; poi solo paura e ribrezzo. M’invadeva e cercava, sbrigandosi: quando trovava un mio pensiero lo sradicava e fuggiva, lasciando dentro i propri, come immondizia abbandonata di notte per strada. I suoi erano pensieri sudici, perché poi mi diceva sempre “vatti a lavare”. Solo che, per quanta acqua e sapone usassi, lo sentivo che mi restavano dentro. E se provavo a resistere Luciano mi prendeva a schiaffi e pugni, e se picchiava troppo forte e finivo all’ospedale, un suo collega scriveva che ero caduta per le scale o inciampata. E quando uscivamo in paese e parlavamo con le persone, Luciano mi prendeva in giro dicendo che ero maldestra.
Dopo un anno trascorso a rubarmi i pensieri, ho capito cosa sarebbero stati quelli di Luciano dentro di me: sarebbero diventati l’Anticristo. Così sono andata in Chiesa per chiedere aiuto a Gesù, ma lui non ha detto nulla, e nemmeno suo padre. Mi raccoglievo sul legno freddo della panca, piangendo li imploravo che scacciassero l’Anticristo prima che mi deformasse la pancia, altrimenti non avrei più potuto nasconderlo a Luciano. Ma loro niente, e intanto Luciano continuava a nutrirlo coi suoi pensieri sudici. Allora ho parlato col prete, ma lui m’ha cacciata via dicendo che aiutarmi non sarebbe stato esorcismo, ma omicidio. Tornata a casa Luciano era ancora all’ospedale, così ho usato i pensieri rimasti per preparare da me l’acquasanta, e l’ho bevuta. Ma l’Anticristo ha iniziato a lottare dentro il mio corpo: mentre si dibatteva ho sentito le fiamme nella gola e nello stomaco, ho avuto paura di morire e ho chiesto aiuto. I vicini sono arrivati e hanno chiamato l’ospedale, così Luciano ha scoperto che avevo ucciso l’Anticristo. Insieme ad altri maschi, dottori come lui, m’ha chiusa in un carcere a forma di reparto, da cui non si poteva uscire.
In carcere noi detenute avevamo la divisa bianca, come un sacco coi buchi per la testa e gli arti. Le guardie semplici avevano la divisa verde, mentre le guardie capo avevano la divisa bianca come noi detenute, ma aperta davanti. Le detenute e le guardie erano tutte femmine, gli unici maschi ammessi erano i parenti da fuori, durante le visite. Mio padre è venuto una volta sola, con mamma. Quando l’ho visto gli ho sputato in faccia e non è più tornato, e nemmeno mamma.
I capi venivano a visitarmi tutte le mattine, mentre un pomeriggio a settimana lo passavo discutendo con un capo solo, che mi chiedeva “Lo sa perché è qui, Bruna?”, e io dicevo “perché ho ucciso l’Anticristo e mio marito è Satana”, e lei mi guardava severa, anche se era femmina. Da principio non capivo il motivo, poi ci sono arrivata. Era un trucco: solo noi detenute eravamo femmine, infatti usavamo un bagno diverso dalle guardie, che in quei giorni ci guardavano con disgusto, come fanno i maschi. Le guardie e i capi si travestivano da femmine per raggirarci: infatti le detenute che stavano lì da più tempo o parlavano poco, o per niente, o dicevano frasi senza senso. Perciò avevo sbagliato a dire la verità sull’Anticristo: rischiavo informassero Luciano, e non volevo sapesse che m’erano rimasti dei pensieri. Così un giorno, a colloquio privato con la guardia capo, gli sono saltata addosso, a quel truffatore, aggrappandomi alla parrucca riccia. Poi l’ho graffiato per strappargli la maschera da femmina, però le sue urla hanno fatto arrivare le altre guardie. M’hanno presa di forza e buttata in una cella senza sbarre o letto, con le pareti che sembravano cuscini. Addosso avevo una divisa diversa: sempre bianca, ma con le cinture che si allacciavano dietro. Non potevo muovermi bene, avevo paura che Luciano entrasse da un momento all’altro, così ho iniziato a gridare, ma poi mi sono stancata e ho smesso. Non so quanto tempo è passato, però a un certo punto mi hanno riportata nella camera e legata al letto; anche lì ho avuto paura, perché da immobile se veniva un maschio e provava a rubarmi i pensieri mica potevo difendermi. Così appena avevo fiato gridavo “ladri, vigliacchi”. Allora le guardie semplici mi hanno messo uno straccio bianco in bocca e le parole le potevo solo pensare. Poi hanno iniziato a farmi le punture, e giorno dopo giorno mi sono resa conto che le punture mi facevano sparire i pensieri.
Così il carcere funziona che prima provano a rubarti i pensieri, e poi se non ci riescono te li ammazzano uno a uno, come fossero mosche. Io però sono riuscita a prendere questo pensiero e a nasconderlo bene, dove nessuna siringa e nessuna guardia potrà trovarlo, e nemmeno Luciano. Quando muoio lo do alla Madonna, perché è femmina.

Allons enfants de la Patrie

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https://www.youtube.com/watch?v=lu3eSNi__4w

Hannah Sanghee Park, 4 poesie

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Empusa_pennata_redpit

Spoglia

Come una cornice incorniciata il fossile
conteneva una carcassa, una corazza,

e il proprio cofano in un altro cofano,
il proprio, naturale sarcofago.

Non ho mai raccontato a nessuno questa storia:
un’estate come questa mangiai una nettarina

fino al nocciolo grezzo di velluto a coste, seguitai
a rotolarlo e a masticarlo finché non si

schiuse, e un ragno inerte, seduto
in un ciuffo bianco, era all’interno come un gioiellino.

Com’è che una cosa si sente reale. Gli strati
che mi costituiscono sono, riduttivamente, soffici

duri, soffici, una facile separazione fino alla verità,
ma la vendita diretta e l’inghiottire vanno fatti lo stesso.

 

 

Il corpo elettrico

Tracciami: (x, 0) (0, x) sul corpo

il corpo che pompa: gruppo sanguigno O (si spera) il corpo

che elabora: O (elemento)

 

facciamo x (moltiplicazione) racchiudiamo x (moltitudini)

 

o me: XXX (orcio del moonshine marcato) o
te: la O accesa della tua sigaretta

 

Perché non roviniamo insieme i nostri organi in un modo lento

annerendoci nella o del tuo colosseo e nella x del mio sacrificio

 

 

Q

Posso domare amore, disfare ardore
far fuori ciò che ci fa ardere?

Posso sfrecciare per i tendini
all’osso? O la fatica fa parte

di guadagnare fiducia? Posso sbucciare
e limare il tuo corpo, aprendolo alla mia

freccia cupìda? Posso trovare
la risposta alla chiamata del corpo

(se la voglia ti lascia volere)?

 

 

E una bugia

La domanda era dubbiosa.
E il dire tutto detto.
E quindi, in tandem,

Anatema, ed antifona.
La verità era sospesa,
Sforzarsi troppo stancante.

E la lana fu tirata
All’insù da isolante.
Nessun occhio si tenne aperto.

Il mio iride, ignorai
La verità, ora diffido
Di tutto ciò che si vede, e questa

Sfiducia, segnale sfrenato di strazio
Chiamato e chiamato e procurato dalla tua dama.

 

 

*

 

 

Strip

Like a frame within a frame the fossil
carried a carcass, a carapace,

and its own casket in another casket,
its own natural sarcophagus.

I never told anyone this story:
in a summer like this I ate a nectarine

until its rough corduroy pit, continued
rolling and chewing it until it hinged

open, and an inert spider, sitting
in white wisp, was inside like a small jewel.

How does a thing feel real. The layers
comprising me are, reductively, soft

hard, soft, an easy sift to the truth
but the hard sell and swallow done anyway.

 

 

The Body Electric

Plot me: (x,0) (0,x) on the body

the body pumping: blood type O (one hopes) the body

processing: O (element)

 

we can x (multiply) we contain x (multitudes)

 

or me: XXX (jug of marked moonshine) or
you: the burning O of your cigarette

 

Why don’t we ruin our organs together in a slow way

blackening in the o of your coliseum and the x of my immolation

 

 

Q

May I master love, undo its luster
do in the thing that makes us lust?

May I speed through the body’s sinew
to marrow? Or is toiling a part of

the gaining of trust? May I pare and narrow
your body down, and open it to my

cupidity’s arrow? May I find my
response to body’s unanswered call,

(if the want leaves you wanting, at all)?

 

 

And a Lie

The asking was askance.
And the tell all told.
So then, in tandem,

Anathema, and anthem.
The truth was on hold,
Seeking too tasking.

And the wool was pulled
Over as cover.
No eyes were kept peeled.

My iris I missed
The truth, now mistrust
All things seen, and this

Distrust, the sounded distress signal
Called and called and culled from your damsel.

 

 

*

 

Hannah Sanghee Park (Tacoma, 1986) ha vinto il Walt Whitman Award 2014 con il libro inedito The Same-Different, giudicato così pieno di “chiasmi, giochi di parole, rime che le figure si avvitano su se stesse come filamenti di DNA o scalinate di Escher”. Tra le altre cose Park scrive per il cinema e la televisione. Queste traduzioni sono di Isabella Livorni.

 

 

Atti osceni in luogo privato

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missiroli di Gianni Biondillo

 

Marco Missiroli, Atti osceni in luogo privato, Feltrinelli, 249 pagine

C’è un punto di non ritorno fra l’infanzia e l’adolescenza. Per alcuni può diventare un trauma. A Libero Marsell, dodicenne franco-italiano, capiterà di scoprire il tradimento della madre, una sera a cena, col migliore amico del padre. Il sesso per il non più bambino si svelerà un mondo incomprensibile, un polo di attrazione e di mistero, di dolore più che di liberazione.

Quello raccontato da Marco Missiroli in Atti osceni in luogo privato è a tutti gli effetti il classico romanzo di formazione borghese. Dove più che gli avvenimenti, le avventure, gli incontri straordinari, saranno i sommovimenti del mondo interiore a far maturare il giovane Libero.

Il protagonista cerca nel suo corpo una spiegazione al mistero della sessualità, trova nello sfogo onanista una sorta di affrancamento dal trauma infantile. Negli anni incontrerà amori, amicizie, mentori che gli daranno una mano a liberarsi dai suoi tormenti.

La scrittura è controllatissima, incapace di colloquialità, letteraria. Spesso fatta di sentenze e aforismi freddi e perfetti. La narrazione è in prima persona, come una sorta di memoriale. Forse anche per questo Missiroli decide di spostare gli avvenimenti di questo romanzo che cerca un respiro “europeo” fuori dai confini geografici e temporali della sua biografia. Libero, sembra dirci, non è Marco, non si fa voyerismo in queste pagine. È fra Milano e Parigi, nel cuore degli anni Ottanta, che si muove il protagonista. Anche se potrebbe essere dieci anni prima o dopo, dato che la Storia sembra essergli indifferente. Chiuso fra i libri che legge e le donne che frequenta, Libero sembra involontariamente inconsapevole che tutto in quegli anni stava cambiando, non solo lui.

(pubblicato su Cooperazione n° 17 del 21 aprile 2015)

Il doppio sguardo di Sophia

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di Susanna Mati
doppio sguardo di Sophia
Divagazione politico-filosofica a margine del volume: Carla Stroppa, Il doppio sguardo di Sophia, Moretti & Vitali, Bergamo 2016, pagg. 262, €20,00.

Da quando il femminile ha preso la parola, ed è cioè diventato capace di tenere il discorso (prerogativa riservata per millenni quasi esclusivamente al maschile), si sta recuperando con impensabile velocità il tempo perduto. Esiste attualmente in tutti i campi una grande ricchezza di contributi autointerpretativi da parte delle donne, tanto che oggi è piuttosto il maschile ad essere ormai ammutolito, e a rivelarsi nei suoi caratteri di estrema fragilità e, assai spesso, come le cronache testimoniano, di arretratezza – che sono poi la fragilità e l’arretratezza non tanto di singoli individui, ma di un intero sistema culturale di valori giunto al tramonto, con lo sconcerto e lo smarrimento che questa perdita degli orientamenti tradizionali comporta. La morte di Dio e del Padre genera poche volte nostalgia, talvolta violenza, più spesso lamento, incertezza e paura del nuovo.

Il maschile ha ormai poche parole, è oggi connotato da una povertà di discorso, perfino da uno sbandamento tangibile, e per lo più tenta ancora debolmente di identificarsi con i residui di quel discorso che il pensiero femminista ha definito patriarcale. Al contrario, il femminile ha avuto modo di rivelare sempre di più la sua natura generatrice, creativa, anche nel regno – finalmente – della parola e del pensiero; e se le prime scrittrici vere e proprie, consapevoli di questo ruolo, risalgono all’Ottocento, e le prime filosofe vere e proprie al Novecento, l’essenza affabulante e mitologica del femminile – che ovviamente è sempre esistita – è giunta finalmente in luogo pubblico. Anticamente, Diotima poteva sì parlare, ma in quanto donna, straniera, sacerdotessa (dunque invasata dal dio), poteva parlare proprio perché era esclusa dalla polis. Platone, nella cui città ideale anche una donna sarebbe potuta diventare filosofo-re (anzi, filosofa-regina), aveva avuto eccezionalmente il coraggio di darle la parola, per esporre il più eversivo dei discorsi, quello su eros. Potremmo ricordare pochi esempi di questo tipo – fino ad oggi.
Tuttavia: il discorso femminista – che prendiamo qui genericamente, nel suo complesso, senza distinzioni che pur sarebbero opportune -, che così tanto ha dato negli ultimi decenni, riuscendo a modificare – mai ancora abbastanza – la società, può forse esaurire l”essenza’ del femminile, la sua immagine, la sua totalità? Ed esiste poi davvero questa ‘essenza’, al di là delle proiezioni che il maschile ha elaborato per secoli? Lasciamo stare le proiezioni, e poniamo che questa caratteristica peculiare, in qualche modo, esista, seppure in modo complesso, metaforico e anche ambiguo e contraddittorio (è per questo che la parola essenza è tra virgolette, essendo intesa in un significato antimetafisico del tutto improprio); e che riguardi in realtà, come cercheremo di dire più avanti, il futuro di entrambi i generi. Oggi la donna pare avervi la chance di un accesso privilegiato.
È appunto su questo terreno che, con una posizione di grande originalità, si pone il libro di Carla Stroppa – scommettendo temerariamente su un aldilà possibile rispetto al discorso esclusivamente sociologico e politico sul femminile. Un aldilà, naturalmente, anche rispetto al ‘semplice’ discorso biologico e perfino al discorso di genere. Una tensione verso l’alto percorre questo libro, come se Carla Stroppa ci dicesse: sì, va bene, nessuna di noi vuole tornare indietro, ma… ma, rispetto al piano delle rivendicazioni, c’è anche qualcos’altro, un elemento ulteriore, meno caratterizzabile, meno afferrabile, anche meno discorribile e categorizzabile, e tuttavia necessario a connotare la grande varietà e contraddittorietà del femminile, nonché le sue più intime risorse. C’è un in più, più sfuggente, più sottile, più profondo, che connota la donna – il femminile – come tale. Una specie di essenza, appunto, una caratteristica ineludibile, preziosa.
Il pensiero analitico junghiano, in questo caso, viene in aiuto nel tentativo di guardare una totalità – quella del femminile – nella sua interezza, senza nascondersi le sue ombre, con un “doppio sguardo” che ha origine nella complessità contraddittoria dell’inconscio. Lo scopritore dell’inconscio, Freud, si era arrestato davanti al presunto ‘mistero’ del femminile (che poi, magari, non era affatto tale: ma sconosciuto ed enigmatico rimaneva a questo sguardo maschile), facendo al massimo della donna un maschio manchevole, con peculiarità esclusivamente deficitarie – e ‘misteriose’, appunto. Ma nella mitologia archetipica esisteva invece da sempre una certa parità di genere, per così dire; le grandi dèe mediterranee, vicino-orientali, le “signore del labirinto”, stanno all’origine della nostra cultura. Prima di Dioniso, il più grande dio dell’Occidente, a Creta c’era già Arianna. E solo attraverso il loro temperato dualismo, talora convergente in uno, talora divergente, e la loro armonica differenza, la loro diversa eguaglianza, l’intero panorama dell’umano può trasparire e trasfigurarsi nello specchio ampio del divino. (Premesso che questo percorso è appunto un labirinto, un percorso mai in pace, forse mai concluso).
Continuando a parlare per immagini mitologiche, c’è una Sophia che è dentro entrambi i generi, insieme per unirli, dividerli e trascenderli. Possiamo dare un nome a questo elemento comune e ulteriore? Forse il suo nome – come l’antica sapienza filosofica occidentale ci avrebbe detto – è anima. L’autrice nota giustamente la significativa circostanza di come “l’accezione simbolica di anima sia da sempre ascrivibile alla fenomenologia femminile, e supponiamo che questo non sia un caso” (p. 11). No, non è un caso, perché appunto pare che il femminile sia portatrice, specialmente oggi, della possibilità di un diverso ordine del discorso, di una vera e propria rivoluzione. Ma da dove partirebbe questa rivoluzione?
Ridiscendiamo sulla terra, tenendo in mente questa immagine dell’anima: il femminismo, sempre benemerito, cerca di superare le debolezze storicamente patite, “ma troppo spesso”, scrive Carla Stroppa, “eludendo il confronto con il proprio mondo interiore e con i propri limiti” (p. 17); da ciò deriva il pericolo di “un’idea troppo sommaria dell’emancipazione femminile” (p. 34), se essa viene limitata a rivendicazioni sociali e politiche, in cui questo mondo interiore, in effetti, non trova alcuno spazio, alcuna voce. Per questo motivo, sostiene ancora l’autrice, rischiamo “di raggiungere la parità di opportunità nell’alienazione, nella scissione tra pensiero e corpo emozionale” (p. 59). Il pericolo, evidentemente, esiste. Questa ricerca di parità non deve essere basata “unicamente sulla dimensione sociale e orizzontale, ma su un sentimento di valorizzazione dell’umana dignità che si inoltra nel profondo e si protende verso la trascendenza” (p. 63), creando dunque un ordine, un cosmo davvero alternativo; altrimenti “la donna, a forza di prendere distanza dalle proiezioni d’anima che l’uomo fa su di lei e cercando di definire sempre meglio l’ambito del proprio Io, rischia di prendere le distanze anche dall’anima transpersonale, col risultato paradossale di assomigliare sempre di meno all’immaginario dell’anima che l’uomo proietta su di lei, questo sì, ma sempre di più all’Io evidente, mondano, arrampicatore dell’uomo” (p. 66).
Non importa essere addentro ai termini della psicologia junghiana per comprendere il nucleo di questo discorso: per non rimanere schiacciate (e schiacciati) sul modello maschile di potere, con i suoi risvolti negativi (cos’hanno mai di femminile, nella loro azione, le potenti governanti che, fortunatamente, stanno affacciandosi sempre più nella politica mondiale?), questo modello bisogna superarlo in altezza, in verticalità, e non certo pretendere di parificarsi ad esso. Perciò “la mia riflessione sull’anima”, scrive l’autrice, “oltrepassa quella relativa al genere sessuale” (ivi). Questa riflessione è infatti egualmente valida anche per l’uomo: sia l’uomo che la donna devono superare il modello maschile di potere, così decaduto e deprivato di anima.
Anima che è la più efficace immagine occidentale di memoria, desiderio, cultura, ricerca di significato. Rispetto all’adeguamento all’ordine del discorso ormai in sfacelo, e alla parificazione ad esso, il pensiero dell’anima può consentire l’accesso ad un totalmente altro, ad un novum.
Si sarà capito dove voglio arrivare: nel ricchissimo libro di Carla Stroppa si forniscono alcuni elementi inediti per rimettere tra l’altro in questione, con uno sguardo comprensivo e originale, nientemeno che i rapporti tra la politica e l’anima. Quello che è in fondo il problema platonico per eccellenza (come può darsi società giusta, quando è composta da anime ingiuste?) ritorna urgentemente alla nostra attenzione, declinato al femminile. Ma ritorna anche un altro punto fondamentale della riflessione platonica: cioè che, per cambiare la società e il mondo, e ancor prima noi stessi, dobbiamo ‘possedere’ un sapere, uno sguardo e una visione non orizzontali (per ripetere l’aggettivo usato dall’autrice), bensì che trascendano il mondo stesso – come avviene al filosofo della Repubblica platonica. Solo la “saggezza iniziatica” dell’anima (p. 67) – anch’essa, come la filosofia, assai più una ricerca che un possesso – ci dà questo potere alternativo, capace di futuro, per tutti i generi.
In questa direzione, tutta da percorrere e da scoprire, la psicoanalisi e la psicologia del profondo possono offrire un contributo importantissimo per una critica dell’appiattimento e dell’adeguamento ai vecchi modelli invalsi di potere – e per una reale fuga al di là di essi.

Il corpo del libro : La Steppa di Sergio Baratto

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di Mariasole Ariot

SteppaCi sono luoghi mentali – e fisici – in cui la parola si carica di peso, luoghi in cui l’estrazione  o la rimozione di una singola frase – anche solo una – aprirebbe un buco, un foro da cui sottrarsi o in cui cadere, ma con cui inevitabilmente sarebbe necessario fare i conti. E ci sono libri in cui quel peso si fa tratto distintivo, dove ogni frase appare (in un flusso che però  sorpassa il chirurgico per diventare carne – per mostrare la carne sottostante)  inserita nel testo in un processo quasicorporeo : un corpo duro, solido, in cui testa e arti si muovono all’unisono, coordinati perfettamente. Dove in quel corpo convivono diverse età, in un presente che è già passato e che sta diventando futuro : tutto è lì, di fronte e non di spalle, tre tempi concentrati in un organo pulsante.

La Steppa di Sergio Baratto, romanzo d’esordio con cui l’autore ha vinto il Premio Berto, è uno di quei libri : un libro-corpo, in cui tutto – dal movimento della narrazione al contenuto della stessa – porta il segno dell’autenticità e del necessario.
Ho letto il testo in un maggio di frontiera, in cui non solo io mi ritrovavo fisicamente confinata, ma in cui il silenzio dello spazio in cui arrancavo per sopravvivenza  si appoggiava alle pareti costruite dal testo : la lettura è diventata allora – ma lo sarebbe stata a prescindere – un corpo a corpo con il reale. Un reale in cui – per contraddire Sartre per il quale ” tutti gli autori sono concordi nel notare la povertà delle immagini che accompagnano la lettura d’un romanzo” – lo sguardo della parola è qui al contrario uno sguardo che non solo può vedere, ma produce esso stesso visione. I luoghi descritti – Arimiate, Ortonago, la Steppa – diventano allora produttori di Immaginario, i protagonisti della vicenda s’interfacciano con i luoghi in un continuo movimento di andata e ritorno : spazio, tempo, e persona(ggi) vivono l’uno nell’altro e l’uno dell‘altro, e ogni parola diventa fondante e fondativa, pietra e carne.

La Steppa, in cui, come scrivono i giurati del premio Berto ” un angolo della provincia lombarda si allarga a contenere il mondo intero” è esattamente questo: siamo nel microcosmo di una scena vicina, che ci appartiene biograficamente e generazionalmente, dove folle di corpi militarizzati e centurie sparano alla cieca nel tentativo di preservare una realtà “pulita”, da sterilizzare – ma siamo anche trasportati in un al-di-là che è già qui, in un mondo a tratti spaventoso, segnato dalla ferita, dal brutale e dalla paura che non è solo una rappresentazione di una realtà distopica, ma è pure qualcosa che già ci appartiene, che è già davanti agli occhi, solo sotterranea. Il velo con cui ci copriamo il volto per “non volerne sapere” si lacera, si aprono feritoie attraverso cui l’autore ci mostra qualcosa che già stiamo vivendo.

Un uomo correva in mezzo alla strada con la testa coronata di fuoco, stringendo sotto l’ascella un grosso raccoglitore, e a ogni passo le fiamme gli scendevano un po’ di più lungo la schiena e le braccia. Incrociandoci, mi ha fissato per un attimo con lo sguardo incredulo. Era il sindaco Due. Pochi metri dopo è crollato sull’asfalto e ha continuato a bruciare, immobile, finché non è stato che un puntolino ardente nello specchietto retrovisore.

Verso la periferia le strade erano disseminate di auto incendiate. Gente che aveva cercato di fuggire ma era stata raggiunta dalla colata lavica, forse qualche camerata non così coraggioso da farsi massacrare con onore in battaglia. Tra le vampe vedevo balenare all’interno degli abitacoli sagome annerite, ormai fuse con i sedili e i poggiatesta, o braccia carbonizzate sporgere come rami secchi dai finestrini esplosi.
Fuori città, all’imbocco dello stradone che attraverso i quartieri industriali virava a nord verso il canale, ci siamo fermati per un istante a guardare dietro di noi.
Arimiate bruciava. Una muraglia di fumo grigiastro si levava alta contro il cielo nero, sciogliendosi man mano nella luce vermiglia dell’immensa fornace che ardeva spalancata sopra i tetti dei palazzi in fiamme.

Eppure, in questo spavento, nello svelamento in cui Sergio Baratto ci accompagna, là dove lo scabroso del Reale riemerge, non c’è freddo : tutto resta delicato e commovente : l’amore e la scintilla della bellezza sono elementi altrettanto fondativi che aumentano la densità del romanzo, il suo peso specifico.

Sono i capelli bianchi di Aili, la fiaba infilata nella tasca interna del giubbotto del protagonista nel trascorrere degli anni, il volto e la mano di Fiammetta, gli occhi azzurri del figlio di Emelian morto di febbre, il corpo fumoso di Stragačić quando dice “Uno cerca di fuggire dal passato, crede di esserselo lasciato alle spalle, e invece il passato è lì che lo aspetta al varco. Davanti, non dietro”, l’allergia ai gatti, le risate adolescenziali (sì, perché La Steppa è anche un romanzo di formazione) l’amore di Zeno nei cimiteri di notte.

“Dove siamo?”
“In un posto sicuro. Sottoterra.”
“Sottoterra?”

“Scaviamo buchi e ci mettiamo lì, quando fuori fa troppo freddo o dobbiamo scappare”

La potenza di questo libro vive (anche) di questo : di questo parlarsi, di questo scavare buche nel dolore per potersi proteggere, del riemergere dallo scavo quando, con quel dolore, è necessario farci i conti per poter salvare la quota di bellezza che nonostante tutto riesce a sopravvivere. Come una pianticina che se muore in un punto rispunta dalla terra in un nuovo altrove, impossibile da sradicare del tutto. Perché nell’indicibile e nel terrore qualcosa fa scarto, una lucina continua incessantemente a brillare, ad illuminare un angolo di mondo che dev’essere – mi azzardo a dire per dovere etico – protetto come si protegge un figlio.

Quando mi sono assopito, disteso sull’erba umida, Aili e Fiammetta si stavano abbracciando in silenzio, e forse ridevano e piangevano insieme. O forse era solo il pigolio degli uccelli appena nati nei loro nidi sugli alberi del bosco, che piano piano si svegliavano e aprivano i becchi ancora molli, le ali ancora nude, gli occhi ancora ciechi.

E se Sergio Baratto, con una lingua viva e densa, nell’intenso, sembra dirci con perfetta lucidità e ancoraggio al quotidiano : guardatelo : l’orrore esiste, è già qui, è davanti e non dietro; guardatela : esiste l’ipocrisia, la violenza, il brutale, la volontà di mantenersi rigidi e risoluti nella volontà di far fuori “un nemico” e la sua marginalità;  guardatela : esiste la catastrofe e non è distante ma è anzi già abitata; sembra anche indicarci una zona residuale, un interstizio dove sotto le macerie, o forse sopra, permane il segno della parola e del nome, la commozione, la quota di bellezza che sporge da un corpo dilaniato, verso cui è altrettanto necessario e doveroso dirigere lo sguardo.

Eadweard Muybridge e le GIF di fine Ottocento

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di Ornella Tajani

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Philip Glass A Gentleman’s Honor

Nel 1872 l’allora governatore della California, Leland Stanford, sospettava che ci fosse un attimo in cui, durante il galoppo, nessuna zampa del cavallo toccasse il suolo. Chiese così al fotografo inglese Eadweard Muybridge di provare a verificare la sua ipotesi. Muybridge sistemò dodici fotocamere una dopo l’altra, lungo il percorso del cavallo, in modo da scattare in sequenza; dopo vari tentativi poté constatare che il governatore aveva ragione: c’era un momento in cui il cavallo al galoppo era sospeso nell’aria.

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Fu a partire da quel momento che Muybridge iniziò ad appassionarsi al modo di catturare in immagine ciò che non era possibile vedere a occhio nudo: si specializzò nel campo della fotografia in movimento e ideò lo zoopraxiscopio, uno strumento che permetteva la proiezione di scatti fotografici in sequenza: in sostanza, un antenato del proiettore cinematografico, dai risultati molto simili alle GIF di oggi.

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Nello stesso anno, Muybridge, cinquantaduenne, sposò la ventunenne Flora Stone. Due anni dopo scoprì che Flora, ormai incinta, aveva una relazione con il critico teatrale Harry Larkyns. Andò a casa di Larkyns e, dopo avergli detto “Buonasera, mi chiamo Muybridge, le ho portato la risposta alla lettera che ha inviato a mia moglie”, gli sparò.

Fu processato per omicidio e assolto dalla giuria per “justifiable homicide”.

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In seguito Muybridge proseguì le sue ricerche, sperimentando la cronofotografia e dedicandosi soprattutto allo studio del movimento negli animali e negli atleti; i frutti di queste ricerche hanno contribuito allo sviluppo della biomeccanica.
Il suo lavoro ha inoltre influenzato numerosi artisti di varie discipline, epoche e nazionalità, da Duchamp a Francis Bacon, a Jim Morrison. Il brano che state ascoltando è tratto da The Photographer, l’opera che Philip Glass ha composto nel 1982 ispirandosi alla sua figura e, in particolare, alla vicenda dell’omicidio di Larkyns; il libretto dell’opera ha tratto spunto anche dai verbali processuali e da alcune lettere di Muybridge alla moglie.

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Appunti su “Tutta un’altra storia” di Giovanni Dall’Orto

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di Carlo Alberto Frassanito

Quando ho letto per la prima volta Dall’Orto ero uno sbarbatello alle prese con l’etimologia dell’ingiuriativo “finocchio”. Non mi convinceva la vulgata, in auge allora come adesso, sui roghi sodomitici all’aroma d’anice. Tramite la rete, unico strumento di ricerca che potessi all’epoca permettermi, m’imbattevo casualmente nel checcabolario, dictionnaire raisonné dell’onomastica
omosessuale. E di lemma in lemma prima, di articolo in articolo poi, cominciavo ad avvicinare quel pozzo senza fondo di materiali e idee che era, ed è tuttora, giovannidallorto.com.

A secoli di distanza dalla pubertà, conclusa la lettura dell’ultima pubblicazione di Dall’Orto, Tutta un’altra storia. L’omosessualità dall’antichità al secondo dopoguerra (edito da Il Saggiatore), la sensazione che ho avvertito è stata inaspettatamente la medesima dei miei lunghi anni imberbi, vale a dire quella di chi si rende conto di essersi perso un pezzo della storia, un pezzo bello grosso per giunta.

Nel suo libro Dall’Orto racconta svariate cose interessanti. La sua personale idiosincrasia nei riguardi dei luoghi comuni lo induce a capovolgere cliché storici putrefattisi da tempo nella nostra privata Weltanschauung. E se alcuni di questi smascheramenti provocano istantanei sollievi – è il caso della presunta bisessualità grecoromana, oppure dell’ascendenza biblica del pregiudizio sulla contranaturalità omoerotica, di origine in realtà accademico-stoica – altri generano un certo fastidioso imbarazzo (se non altro nel sottoscritto), come le prove di un’aspirazione al matrimonio egualitario risalente almeno al XVI secolo e de facto più vecchia di quanto era lecito aspettarsi; Altri ancora, poi, non è difficile vaticinarlo, susciteranno ulteriori occasioni di dibattito, primo fra tutti il rinvenimento di una concezione innatista dell’omosessualità databile all’età antica.

Tutta un’altra storia è per sua esplicita ammissione uno “strano” libro di storia. Eppure, la sua “stranezza” non risiede nel programmatico rifiuto dell’impostazione per exempla, dell’immancabile, e invero un po’ voyeuristico, martirologio delle checche illustri, né tantomeno nello stile, lontano anni luce dalla prosa sedativa a cui ci ha reso avvezzi l’accademia e che, se non temessi di essere frainteso, definirei “frocio”, vale a dire ironico, franco e scintillante. Si tratta, invece, di un libro “strano” perché costantemente e volutamente polemico.

Fin dalle premesse del suo discorso, Dall’Orto ingaggia una mordace battaglia contro coloro chedefinisce, con intento più critico che semplificatorio, “invenzionisti”, ossia i sostenitori della tesi, di derivazione foucaultiana, per la quale l’omosessualità rappresenterebbe una costruzione sociale formatasi tra il XVIII e il XIX secolo, piuttosto che una realtà ontologica o un’immanenza umana.

Alla confutazione di Foucault l’Autore ha dedicato finanche un intero capitolo che, per discutibili ragioni editoriali, è rimasto escluso dal volume cartaceo, benché reperibile online.

C’è da dire che la polemica non è affatto pretestuosa, la questione che s’intende discutere è tutt’altro che gratuita e da essa dipende lo statuto stesso del saggio: se non si dà l’esistenza dell’omosessualità cade di necessità la ragion d’essere di una storia della stessa.

I termini della diatriba, nondimeno, appaiono come offuscati da alcuni fraintendimenti di fondo. Se è vero che Dall’Orto dimostra, prove documentarie alla mano, che concezioni essenzialiste e performative dell’omosessualità si sono sovrapposte in pratica da sempre e ben prima del XVIII secolo, dall’altro non si può omettere, in primis, che Foucault non era, a suo stesso dire, uno storico
stricto sensu e che più volte nelle sue opere si premura di chiarire che le sue ricerche sono funzionali più al sostegno di un ragionamento, che all’accuratezza della ricostruzione storica; in secundis che, proprio in virtù della sua atipicità, Foucault muoveva da presupposti (speculativi) già di per sé antiessenzialisti, a prescindere dal fatto che si occupasse di sessualità, di follia o di checchessia.

L’intento di Dall’Orto appare peraltro più che nobile e s’intreccia alle motivazioni che lo hanno persuaso a scrivere una storia dei finocchi occidentali. Il ricercare nel passato le tracce di un’antica frocietà palesa il disegno di rinsaldare quell’identità omosessuale tanto a lungo e faticosamente costruita a partire dagli anni settanta del secolo scorso e così indebolita negli ultimi decenni.D’altronde, un effetto della prolificazione dei discorsi post-strutturalisti circa le nozioni di sesso, genere e orientamento sessuale, emblematizzato secondo Dall’Orto dall’infinita sequela di lettere giustapposte quotidianamente all’acronimo LGBT, è stato in modo incontestabile quello di frantumare man mano l’unità e la forza politica di una comunità minoritaria, un tempo conscia dell’importanza della sua compattezza e ad oggi focalizzata pressoché soltanto sulla propria
parcellizzazione individualistica.

In questo processo di minorazione della minoranza, analogo a quello riscontrabile in altri gruppi “minoritari” come quello delle donne, dei precari, dei migranti e via dicendo, non è infondato scorgere una futura dissoluzione della stessa e quindi del suo potenziale oppositivo e antisistemico.

L’evidenza, in più, che certi discorsi di moltiplicazione identitaria provengano dall’accademia nordamericana, quelli di Butler innanzitutto, e che, come ben rileva Dall’Orto, denuncino una certa tendenza all’esportazione di modelli di contestazione estranei a quelli nostrani, porta a sospettare che stiamo forse saggiando, per dirla con Foucault, degli inediti dispositivi di sapere e potere.

Lungi dal voler offrire, in questa o in altra sede, alcuna proposta risolutiva circa la vexata quaestio se froci “lo si è” oppure “lo si fa”, mi limito a suggerire come la negazione di una realtà ontologica all’omosessualità non escluda a priori la costruzione di un’identità omosessuale contingente. In altre parole, non vedo perché in un contesto storicamente dato non possa comporsi senza sensi di colpa un profilo identitario, quantunque socialmente e culturalmente fondato, che accomuni fra di loro gli invertiti e con essi le lesbiche, i bisessuali, i transessuali e qualunque altro individuo sia portatore di una sessualità alternativa alla norma.

Si obietterà che un siffatto esperimento di artefatta integrazione possa risultare castrante e riduttivo per i soggetti che vi sono coinvolti, che sia pericolosamente simile ad alcuni tentativi di fondazione identitaria studiati a tavolino, come l’italianità neoromana di matrice fascista o la padanità pseudoceltica della Lega ante Salvini, che finisca per essere eterodeterminato dalla norma perché si realizza nella negazione della stessa. Eppure tutti questi vizi di forma sono compensati dalla forza oppositiva che una comunità coesa eserciterebbe, e al contempo attenuati dalla consapevolezza che il collante sarebbe in ogni caso un’identità ideologica e non “reale”.

Si tratterebbe, in sostanza, di sostituire ad un’identità gay tout court un’identità gay indebolita quel tanto che basti a non scadere, alla stregua di tutte le ideologie, in derive autoritarie, gerarchizzanti, escludenti e colonizzatrici (come quelle di chi tenta di sbiancare Stonewall). Un’identità che si collochi nella contingenza, nell’Italia, ad esempio, in cui una legge dello Stato, salutata come progressista, non soltanto istituzionalizza una discriminazione, ma impone che il riconoscimento giuridico dei rapporti interpersonali sessualizzati passi in maniera esclusiva dallo scimmiottamento della coppia eterosessuale; oppure, per dire, nell’Occidente che sullo sfondo di una strage omofobica proietta l’arcinoto spettacolo sullo scontro di civiltà, mentre tace sulla liberalizzazione, imposta dalle lobby transnazionali, del consumo della violenza armata.

Nessuno nega che si parli di una possibilità molto semplice sulla carta, ma oltremodo più difficoltosa nella pratica, una possibilità destinata gratia sui a parecchi compromessi, errori e scacchi. Se non altro, tuttavia, assumendo una teoria identitaria del genere, in una prospettiva, mi si passi la locuzione vattimiana, di “sessualità debole”, una storia come quella di Dall’Orto può addossarsi il significato di quello che in effetti è: un’azione politica, l’atto sovversivo di un movimento di interpretazione omosessuale.

Giovanni Dall’Orto
Tutta un’altra storia
Il Saggiatore
ISBN 9788842818748
Pagine 728
€ 27.00

 

Da “Fiore inverso”

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(È da poco uscito Il fiore inverso, ultimo lavoro – libro+cd – di Lello Voce e Frank Nemola. Pubblichiamo qui un estratto del saggio Per una poesia ben temperata, incluso nel libro, e una traccia audio.)

 

di Lello Voce

(…) Una delle ragioni per le quali la poesia ‘muta’ e gli integerrimi custodi della letteratura, i critici letterari e i filologi, hanno avuto cura di rifiutare con costante fermezza ogni rapporto possibile tra poesia e musica, pur dinanzi all’evidenza storica di un dialogo costante e di una condivisione sentita a lungo come necessaria da entrambe le arti, è probabilmente proprio il bisogno di cancellare ogni memoria di un rapporto che, al solo ricordarlo, avrebbe posto di nuovo la poesia di fronte alla sua natura sostanzialmente orale e sonora.

Phyla – invertebrati

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di Mariasole Ariot20150911_192816

 

Sono nata da un’assenza. I volti appesi alle pareti grondano sulle cose, spargono dolore sui movimenti, zittiscono. Di questo silenzio non ci diciamo che millenni, piccoli rimasugli di terra nelle bocche che occludono il passaggio : chinàti a raccoglierci non facciamo ombra, siamo come mantidi dello stesso sesso che sputano i resti nello spazio.
Eppure a volte, nella congiuntura immobile delle gambe, responsabilizziamo un futuro per accogliere il passato  : anni di non dire, del non fare dimenticanza né vuoto, di paesi che immensano cascate, un cerchio imperfetto del reale.

Quanto non sentito, quanto non finito : l’intervento dell’irremediabile è combustione.

Poi arriva il sonno delle cause, il debole chiudersi di una corolla poco prima del risveglio : se non siamo che questo indicibile svenire, origliamo il rumore della parola e della pietra, annusiamo i ricordi e ci fermiamo.

Il tempo è chiuso, la cinta delle rocce ci contiene.

***

Ma nei primi giorni di caldo, le nostre facce si mettono a seccare, ci piantiamo ulivi per non piangere vergogna. Di questo esperimento della fine, del fine che fa uno col finire, resta un buco nel costato, una debole cavità della parola. Nella stanza ha un luogo l’ombelico – e sotto lo sterno, che brilla di postura e di selciato, si aprono contesti matricidi :  un occhio dentro l’occhio che non cade, sospeso al terrore minaccioso, un incubo pensato nel mattino.

Urla : lo spazio del silenzio. Preme : un luogo di materia, un sasso fosforoso come il niente.

Quando arriva il sonno districhiamo gli arti : braccia a braccia con il vuoto accade il germinare : di quanta indegnità circondo, di quanto non valere è il mio stupore? Resto accovacciata sul bordo della vita, scardino una mensola di libri, m’intossico di Indegno.

I giochi dei bambini sono nudi, la testa si fa fossa e si pronuncia.

***

Nelle ore più fredde ci asciughiamo il viso, il pianto forestale di una cavità terrestre. La mia paura è la nostra paura, cieca come un cane disperato dalla luce, un comodo abbassarsi e ritornare, un fuoco che scolpisce la mia parte, che porta in seno una miseria : il resto di uno scarto di frattaglie.
La cura è cominciare l’inatteso.

Ma : madre di costola e di fiume, dove si arresta il termine comincia il tuo lamento : un falso brulicare della mente. L’angoscia è questo cadere dal basso, le pupille dilatate, il non stormire. Muovi un passo, fraseggia i miei conati.

***

Poi ci sediamo. Mescoliamo le parole per vendetta [umida figura dell’udire]. Se non siamo sguardo, se non siamo ombra, se l’ombra ricade come oggetto, se il gettito di cosa non annuncia : pietrifica.
A tratti separiamo, dividiamo il fogliame dalla morte, da questo incunerasi del tentare. L’esistere è già caduto, un pallido imitare l’esistenza, un gatto imbalsamato per il lutto. Di quanto mondo è un mondo? , di quanto non finisce il non finire?
I torturati hanno addosso un Assoluto, vestono i vestiti della nebbia, si chinano sul bordo delle cose.
Se il vero è il già parlato, di cosa è materia il non vissuto?

***

Sulla scena del mondo piangono le donne, detriti derisi dall’umore – e io mi affaccio, striscio come un verme sugli oggetti, mi cibo della terra, il particolato sottile in sospensione. Lui scrive : intestini del suolo.

***

Dico – dici che sia un peccato
Perdere questa casa, quantificare
la perdita, durare.
Dici che sia
Quando non è dire ma adornare
Di piccoli gesti i giudizi, i falsi giochi
Le giunture.
Dico – dici che sia peccato
Piovere sulle cose
Quando è un come, il derivato, la deriva
Dici che sia, di gesti ingiusti, vittima.
Dici – Dico che sia vita.

 

 

Tolleranti a tutto. Preparati a niente.

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chimiary brilli

di Alessandro Trevisani*

Ci vuole rabbia, ferocia, determinazione e probabilmente anche premeditazione. Ci vuole parecchio di tutto ciò per uccidere un uomo con le proprie mani. Pare che il colpo letale, a Emmanuel Chidi Namdi, 36 anni, sia stato dato con un palo della segnaletica stradale. Una botta alla nuca che gli avrebbe spappolato il cervelletto, riducendolo in coma irreversibile, nella serata di martedì. Fino alla morte, avvenuta ieri sera. Piange la compagna Chimiary, 24 anni, che nella colluttazione coi due “ultras” della Fermana le aveva prese anche lei. Piange l’anima di tutto il Paese, almeno quello che non si lascia abbrutire da sottilizzazioni e crudeltà che fanno gelare il sangue – per averne un saggio leggete i commenti a questo articolo del Giornale.

La storia di Emmanuel e Chimiary, poi, era già agghiacciante prima del fatto: avevano perso i genitori e una figlia di 2 anni in un attentato di Boko Haram a una chiesa, in Nigeria. Lei ha perso un altro figlio durante la traversata nel Mediterraneo, per raggiungere quell’Italia dove il marito ha trovato la morte. E mentre c’è un indagato – un fermano 38enne, tale Amedeo Mancini, stando a CM – la sola cosa certa è che è successo tutto qui da noi, nelle Marche, in un humus di razzismo e provincialismo nutrito a Facebook e Quinta colonna, dove un distinguo benaltrista (“E a casa loro, figurati, come fanno?”)  è la premessa di un sillogismo pratico che autorizza a tutto. E finisce con le botte che uccidono, senza che nessuno si accorga, prima, che c’è qualcosa che non va, in curva, a scuola, in palestra. Che c’è gente fuori controllo che si regola “per contro proprio”.

Intanto, però, diamo la parola a Don Vinicio Albanesi, presidente della Comunità di Capodarco, che da 8 mesi ospitava Emmanuel e quella che di fatto, pur non essendo sposati, era sua moglie. Prendiamo qualche frase da questa intervista telefonica a Radio Capital, pubblicata online da La Repubblica.

Sull’ambiente in cui si innesca l’episodio: “C’è un’arroganza gratuita nei confronti degli stranieri. Un mondo ristretto, ma violento, di una violenza gratuita”. 

Sugli autori del fatto: “Personaggi che si divertono a diventare coloro che salvano la patria, se la prendono coi preti che aiutano gli stranieri o fanno opera di accoglienza, approfittando della tolleranza che la gente ha. Teste calde che fanno una specie di circolo, coinvolgono i giovani…”.

Sulle Marche e il fermano: “Non è mai stata una terra di rifiuto e di razzismo. Chi sta al mare è sempre tollerante, ma questo fa da sostrato a questi picchi di arroganza che la passano liscia. Questa è gente conosciuta dalla polizia, condannata più volte. C’è una specie di sottovalutazione del fenomeno”.

Don Vinicio dice pure che gli autori del fatto sono del “giro delle bombe davanti alle chiese“. Noi ne avevamo scritto sulla nostra pagina Facebook: i luoghi di apostolato di Don Vinicio, da gennaio in qua, sono stati colpiti da quattro ordigni. Tre esplosi senza far vittime, davanti a tre chiese: Duomo, San Tommaso, San Marco alle Paludi, quella dove fa messa Don Vinicio. E un quarto inesploso, ma trovato sotto il portone della chiesa di San Gabriele dell’Addolorata a Campiglione di Fermo.

Partiamo da qui. Le bombe per Don Vinicio. Prete scomodo, criticato, prete dell’accoglienza. Prete che toglie le prostitute dalla strada, a Lido San Tommaso. Che organizza un’agenzia, Redattore Sociale, dedicata a emarginazione, handicap e integrazione, che ha fatto scuola nel mondo del giornalismo. Un prete che ricovera 124 profughi, tra cui 19 nigeriani, al seminario arcivescovile di Fermo (NB Emmanuel aspettava da almeno 7 mesi la risposta alla sua domanda di asilo – e fuggiva dagli islamisti tagliagole di Boko Haram, mica dalla Brexit, ne vogliamo parlare?). Ad ogni modo le bombe dirette a intimidire Don Vinicio avevano “conquistato” i titoli di apertura del Carlino, del Corriere Adriatico, dei nostri giornali. Ma questo sarebbe ovvio. E soprattutto non basta. Erano quattro bombe. QUATTRO. Sulle nostre chiese. Quanti, nelle Marche e fuori, conoscono questi fatti? Chi li ha messi a tema? Chi ci ha fatto un’inchiesta? 

Ma andiamo avanti. Noi Don Vinicio l’avevamo conosciuto due settimane fa, partecipando a un’affollata e bellissima serata de L’altro festival, alla terrazza di Capodarco. Si tratta di una kermesse di cinema condotta ogni anno dalla iena Andrea Pellizzari. Per farsi un’idea solo quest’anno c’erano ospiti Jasmine Trinca, la iena Pif, i Marlene Kuntz, in un pout pourri di lungometraggi, cortometraggi, degustazioni gratuite. Quella sera c’era Luca Marinelli, lo Zingaro di Lo chiamavano Jeeg Robot, che in mezzo a 400 persone si è rivisto un altro suo bellissimo film, Non essere cattivo, per poi concedersi a una cinquantina di entusiasti “selfisti”.

Con Don Vinicio, invece, avevamo scambiato due parole a fine serata. “Io la tengo d’occhio, Don Vinicio, per la prossima intervista che faccio”, fu il nostro approccio, “a proposito, le indagini?”. E lui: “Mah, i carabinieri di qui non hanno la logistica, non hanno i mezzi. Non ce la fanno”. Poi Albanesi aveva imboccato l’ingresso della Comunità e noi l’avevamo congedato con una frase amara: “Bene. Anzi, male”. Una chiacchieretta rachitica, che dice molto del nostro essere marchigiani, tolleranti, morbidi, cinici, e perciò, volendo, inclini ad ingoiare di tutto.

Proprio così. Stavamo parlando di bombe, e abbiamo fatto cadere il discorso. Come se un’intervista con Don Vinicio, per essere fatta, debba aspettare la prossima bomba – cosa che però è parte del giornalismo, che batte il ferro caldo, non ragiona a freddo, né fa dibattito su una bomba di 2 mesi fa, 2 settimane, anche 2 giorni fa, ma scherzi?, e infatti un settimanale aveva già declinato una nostra proposta d’intervista, a maggio. Non solo, Marchebbello su quelle bombe aveva preparato un post, Bomba o non bomba, che faceva un mazzo solo con l’ordigno inesploso trovato davanti al Tribunale di Ancona il 28 aprile scorso. Un pezzo che giace da due mesi nelle nostre “bozze”.

Eh già. Perché noi di Marchebbello siamo marchigiani pure noi, cosa credete. Mica stiamo lì col taccuino aperto e la videocamera carica 24h. Macché. Anzi. Sentiamo il terremoto all’alba nel letto, al largo di Numana, e ci giriamo dall’altra parte. Picchiano una ragazza incinta mandata a prostituire in pineta, a Porto Recanati, e lo lasciamo scrivere agli altri. L’Hotel House, 3mila abitanti, quasi 4 d’estate, è senz’acqua potabile da 7 mesi, e lo diciamo “di sbiffo” in un post di campagna elettorale. Perché ci vuole una bella dose di paciosa, criminogena, autolesionistica tolleranza, per dirsi marchigiani, oggi. Si indigna poco, il marchigiano, fa l’uomo di mondo. C’è puzza di riciclaggio intorno ai soldi dell’operazione “turistica”? “Evabbeh, chissà come li faranno gli alberghi, al giorno d’oggi! Eddaje!”, ti risponde un compaesano. “Oh, sarà pure la mafia, nomme frega: se fanne el resort io vojo sapè, venno più pizze?“, ci chiede un altro baldo conterraneo, due anni fa. E via languendo, tollerando. Uniformandosi.

Quindi ha fatto centro Don Vinicio, parlando alla radio. La nostra “tolleranza” non è comprensione. Ma il “sostrato”, lo sfondo dove tutto sta bene, tutto si incastra e convive: picchi di talento, generosità, inventiva, coraggio sportivo, ma anche squallore, violenza, ferocia, intimidazione. Tamberi, Di Francisca, Vale Rossi. Delitto Sarchiè, Banca Marche, strage di Sambucheto. Il marchigiano vede ma non contempla, sbircia ma non giudica, valuta, ma non apprezza, né condanna. “Strozza” tutto con la Passerina, con la crema fritta, con la Vernaccia.

E non si lascia colpire, il marchigiano, sfuggendo così alla teoria dello “choc”, enunciata da Walter Benjamin 100 anni fa, e diventata da tempo il principio regolatore della nostra società: per l’uomo moderno ogni esperienza è un piccolo knock out, un urto senza il quale non ci accorgeremmo di nulla (da cui la cultura della discoteca, la società dello spettacolo, il culto del corpo e dell’immagine). Ma il marchigiano “medio” – similmente a tanti italiani, per carità – è già oltre: non va mai KO, non si impressiona, metabolizza senza crescere, diventa “grande” senza fare imprinting, quindi senza prepararsi. Ha il pentagramma “alto”. Mette tutto tra le righe. Perdona. Anzi, dimentica. Anzi, fa finta de gné, fin dall’inizio. Gli occhi a mezz’asta, il fare scocciato, non si compromette, non si manifesta, non si espone. Non critica, si adatta. Non vive, sopravvive. Si comporta ammodo. E mal sopporta chi diverge dall’andazzo generale, anzi lo bacchetta, lo avverte, lo biasima a forza di co’ te frega?

Così stamattina verrà Angelino Alfano a Fermo. E si farà un giro “riverginante” tra i profughi, per aggiustarsi l’immagine stropicciata dal caso delle “nomine” e farsi bello coi giornalisti “de sinistra” e i partner di governo. E con Alfano ci rivergineremo anche noi: gli indifferenti, i malavoglia, i lassa ‘ndà. Ci sarà un bel po’ di “cinema”, altro che Marinelli, e i giornali confezioneranno qualche reportage su “Fermo violenta”, sulle frange del tifo impazzito. Qualcuno si offenderà, obietterà che “non siamo così, è un’immagine distorta”. E poi via come prima. Duri di testa, come gli scogli. Morbidi di atteggiamenti, come il ciauscolo. Fino al prossimo Emmanuel.

 

 

*L’articolo di Alessandro Trevisani è apparso su Marchebbello https://frontedelportoblog.wordpress.com/
TOLLERANTI A TUTTO, PREPARATI A NIENTE. PRATICAMENTE MARCHIGIANI
(7 luglio 2016)

La foto di Chimiary è di Ennio Brilli.

 

Extraterrestrial activity #3: Oscurità

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solar-darkness-8 copertina di reflector 2012 rivista di astrofotografia

Lord Byron*

Ebbi un sogno, che non fu per nulla un sogno

Diritto d’asilo: cosa stiamo aspettando ?

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il 18 ottobre 2013 pubblicavamo qui su Nazione Indiana un post, firmato da tutta la redazione, intitolato Diritto d’asilo: una proposta politica. Al quale rispondeva dopo sei giorni il diplomatico Domenico Fornara, spiegando in qualche modo cosa può fare la diplomazia internazionale e cosa non può.

Adesso è sotto gli occhi di tutti quello che accade: centinaia e centinaia di morti, e morte, in Mediterraneo, il “Nostro mare”. Noi ci chiediamo ogni giorno che passa: cosa stiamo ancora aspettando? Cosa aspettiamo per superare le ragioni dell’ufficialità diplomatica e ascoltare quelle di una ragione più alta, e in ogni caso, da ogni punto di vista, migliore?
È stata riferita in questi giorni la notizia, ancora non ufficialmente confermata, che i cosiddetti scafisti ammazzano chi non può pagare e vendono i suoi organi al mercato nero relativo.
Che cosa aspettiamo ad organizzare un trasporto legale, sicuro e gratuito per chi si affolla sulle coste nordafricane, con le nostre navi, visto che l’Europa sembra sempre più in altre faccende affaccendata; le nostre navi che, comunque e sacrosantamente, sono tutto il giorno in mare a recuperare corpi vivi e corpi morti, tutti i giorni e tutte le notti a rispondere alla disperazione e alla sofferenza. Noi crediamo che spenderemmo anche di meno ad istituire un simile servizio legale ed efficiente, metteremmo fuori gioco i sempre più ignobili scafisti (invece di arrestarli in Italia e poi subito rilasciarli che vadano a continuare il loro sporco lavoro), daremmo la possibilità a esseri umani, che fuggono dalla guerra e dagli orrori, di arrivare da noi con la certezza di non lasciare la pelle in mare. Cosa stiamo aspettando? Quanti morti e quante morte, uomini, donne e bambini dobbiamo ancora sacrificare sull’altare della ragione diplomatica?

Da una lingua caraibica: due poesie di Raffaele BB Lazzara

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di Raffaele BB Lazzara

( Nelle scorse settimane è mancato improvvisamente nella sua casa di Cormons Raffaele BB Lazzara, poeta in friulano ma anche in italiano alla ricerca di una lingua caraibica secondo le sue parole, membro del collettivo poetico dei Trastolons, militante anarchico. Ricordo qui il suo lavoro poetico con due sue poesie, g.m.)

 

Mattutino ( Collio friulano al mattino)

 Come l’uccello del mattino

che canta nella nebbia l’oro in bocca

così canta il bambino che suona i suoi tamburi

trabocca di sangue e vino la sua bocca margherita

e il suono risveglia le colline, alza le nubi, sa di vita

cenciando duri si rallegrano i questuanti neri

fra la meraviglia del destino e la chiglia della nave di rubino

che riporta alla tua porta l’escluso e poi l’imbocca

di parole ragnatele in una lingua che elemosina il ripudio

ed il cammino senza scorta d’ogni cuore buono

senza patria senza porta senza graffi di parole a un cuore stanco

ed è a matita che spunto questo sudore clandestino

‘ché dai colli discendono le fate

per fare dei prati lente rugiade di gemme e di zaffiro

nell’aria azzurra che respiro

e questo andare

in faccia al tondo mondo di bambole e bastardi

che “succhiami le croste fra i capelli radi”

che “svelami le tue caviglie” sempre tardi

e il ballo incombe sulle luminarie

fra i posacenere, Bacco, tabacco e Venere

piccola ala di piccolo uccelletto

apri la tenda, scoperchiami il tetto

e fra i diamanti nell’erba marcia e calda

acida e rara

spacca la tazza e ammazza la talpa.

 

Cormons 2011

 

Soredut ( Pachamama te veo tan triste)

 

Soredut

jo ‘o cròt

ch’a sedin sclets

i fruts ch’a nasin cole y crac

le bisebove

il farc

i vecjus mats e ju scauets

sclaudâts, scuincjâts,scuardâts

 

 

e cheste int scalembre

cjale le lûs dal ceil

tanche una bausie no

e podares fâ mai

 

tequile y tocai

pal tananai dal maj

pai stuarts e i sants

pai canai

in zouc

in dance dilunc dal fosai

 

sclets i fradis dal Cercli

dal blancunin, dal gneur

dal crot sclitsât

par l’asfalt cu l polear crevât

e le bighe sgonfle

lu zarviel pintât di zâl

tanche il flour dal violâr.

 

Camino al Tagliamento 2001

 

Soprattutto ( traduzione italiana dell’autore)

 

Soprattutto

credo

che siano veri

i bambini che si fanno di colla o di crack

Il tornado

la talpa

i vecchi matti

gli schiodati gli sconditi gli scordati

 

e questa gente storta

guarda la luce del giorno

come una bugia

non potrà mai

 

tequila e tocaj

per i casini del maggio

per gli storti e i santi

per i bimbi

in gioco in danza

lungo i fossi

 

soprattutto credo che

siano veri i fratelli del cerchio

del bianconiglio della lepre

della rana spiaccicata

lungo l’asfalto con il pollice tagliato

e il membro duro

il cervello pitturato di giallo

come il fiore del violâr

 

Nota:  violar è la violacciocca

Omaggio a Horcynus Orca

5

di Davide Orecchio

horcynus

C’era un uomo coi capelli rossi, che non aveva né occhi né orecchie. Non aveva neppure i capelli, quindi dicevano che aveva i capelli rossi tanto per dire. Non poteva parlare, perché non aveva la bocca. Non aveva neanche il naso. Non aveva né braccia né gambe. Non aveva neanche la pancia, non aveva la schiena, non aveva la spina dorsale, non aveva le interiora. Non cera nulla! Insomma, non sappiamo nemmeno di chi stiamo parlando. Meglio non parlare di lui mai più”. – Daniil Charms

 

Molti anni fa. Pochi anni fa. Conoscevo uno scrittore italiano.

Se non fosse stato italiano, lo scrittore che io conoscevo, potrei dire della sua altezza media, dei suoi capelli soffici e neri, della sua lieve miopia. E che portava gli occhiali di John Lennon: rotondi, dorati, sottili. E che indossava felpe di cotone e pantaloni larghi. E giacche di velluto. E che mangiava kebab. E che non era interessato alle cose attuali della vita, alla cronaca, ai fatti e ai misfatti. E che amava i libri. E che cercava la vita nei libri.

Molti anni fa. Pochi anni fa. Conoscevo quindi anche un lettore. E se fosse stato solo un lettore, colui che io conoscevo, potrei dire della sua grandezza. Aristocratica. Perché molti anni fa, pochi anni fa, oggi: ciascun lettore che è solo un lettore, che non vuol essere altro, ha una grandezza. Aristocratica. Una libertà. Una completezza. Ed è raro. Ed è pregiato.

Ma lui, che io conoscevo, non era solo un lettore, era anche uno scrittore, era solo uno scrittore italiano e dunque dovrò dire che non era né alto né basso né di altezza media. Che non aveva capelli. Che non aveva occhi né occhiali. Che era nudo. Che non vestiva alcun abito. Che non mangiava. Che non beveva. Che era invisibile. Che nessuno aspettava la sua scrittura: non per un giorno, non per un mese, non per vent’anni. Che a nessuno interessavano le sue correzioni, i suoi progressi, le prime stesure, le seconde stesure. Che nessun editore gli versava anticipi e attendeva consegne da lui.

Non per un giorno, non per un mese, non per vent’anni.

Molti anni fa, pochi anni fa, oggi, nel nostro tempo questo scrittore italiano non aveva le mani per digitare sui tasti e non arrivava all’altezza del tavolo e, privo di un corpo, non poteva sedere, accendere, guardare, correggere, moltiplicare le pagine, mettere al mondo capitoli, diventare nonno di paragrafi, zio delle digressioni, bisnonno di indici e ringraziamenti.

Non per un giorno, non per un mese, non per vent’anni.

Ma c’era la casa. Lo scrittore per sua fortuna aveva una casa. Piena di libri, questa era davvero la casa ideale per un lettore, e per lo scrittore. I libri erano migliaia ed erano creature che si offrivano come in un parco di giochi (sali sulla mia giostra), o come in un quartiere a luci rosse (scegli me, vieni a divertirti). La casa era la madre dei libri, o forse la ruffiana, e li conosceva tutti e nella casa lo scrittore non era invisibile. Nella casa lo scrittore aveva gli occhi, gli occhiali, l’altezza media, le mani per scrivere, le dita per accendere il computer, la forza di mettere al mondo capitoli, diventare nonno di paragrafi, zio delle digressioni, bisnonno di indici e ringraziamenti.

E aveva i libri.

Alcuni li portò lo scrittore. Altri già erano nella casa, i più misteriosi: perché erano vecchi, più vecchi dello scrittore, perché erano nati prima di lui e avevano polvere, odore antico, un colore giallo di fossile, benda di mummia. Lo scrittore, che abitava la casa da sempre, si fidava di lei, la notte si addormentava sereno dentro di lei, non temeva spettri né fantasmi e nessuna imboscata nei corridoi fitti di scaffali e volumi. Ogni tanto prendeva un libro, lo leggeva e qualcosa di lui cambiava. Questa era la scrittura del mondo. E il mondo entrava nello scrittore.

Ma lui cercava una voce. Molti anni fa. Pochi anni fa. Prima ancora che io lo conoscessi. Lo scrittore era stato giovane. E aveva iniziato a cercare una voce. Questa voce, pensava lo scrittore, un giorno verrà fuori e sarà solo mia, inconfondibile, forse roca, forse acuta, ad alcuni piacerà, ad altri farà schifo, ma sarà pur sempre la mia voce e io non sarò più invisibile. Nel frattempo lui esercitava la voce. Perché aveva i libri per esercitarsi.

Lesse Carver e iniziò a scrivere frasi brevi per racconti concisi. Lesse Proust e per imitarlo si perse in un proprio journal intime di periodi incatenati. Erano solo stagioni della sua scrittura. Mentre cercava una voce. Esercitava lo stile. Non sapeva chi fosse. Rubava agli altri lo stile. Si infilava in un ventriloquio di stile. Erano solo stagioni. Molti anni fa. Pochi anni fa. Della sua scrittura. Lo scrittore ne usciva sempre. Lasciava Proust alle spalle. Lasciava Carver alle spalle. E andava avanti.

Finché da uno scaffale, una notte, tirò giù un libro.

E tutto, all’improvviso, cambiò1.

La copertina del libro era una cornice di blu. Il libro era enorme. Il libro contava più di mille pagine. Eppure lui non si scoraggiò, decise di leggerlo, aprì la prima pagina e il sole tramontò quattro volte sulla sua lettura e alla fine del quarto giorno e della quarta notte lo scrittore italiano che io conoscevo, molti anni fa, pochi anni fa, era diventato un marinaio, anzi un nocchiero, e viaggiava nel paese delle Femmine, e solcava i mari dello scill’e cariddi e il sole lo aveva raggiunto

 

«COL SUO FREDDO RIFLESSO DI MORTE. DALLE ISOLE, E OLTRE, DA GIBILTERRA, LA SUA LUCE RASENTE AL MARE APPRODAVA UN’ULTIMA VOLTA A QUELLA RIVA, SENZA PIÙ PESO NÉ FULGORE, E PIGLIAVA A SALIRE, OSCURANDO PER LA SPIAGGIA E LA PLAIA: DIETRO, FRA IMPROVVISE SERPENTINE, BIANCHE E ROSSE, DI FIAMMA, SI FACEVA VIAVIA L’OMBRA, COME SE GLI ULTIMI RAGGI SI CONSUMASSERO DA SOLI IN UN GUIZZO, RIDUCENDOSI IN CENERE E CARBONELLA, CONFUSI AI GRANELLI DI SABBIA».

 

E lui leggeva, viveva, s’inoltrava nel viaggio, arrivò persino a «nuotare un bel pezzo fra tenebre e trasparenze azzurrastre, andando e venendo in giro fra gli scogli sabbiosi (…) in un silenzio senza schiume». Nuotava «il nuotare del pesce che nuota nel verso del pelo marino». Però lo scrittore, che adesso era un lettore, e che abitava una lingua potente, «gira gira, non si ritrovava, qualcosa gli sfuggiva sempre e questo qualcosa gli pareva di averlo sempre alle spalle e gli pareva per questo di inseguire se stesso».

Insomma era pieno di dubbi, ma senza il tempo di coltivarli perché già gli appariva l’orcaferone che intitolava il libro di polvere dalla cornice di blu, e questo «animalone» affiorò proprio tra lo scill’e cariddi che lui andava leggendo, e aveva una «piagona sdilabbrata» il cui fetore raddoppiava nel sole e lui, lo scrittore che io conoscevo, molti anni fa, pochi anni fa, fece il gesto di turarsi il naso mentre la bestia enorme, terribile «andava sfilando» «da mare a mare e nella gran solitudine dello scill’e cariddi, attorno alla sua mole gigantesca, attorno alla sua sagoma tenebrosa e rabbrividente» e «sembrava spirare un alone di spaventevole fatalità, come di essere fantastico e irraggiungibile» e lo scrittore – ormai un lettore – pensò – nella lingua che lo possedeva tutto, con le parole esatte del libro che diventavano anche sue proprie, anzi era lui che apparteneva a quelle parole – di assistere a «un essere dell’altromondo, per il quale vita e morte facevano una cosa sola, e lui aveva, contempo, tutte e due le cose insieme e nessuna delle due», e ascoltò poi «il fischio o sibilo, sgraziatissimo» dell’orcaferone che nel suo «massimo nuoto» gli passava accanto (a lui, allo scrittore che io conoscevo) e sfiatava, spruzzava, pigliava l’acqua «sfacciatamente». E si spaventò di quello che lesse e di quello che vide.

Al quinto giorno interruppe il libro. Si alzò dal letto. Accese il computer. Provò a scrivere ma non trovò più la sua voce. Trovò invece un pupazzo parlante. Il pupazzo parlava la lingua di Horcynus. Il pupazzo era lui. Legava i vocaboli in nuove parole. Lessicava in dialetto. Non faceva che nominare fere e femminote, e pellisquadre e femminotari, naviscuola porpose e uomini insoldatati e vermiditerra. E vedeva solo lo Stretto, e le isole, e l’isola grande, e i delfini feroci, e il più grande dei pesci, e non aveva più nomi se non quelli nominati da Horcynus, e non aveva più verbi se non quelli coniugati da Horcynus. E di nuovo si spaventò. Anche ai pupazzi capita di spaventarsi. Avrebbe potuto fare l’inchino come un gatto di legno. E, come un orsetto di pezza, avrebbe potuto, fino all’esaurirsi delle sue batterie, cantilenare il verdone che, «si sa, è lui il vero pellesquadra, lui è lo sguardo di nome e di fatto, lui è l’origine, pelle per squadrare, rasposa come la cartavetrata».

Allora spense il computer. Pupazzo horcynusorcizzato. Scrittore di una scrittura d’altri. Immaginatore di fantasie in prestito. Creatore di creature già create. Pensò: faccio ancora in tempo a salvarmi? E già correva al libro dalla cornice blu. E lo prendeva. E apriva un ripostiglio di cappotti e coperte. E ci seppelliva il libro di Horcynus. E chiudeva il ripostiglio. E chiudeva la stanza dov’era il ripostiglio. E andava lontano, nella casa, nel punto più distante dal ripostiglio. E pensava: forse mi sono salvato, adesso riprendo a parlare e vediamo se sono ancora un pupazzo.

Molti anni fa. Pochi anni. Lo scrittore che io conoscevo parlò e gli tornarono in bocca fere e femminote, e pellisquadre e femminotari, naviscuola porpose e uomini insoldatati e vermiditerra.

E gli tornò in bocca l’animalone.

Allora era finito. Era posseduto. Non aveva più la sua voce. Moriva la speranza di trovare una voce.

Moriva la speranza.

Ma da uno scaffale, a quel punto, cadde un libro. Questo volume s’intitolava Una storia di amore e di tenebra, ed era dell’israeliano Amos Oz. Il libro cadendo si aprì su una pagina. Lo scrittore che io conoscevo raccolse il libro e lesse la pagina, dove il padre di Oz (studioso di polvere, navigatore di tomi e biblioteche) raccontava questa storiella: “Se rubi la tua sapienza da un libro solo sei un ladro letterario. Un plagiatore. Ma se rubi a piene mani da cinque libri, non sei più un ladro bensì uno studioso, e se poi ti industri a saccheggiare da ben cinquanta libri, allora assurgi al grado di luminare”.

Adesso ho capito – esclamò lo scrittore rivolgendosi alla casa –, hai fatto cadere questo libro per mostrarmi la cura. Posso guarire da Horcynus solo con un altro libro e poi con un altro e un altro ancora. Centinaia di libri mi guariranno da Horcynus. Questo consiglia il padre di Amos Oz. Ma da dove iniziare? Io sto soffrendo. Cosa mi indichi?

E da un altro scaffale cadde un secondo libro. E lo scrittore che io conoscevo, molti anni fa, pochi anni fa, si precipitò a raccoglierlo e subito lesse e si ritrovò in una squadra che ‘era giunta ai piedi dell’ultimo pendio’ e vide che Johnny sospirava ‘al calvario che esso comportava: era così plasmato di fango lievitante che la superficie ne pulsava tutta. L’argilla bulicante aveva pochissimi, quasi ironici cespi di erba fradicia’. Attorno non c’era mare, non c’erano mostri marini, né fere né animaloni. C’era giusto Johnny con la sua squadra, Johnny che ‘prese ad inerpicarsi sui ginocchi, ancorandosi al fango con la mano libera; s’inerpicò e ricadde. Così gli uomini’, così lo scrittore che io conoscevo, molti anni fa, pochi anni fa, ‘l’angoscia strappando loro bestemmie ed insulti. In una scivolata si perdeva in un lampo quel che era costato minuti di penosa ascesa. Il ricadente precipitava su quello che saliva speranzoso, ed entrambi crollavano al fondo in un abbraccio di disperazione ed ingiurie’.

 

Al fianco dello scrittore che io conoscevo ‘JOHNNY GIACEVA A MEZZA COSTA, ANSANTE E PAZZAMENTE ASSETATO, IN QUELL’ORGIA D’ACQUA; ATTRAVERSO LE MANICHE IL FANGO GLI SI ERA INSINUATO FINO ALLE ASCELLE. SI VOLTÒ A GUARDARE DALLA PARTE DEL NEMICO; FRA UNA FASCIA DI VAPORI VIDE L’AVANGUARDIA FASCISTA A MEZZO CHILOMETRO (…) ALLORA SBATTÉ PIÙ SU LA MITRAGLIATRICE, COME UN TRAGUARDO EMBEDDED NEL FANGO, LA RAGGIUNSE SALENDO SUL VENTRE, LA RISBATTÉ PIÙ SU ED ANCORA LA RAGGIUNSE, FINCHÉ EMERSE, UNA STATUA DI FANGO, SUL CIGLIONE’.

 

Molti anni fa. Pochi anni fa. Conoscevo uno scrittore. Che si rivolse al partigiano Johnny e gli disse: io qui, su questa altura, sono felice al tuo fianco. Adoro la tua lingua di foresti, valli e macchioni. Adoro la tua browning. Il tuo fango. I tuoi altipiani. Partigiano Johnny. Qui ci sono solo fascisti. Uccidiamo fascisti. Questa è vita. Questa è lettura. Forse sono guarito. Guarda laggiù verso il campo nemico: se tutti dormono, possiamo attaccare, e possiamo vincere. Raggiungeremo il campo passando per il lago che l’affianca. Non hai visto quel lago? Non c’è nelle tue pagine? Vieni con me. Il lago esiste. Immergiamoci. Nessuno ci vede. Il nemico dorme. Saranno poche bracciate. L’acqua non è fredda. L’acqua è calma. L’acqua ci è amica.

Ma molti anni fa, pochi anni fa, lo scrittore che io conoscevo si sbagliava su tutto. Si sbagliava sull’acqua. Si sbagliava su Horcynus. Perché nell’acqua di quel lago, mentre il partigiano Johnny spariva, mentre lo scrittore avanzava in un nuoto sottomarino, all’improvviso, ancora una volta, riassommò l’orcaferone, persino nell’acqua dolce, «aggallando come d’abitudine, veniva ormai da dire, simile a un isolotto lavico in ebollizione, che raffreddandosi si mostrava ribellato, qua e là, da macchie di filamenti bianchi, striato d’argentature, di tenebrosi luccichii».

E mentre lo scrittore che io conoscevo lo seguiva in silenzio, attentissimo, «e lui si metteva a sfiatare l’acqua imbarcata, impalmandosi la testa con lo zampillo», molti anni fa, pochi anni fa, lo scrittore, «come non si potesse trattenere», come se gli venisse proprio dal cuore, gridò all’animalone: «anima pia, animona generosa e pia», sono ancora il tuo pupazzo, sono ancora prigioniero di Horcynus.

Molti anni fa. Pochi anni fa. Conoscevo uno scrittore. Che cercava una voce. Che perse la voce. Che si spaventò. Che lasciò il libro di Johnny. Che cadde sul pavimento della propria casa e le disse: non ha funzionato, sono perduto, tutto è perduto. Ma da un nuovo scaffale cadde un terzo libro, e poi ne cadde un quarto. E lo scrittore che io conoscevo, molti anni fa, pochi anni fa, si precipitò a raccoglierli e subito lesse e si ritrovò su un sentiero di nidi di ragno assieme a un bambino di nome Pin, e tutti e due, bambino e scrittore, camminavano << nel gracidare delle rane >> che << nasce da tutta l’ampia gola del cielo >>, e << il mare è una grande spada luccicante nel fondo della notte >>. Camminano assieme << per i campi coltivati a garofani e a calendule >>. Cercano di tenersi alti << sul declivio delle colline, per passare sopra alla zona dei Comandi >>.

Poi scenderanno al fossato. Questi sono i loro luoghi.

 

<< FRA GRANDI SASSI BIANCHI E IL FRUSCIARE CARTACEO DELLE CANNE. IN FONDO ALLE POZZE DORMONO LE ANGUILLE, LUNGHE QUANTO UN BRACCIO UMANO, CHE A TOGLIERE L’ACQUA SI POSSONO ACCHIAPPARE CON LE MANI. (…) ECCO IL BEUDO, ECCO LA SCORCIATOIA CON I NIDI >>.

 

Riconoscono le pietre. Dissotterrano una pistola. Poi, il bambino Pin e lo scrittore che io conoscevo, si addormentano. E al risveglio vedono << i ritagli di cielo tra i rami del bosco, chiari che quasi fa male guardarli. È giorno, un giorno sereno e libero con canti d’uccelli >>.
Sereno. Così si sentiva lo scrittore leggendo. Immerso in una scrittura rasserenante. Perspicua. Ragionevole. Non mostruosa. Rispettosa di lui. Una scrittura che non l’avrebbe mai potuto trasformare in pupazzo. Molti anni fa, pochi anni fa, lo scrittore che io conoscevo pensò che forse stava guarendo da Horcynus e prese l’altro libro e tutto andò sempre meglio intanto che lui viaggiava tra le città invisibili. Per un breve periodo visse a Sofronia, una città sottile che

 

<< SI COMPONE DI DUE MEZZE CITTÀ. IN UNA C’È IL GRANDE OTTOVOLANTE DALLE RIPIDE GOBBE, LA GIOSTRA CON LA RAGGIERA DI CATENE, LA RUOTA DELLE GABBIE GIREVOLI, IL POZZO DELLA MORTE COI MOTOCICLISTI A TESTA IN GIÙ, LA CUPOLA DEL CIRCO COL GRAPPOLO DEI TRAPEZI CHE PENDE IN MEZZO. L’ALTRA MEZZA CITTÀ È DI PIETRA E MARMO E CEMENTO, CON LA BANCA, GLI OPIFICI, I PALAZZI, IL MATTATOIO, LA SCUOLA E TUTTO IL RESTO. UNA DELLE MEZZE CITTÀ È FISSA, L’ALTRA È PROVVISORIA E QUANDO IL TEMPO DELLA SUA SOSTA È FINITO LA SCHIODANO, LA SMONTANO E LA PORTANO VIA, PER TRAPIANTARLA NEI TERRENI VAGHI D’UN’ALTRA MEZZA CITTÀ >>.

 

Proprio in questo intervallo lo scrittore che io conoscevo si stancò di Sofronia e decise di partire per Despina, << città di confine tra due deserti >>, città che si raggiunge in due modi: << per nave o per cammello >>, << e si presenta differente a chi viene da terra e a chi dal mare >>. Lo scrittore che io conoscevo, molti anni fa, pochi anni fa, decise di raggiungerla dal mare e, << nella foschia della costa >>, dal ponte del veliero, già gli sembrava di scorgere la gobba di un cammello, ossia la città di Despina.

Ma si sbagliava. Si sbagliava sull’acqua. Si sbagliava su Horcynus.

Al suo fianco, molti anni fa, pochi anni fa, c’era un marinaio. Viaggiava con lui. Lo scrittore però non s’era accorto di lui. Solo adesso lo vedeva. Studiò il suo profilo, il naso d’aquila, i capelli di corvo, e poi gli chiese: tu sei Calvino? E quello rispose: sono io, mentre tu sei un illuso.

Perché?, domandò lo scrittore che io conoscevo.

Perché non posso aiutarti, rispose Calvino, e tu non puoi fuggire da Horcynus.

Che vuoi dire? Io sono sereno nella tua scrittura. Raggiungeremo Despina. E poi un’altra città. Già si vede la costa.

Non è la costa che vedi, lo corresse Calvino. Quella gobba laggiù, che affiora dal mare, non è la città. Guarda bene. Cos’è che vedi? Non vedi?

Molti anni fa, pochi anni fa, lo scrittore che io conoscevo guardò meglio la gobba che affiorava dal mare. E iniziò a piangere. Senza rimedio. Perché vide che non era la gobba di un cammello, né quella di una città. Invece era il dorso di un animale che «brancolava ancora cieco e sonnoso, oscuro e inavvertito come tutti i cataclismi nelle loro sotterranee origini, quando non se ne ha ancora segno e sono già sotto i nostri piedi. La sua immensa mole» apparve «affusolata» allo scrittore che io conoscevo mentre «saliva preceduta dall’alta pinna dorsale ad ascia, come un sommergibile dal suo periscopio, e salendo, dalle bocchette dello sfiatatoio sprigionava un sibilo come di fuoco che va per acqua, di lava di vulcano che erutta dagli abissi e raffreddandosi, forma un isolotto in superficie. E qui, alla superficie, dall’apertura occhiuta dietro la grande testa incorporata, rigettava acqua soffiando come una tromba marina».

Era di nuovo il pupazzo, lo scrittore che io conoscevo. E la nave affondava. E Calvino annegava.

E l’animalone nuotava «sempre dov’era rema morta, come se lo attirassero acque d’abisso, fredde e ferme, in cui appiccionarsi senza temere sconzo. Era l’Orca, quella che dà morte, mentre lei passa per immortale: lei, la Morte marina, sarebbe a dire la Morte, in una parola».

Dava morte anche a lui, allo scrittore che molti anni fa, pochi anni fa, cercò una voce, e poi cercò scampo, e non lo trovò, e pianse, e nuotò nel suo pianto, e poi si stancò, e annegò nel suo vasto mare di pianto.

Ma, di nuovo nella casa, trovò l’ossigeno che serve per sopravvivere. Adesso sveglio. Rincasato. Risorto. Sconfitto. Horcynusorcizzato. Rimproverò la casa: non mi hai aiutato. Si alzò da terra. Raccolse i libri. Li chiuse. Li ripose negli scaffali. Molti anni fa, pochi anni fa, lo scrittore che io conoscevo liberò il libro di Horcynus dal ripostiglio, poi disse alla casa: è evidente, il padre di Amos Oz il libro di Horcynus non lo conosceva. Il suo consiglio dunque non vale. Cento libri non nascondono il libro dell’orca. Io invece, che lo conosco, mi sottometto al libro dell’orca. Non fuggo più.

Che sia fatta la sua volontà.

 

***

 

Le citazioni
Tra « … »: Stefano D’Arrigo, Horcynus Orca.
Tra “ … ”: Amos Oz, Una storia di amore e di tenebra.
Tra ‘ … ’: Beppe Fenoglio, Il partigiano Johnny.
Tra << … >>: Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Le città invisibili.

Nota
1 «Nei racconti si trova spesso questo “all’improvviso”. Gli autori hanno ragione: la vita è così piena di cose inaspettate». Anton Čechov, La morte dell’impiegato.

Questo testo è un intervento tenuto al convegno «Horcynus Orca. Il quarantennale», 9-10 ottobre 2015, Arcinazzo romano -Trevi nel Lazio. Successivamente è stato pubblicato su «Lo Straniero», Aprile 2016 – N. 190.

i poeti appartati: Christian Tito

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Copia di copertina tito

Ai nuovi nati

di

Christian Tito

Incisione

Alejandro Fernandez Centeno

ed. FIORI DI TORCHIO

Amici del Libro d’Artista Seregn de la Memoria Circolo Culturale

prefazione di

Corrado Bagnoli

 

Altre notizie su Nuvola

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di Damiano Sinfonico

[inediti, aforismi e dintorni]

Una volta Nuvola andò a Cuneo a cercare dei poeti. Gli dissero che non ce n’erano, si erano trasferiti a Milano. Però in provincia ne era rimasto uno, un mezzo poeta, perché scriveva prose. Allora andò in cerca di lui e lo trovò. Aveva la testa rasata e con accento piemontese gli disse: “Io scrivo prose brevi”. E Nuvola gli disse: “Io ho bisogno di alcuni versi, per favore, scrivine qualcuno solo per me”. Allora il mezzo poeta si chiuse tutta la notte nel suo studio e quando uscì brandiva un foglio con una prosa breve. E Nuvola gli chiese: “E i miei versi?”. “Ci sono, ma non si vedono, come le stelle durante il giorno”. 

les nouveaux réalistes: Francesco Delle Donne

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La consistenza del cane

di

Francesco Delle Donne

Da quando è successo tutto, la casa è diventata un camposanto. Mamma non l’ho mai vista così triste. Vincenzo gira per casa che sembra un leone in una gabbia, e dice che così, a vivere come bestie alla catena, mica si può andare avanti. Senza Ettore e Marilena, poi, ci sta troppo silenzio e se faccio una domanda a papà, lui mi risponde col solito mugugno.

Il silenzio è una cosa strana, perché non lo puoi vedere e non lo puoi toccare, senti solo che si appiccica addosso e sulle cose, come una domanda senza risposta. E poi si sa, a noi napoletani troppo silenzio ci indispone perché ci fa pensare. Se proprio dobbiamo scegliere, preferiamo l’ammuina.

All’inizio, quando ho portato Ettore a casa, a mamma per poco non veniva una crisi. “Ci mancava solo il cane, adesso, non basta lo zoo che teniamo!”
Poi col tempo si è affezionata, pure se Marilena è allergica ai peli.
Anche Ettore, da quando ha capito che a cucinare ci pensa mamma, è diventato un cane devoto e la segue passo passo come se fosse la Madonna dell’Arco. Mamma si commuove e lo ingozza di polpette e frittatine. Infatti, anche se Ettore ha solo quattro anni, sembra già vecchio per l’affanno che tiene. Il signor Michele – un veterinario zoppo che viene a domicilio e si fa pagare con le teglie di pasta al forno – dice sempre “La diagnosi è che… ‘stu cane magna cumme ‘nu puorco” e “Se continuate così, signora, questo vi schiatta sotto gli occhi.”

Ettore è il mio miglior amico perché se qualcosa va storto, e a casa cominciano a strillare, lui si avvicina e mi fissa con gli occhi umidi. Sembra quasi che dica “Chi te muorto, lo so che questa vita è dura, a me mi avete pure tagliato i testicoli. Ma io scodinzolo sempre e vado avanti”. In quei momenti penso che quando morirà io tornerò solo, e quasi mi dispiace di averlo preso quel giorno al canile. Poi dicono che i cani quando muoiono si allontanano e vanno a cercarsi un posto per non essere visti. Ma Ettore non so come si può arrangiare nei quaranta metri quadri di casa nostra. Mio fratello Vincenzo dice che sicuramente si va a mettere sotto al letto mio, perché è l’unico posto quieto.

Mamma ha preso questa abitudine: se le vengono i nervi e le gocce non bastano, si prende il cane in braccio e lo strapazza tutto. A volte lo chiama sarchiapone mio e gli dice anche le cose nell’orecchio. Nemmeno a me che sono il figlio mi dice più le cose nell’orecchio.

“Ormai sei grande, e poi ti ho detto che è scortesia”
“Allora Ettore?”
“Che c’entra! Ettore è cane, non conosce l’etichetta”.
Poi però anche io, ultimamente, se tengo i pensieri, mi stringo forte a Ettore. Affondo le dita nella sua pelliccia morbida, fino a quando non arriva un calore fortissimo e subito mi passano le formiche nelle mani di quando sono arrabbiato. Se poi accosto la testa, sento pure il battito profondo del suo cuore. Allora tutto diventa piccolo e lontano, come dietro a una plastica, le mani di zio Alfredo che frugano tra le cosce di mamma, gli occhi chiusi di papà girato di lato a bersi la birra, gli strilli di Marilena, le bestemmie in tre lingue di mamma…

Poi mia sorella, dopo la seconda crisi anafilattica, è guarita dall’allergia a Ettore. Lei però, quando aveva sei mesi, le è venuta una febbre altissima ed è rimasta ritardata. Così quando l’abbiamo portata al Cardarelli, il dottore era stranito. Ma io l’ho subito informato, “Non vi preoccupate, capo, Marilena è handicappata”.

“Menomale” ha risposto “mi pensavo che era stato il pelo del cane a scemunirla!” Siamo scoppiati tutti a ridere, pure mamma che ha dato un pacchero forte in testa a Marilena per farla smettere di piangere. “Non rompere il cazzo, piccerè, che già stai inguaiata!”

Il dottore si è complimentato con mamma dicendole che è importante saper gestire con ironia la malattia della figlia. Le ha fatto pure l’occhiolino, mentre si allungava per darle la ricetta, e allora mamma ha stretto le labbra, piegando il collo di lato come nella foto sul comodino, quando era giovane e senza i segni sulla faccia.

Ettore è un bravo cane, ma tiene ancora questo vizio di sgarrare sul pavimento con la pipì, se sta nervoso o qualcosa lo emoziona. Prima di queste feste, zio Alfredo stava assai di genio per qualche motivo suo, e allora si è preso una fissa: si doveva vestire da Babbo Natale e presentarsi a mezzanotte del ventiquattro vicino all’albero di Ikea con tanto di barba finta e sacco dei regali.
Io ormai sono grande, e altri bambini in casa non ce ne stanno, ma zio Alfredo stava così preso dal suo piano che quasi subito abbiamo smesso di dirgli “Non ti preoccupare, zio. Grazie ma basta il pensiero”.

Zio Alfredo è uno che quando gli prende la fissa per qualcosa, smette di esistere. Anzi, esiste solo per quello, e tutti gli ostacoli che trova tra lui e la cosa che ha in testa li abbatte con una furia che non ho mai visto in faccia a nessuno. Si era pure convinto che il costume doveva cucirselo da solo, perché aveva cercato e cercato, ma quei mariuoli dei sarti non sapevano fare il loro mestiere e “Quanto è vero che mi chiamo Alfredo Palmisano, non mi metterò mai il costume made in china della Coin”. E allora, visto che non c’era soluzione, perché da mamma stava tutta la roba per cucire, zio Alfredo prima si è messo in aspettativa dal lavoro e poi si è trasferito praticamente a casa nostra, per fare tutte le prove e le misure indispensabili a finire il suo capolavoro.

Io ho subito capito che dovevo tenere Ettore lontano dalla stanza di mamma e papà, dove zio Alfredo si era accampato assieme al manichino di polistirolo e ai rotoloni di tessuto rosso.
Come tutti i cagnolini, a Ettore piace molto pisciare su cose nuove. E il gusto aumenta se sono cose tanto colorate e tengono una forma strana. Allora per evitare tragedie e salvare il Natale, ho fatto un segno bianco con il gesso per terra davanti alla mia porta e sono stato un giorno intero accovacciato di fronte a Ettore, per ficcargli in testa che non doveva superare la striscia.

Visto che non volevo sculacciarlo, ho trovato il modo di punirlo tirandogli piano la punta delle orecchie. Ogni volta che sgarrava, gli dicevo “No Ettore, cattivo!”. E tiratina di orecchie. Ma, alla terza tiratina, Ettore si è capovolto per chiedermi i grattini sulla pancia, e io ho capito che per lui quella non era una punizione, ma solo un gioco molto divertente.

Infatti è stato faticosissimo, e alla fine della giornata, quando è scattata la serratura della porta e papà è rientrato col silenzio, io mi tenevo Ettore tra le braccia e lo scongiuravo nell’orecchio “Hai capito? La striscia è importante. Io lo so che per te è strano, ma fidati di me: non superarla… MAI”.

Mentre papà passava come un’ombra tra noi, Ettore si è avviato svelto verso la striscia, poi si è fermato a due centimetri, si è voltato a guardarmi e zampettando è tornato da me. Ho tirato un sospiro di sollievo e me lo sono strapazzato tutto, dicendogli “Bravo Ettore, sei proprio un cane bravo”. Lui ha scodinzolato e per premio gli ho lanciato tre biscottini a forma di osso che ha ingoiato come fossero aspirine, senza nemmeno masticare. Mentre Ettore sbavava dalla felicità di avermi accontentato, io tra me e me pensavo: manca ancora una settimana a Natale, speriamo bene.

Il giorno dopo ho portato Ettore dal signor Peppino, al secondo piano. A casa di Peppino, Ettore si arricrea perché c’è un odore di piscio così forte che il cane si pensa di essere arrivato in paradiso. Io, invece, cerco di andarmene subito perché l’odore mi fa vomitare. Questa volta però Peppino era curioso di sapere perché si doveva tenere il cane. Allora gli ho spiegato: “Vincenzo si porta a casa la nuova fidanzata e non vuole Ettore tra i piedi. Dice che questa qui tiene molta classe e quel maiale del tuo cane lo sgozzo se le salta addosso come ha fatto con l’ultima! Che sarebbe Mena, quella chiatta che odora di salame”

“Filomena Mangiarulo, la nipote di Ciccio il pescivendolo?”
“No, un’altra. E poi Vincenzo ha detto a mamma: ‘Sta volta mi sono sistemato, a ma’! Questa Sonia sta sfondata di soldi, tiene pure la proprietà. A me che cazzo me ne fotte. Mi sveglio a mezzogiorno che quella sta già a faticare, giro per casa in mutande, mi faccio i cazzi miei, gioco con la playstation e mò per Natale mi compro pure la vestaglia di seta rossa come quella dei Conti.
Ma almeno è una brava ragazza? Ha detto mamma. Vincenzo allora è scoppiato a ridere così forte che si vedevano i pezzi di pomodoro tra i denti: Come no, una santa! Uguale a questo mamoziello qui. E mi ha sollevato peso peso per l’orecchio.”
“È vero!” ha detto Peppino stupito “guarda, pare che tieni una zampogna!”
“Mamma gli ha urlato in faccia, allora lui mi ha lasciato l’orecchio, e io sono salito sopra a portarvi il cane”
“Aspetta, vado a prenderti il ghiaccio”
“No no, me ne torno. Mi raccomando Ettore”. E sono scappato via prima di svenire per la puzza.

Sembra strano, ma dopo sono passati sette giorni senza incidenti. Anzi, zio Alfredo stava in stato di grazia, era molto gentile con mamma e cercava di ripagare l’ospitalità portando quasi sempre le paste mignon a pranzo. Parlava poco della sua opera, ma da come teneva spiritati gli occhi si capiva che il suo pensiero era: Non voglio dirvi niente, perché a parole non si può spiegare la magnificenza che sta venendo fuori. Ma a Natale vi sbalordirò, e tutti sapranno chi è Alfredo Palmisano, perché il babbo natale mio rimarrà nella storia mondiale dei babbi natali e il mio nome si tramanderà tra le renne di tutto l’emisfero australe.

Mamma in quei giorni stava troppo contenta e pure un po’ sorpresa che niente di brutto era ancora successo, visto che di mezzo ci stava zio Alfredo. Io lo so, lei si diceva: sarà la volta buona che pure Alfredino è cambiato, si è fatto più tranquillo, maturo. Perché mamma da fuori sembra più vecchia della sua età per via di quei segni che le sofferenze le hanno fatto uscire sulla fronte e sul collo, ma certe volte, dentro, pare una bambina piccola che ancora crede nelle favole.

I giorni passavano, e ogni pomeriggio verso le cinque, appena la luce del sole calava un poco nascondendosi dietro alla collina dei Camaldoli, zio Alfredo smetteva di cucire e si faceva mezz’ora di pennica sulla poltrona sfondata di nonna. Nella casa tornava il silenzio buono, che riposa le orecchie, perché la cucitrice di mamma è vecchia e fa il rumore di un treno dentro una galleria.

Dopo nemmeno un’ora rientrava papà e senza salutare nessuno andava spedito al frigorifero per ritrovare la sua amica birra. A volte nemmeno si accorgeva del fratello minore lì vicino con addosso la sua vestaglia e ai piedi le sue pantofole che sorseggiava caffè freddo dal bicchierino di plastica.

In quei giorni Ettore stava sempre insieme a me e mamma in cucina, con Marilena seduta sulla sedia vicino al balcone e la radio accesa su Napoli Sound.
Quando le cose vanno bene, non ci pensi mai. Poi qualcosa inizia a scricchiolare, e allora capisci, quella era la felicità. Mamma che accompagna le canzoni della radio con un lamento allegro e ci mette le parole sue inventate durante i ritornelli, Ettore accucciato tra i miei piedi, mentre cerco di fare i compiti per il giorno dopo e ogni tanto lancio in alto la penna facendola volare attraverso il vapore che sale dalle pentole, e la riacchiappo appena in tempo sulla discesa, prima che Marilena si metta a gridare indicando a terra come se un meteorite si fosse schiantato sul pavimento della cucina.

Finalmente eravamo alla vigilia. Vincenzo stava ancora con la famosa Sonia di buona famiglia, chiatta e con i buchi in faccia ed era già la terza volta che la portava a casa nel giro di una settimana. Un’altra cosa strana, che non era mai capitata prima.

La prima volta, questa Sonia a mamma non le aveva fatto una bella impressione, e nemmeno la seconda e la terza se è per questo, ma teneva così tanta voglia di vedere Vincenzo sistemato, o perlomeno tranquillo, senza problemi di debiti o amici fatti che lo cercano alle tre di notte, che si era data un pizzicotto sulla pancia e l’aveva invitata personalmente al cenone di Natale.

“Vincè…” ha detto timidamente mamma la mattina del ventiquattro appoggiando una spalla alla porta del bagno, mentre mio fratello si schiaffeggiava le guancie con il dopobarba verde ammirandosi la museruola appena rifatta nello specchio, “…ma questa Sonia… fosse la volta buona?”

Vincenzo ha fatto il sorriso delle grandi occasioni e tirandosi mamma sotto braccio le ha strofinato pollice e indice della mano destra davanti agli occhi dicendo piano piano una sola parola, quasi se la volesse trattenere ancora un poco in bocca, per assaporarsela meglio, prima di farla uscire fuori e sprecarla come una qualunque del vocabolario. La parola era “Munnezza”.

Nel pomeriggio sono salito da Peppino e con la scusa di fargli gli auguri, gli ho domandato di questa storia della munnezza. Lui ha fatto una smorfia e se n’è rimasto zitto, come se la mia domanda gli avesse messo una tristezza dentro che non si aspettava.

Dopo un po’ ha scosso la testa e mi ha fatto lui a me mille domande su cosa combinava Vincenzo e in quali giri si era cacciato questa volta. Alla fine mi ha scompigliato i capelli e con un mezzo sorriso ha detto “Speriamo che hai capito male, e noi ci stiamo facendo sopra il film. Quelli sono degli schifosi. Più malamente dei malamente. Perché ce ne stanno tanti che fanno la malavita da noi, lo sai, ma non tutti tengono genio di avvelenare l’acqua che si bevono pure i loro figli. Per fare così bisogna essere il diavolo in persona. E non è più facile che questa Sonia di mestiere fa la spazzina? Oppure tiene tutta la famiglia sistemata alla nettezza urbana, fosse ‘a primma vota…”

Siamo scoppiati tutti e due a ridere forte e Peppino mi ha abbracciato stretto facendomi tanti auguri di un sereno Natale. Mi ha pure chiamato “ragazzo mio”. Io ero così sorpreso per la sua gentilezza, che nemmeno mi sono accorto della puzza di pipì. O forse, visto che Natale viene un solo giorno all’anno, Peppino aveva festeggiato l’Avvento con un bel bagno profumato.

Quando sono sceso giù, che mancava solo mezz’ora all’inizio del cenone, mi è sembrato quasi di tornare in una casa diversa dalla mia. La tavola nel soggiorno era apparecchiata con tanto di candele dorate e ogni tovagliolo era annodato in modo strano al centro del piatto, come nei ristoranti di lusso. Nemmeno un bicchiere era di carta, e le posate brillavano come se qualcuno le avesse lucidate una per una.

Mamma con quel vestito rosso fuoco sembrava Rossella O’Hara, e aveva riempito la testa di Marilena con tanti fiocchettini dello stesso rosso identico. A me mi ha mandato subito in camera a mettere le bretelle del nonno, pure quelle rosse, e io ho cominciato a girare per casa con Ettore al guinzaglio e uno stuzzicadenti in bocca, molleggiandomi avanti e indietro con l’aria severa che fanno gli adulti quando tengono troppi pensieri.

Nel giro di dieci minuti è comparso zio Alfredo quatto quatto con un borsone sottobraccio. Sembrava un ladro appena scappato dalla gioielleria. Subito appresso sono arrivati Vincenzo e Sonia. Lui stava vestito con gli stessi jeans e la stessa camicia della mattina, mentre lei era truccatissima come un femminiello e sembrava una caramella con tutti i merletti che le uscivano dalla minigonna stretta stretta sulla pancia. Quando si è seduta io le ho contato almeno tre rotoli, uno in più di Gennaro ‘o puorco, il più chiatto delle Scuole Medie Giacomo Leopardi.

Pareva di essere tornati a quei giorni quando Marilena era ancora piccola e papà qualche parola la diceva pure. Infatti anche lui era di buon umore. Stava a capotavola e continuava a dire una frase, sempre la stessa, nel modo suo, con la voce che appena si sentiva e le parole stiracchiate per lo sforzo di uscire “C’è una bella atmosfera oggi, a casa”. E poi annuiva, sforzando l’angolo destro della bocca a sollevarsi per mandarmi una specie di sorriso.

Prima di mangiare ho portato Ettore sul tappetino morbido davanti alla porta della cucina e gli ho posato vicino l’osso di bue legato con un fiocco rosso avanzato da quelli che mamma aveva cucito per Marilena.
A tavola non abbiamo parlato tanto, perché tutti tenevamo troppa fame. Il pranzo della vigilia, infatti, lo avevamo saltato apposta per strafogarci meglio la sera. Marilena è stata buona buona per tutto l’antipasto e il primo, poi ha ricominciato con gli strilli. Mamma per distrarla le ha passato una fetta di pane cafone. Marilena ha buttato sul pavimento la crosta e ha bagnato la mollica con la Ferrarelle nel bicchiere. Mentre noi finivamo il baccalà fritto e l’insalata di rinforzo, ci ha bombardato tutti con le palline di pane zuppo nei capelli.

Verso le undici e mezza, zio Alfredo si è quasi strozzato con la terza fetta di pastiera, si è sollevato di scatto da tavola arraffando l’ultimo babbà ed è scomparso in camerino per prepararsi (“camerino” era il nuovo nome della camera di mamma e papà).

Quando mancavano pochi minuti alla mezzanotte, ci siamo alzati tutti da tavola e mamma come ogni anno è andata a prendere dal suo posto segreto il Bambinello di plastica che a mezzanotte in punto va sistemato tra il bue e l’asinello nel presepe sulla credenza all’ingresso.

Sonia fino a quel momento non aveva ancora detto una parola, teneva i capelli pieni di palline di pane e continuava a stringere il suo bicchiere di champagne come fosse il collo di qualcuno, ma sempre col sorriso. Ogni tanto si guardava intorno stordita, ma i suoi occhi spalancati erano vuoti, senza luce.

Marilena la fissava come fa sempre con le persone nuove e ogni tanto si avvicinava e le tirava un merletto diverso della gonna. Forse Sonia, per come stava vestita, le ricordava una delle sue bambole di pezza.
Mamma è riapparsa dal buio del corridoio portando il bambiniello stretto tra le mani come fosse un bimbo vero e preziosissimo. È stato in quel momento che Sonia ha detto quello che ha detto, e poi è successo tutto: il cielo è cascato sul tetto e il tetto sulla nostra testa.

È stato così in fretta che i miei ricordi sono confusi, ma le parole di Sonia me le ricordo bene, perché ridendo sembrava che le vomitasse al centro della casa con tutto lo champagne che si era stipato fino a quel momento nei rotoli della pancia.
“Signora bella, mi è venuta un’idea”, indicando Marilena, “la parte del bambiniello facciamola fare a questa scimmietta qui, così la smette di fare la deficiente!” Qualcuno deve aver spalancato la finestra della cucina, perché una corrente freddissima è soffiata sulle nostre facce e un silenzio cattivo ha riempito l’aria come una gelatina. Dopo qualche secondo mamma ha rotto la gelatina e calma calma, a voce bassissima che a stento si sentiva, ha detto a Sonia “Piccerè, che bella idea! Ma se a Marilena la deficiente facciamo fare la parte di Gesù bambino, a Sonia la vacca dove la mettiamo? Al posto del bue o dell’asinello?”

A questo punto Sonia si è trasformata che nemmeno la bimba nel film dell’esorcista. Sulla sua fronte larga e bucata dai segni dei brufoli sono comparse delle pieghe profonde, le labbra si sono storte e su tutta la faccia hanno iniziato a spuntare delle chiazze rosse e viola. Quando ha parlato, anche la voce era diversa, più sguaiata e maschile, come se le venisse direttamente dai rotoli pure quella.
“Piezze ‘e cantera, che vai ricenno? Marit’t è nu scemo, e tu ce fai pure ‘e corna co’ frate! Io te sparo in bocca a te e a tutta a famiglia toia!”

Finanche Vincenzo si è spaventato e ha fatto un passo indietro perché sembrava quasi il verso di un animale, e le parole erano mischiate a una specie di ringhio selvaggio. Ettore, che per tutta la cena se ne era restato buono buono sul tappetino a guardarci da lontano, accovacciato con le zampette di dietro rilassate sulle mattonelle della cucina, si è risollevato tutto rigido e impettito, e si è messo a rispondere al ringhio di Sonia con il suo ringhio di cane.

“E ‘o primmo c’acciro è chella bestia!” ha gridato Sonia ancora più forte indicando con il dito a forma di wurstel il mio Ettore. Vincenzo sembrava un fantasma, tutto bianco in faccia e senza parole.
Nemmeno il tempo di calmare Ettore, che quando mi sono girato mamma e Sonia erano venute già alle mani, anzi ai capelli, visto che se li tiravano tra loro urlandosi in faccia “Mò te faccio ‘o strascino!”

“No, io a te!”, finché non è intervenuto papà che si è messo a dividerle come se aprisse una cozza gigante, poi, quando finalmente si sono staccate, ha preso Sonia per la gola con una mano e Vincenzo per un orecchio con l’altra, ha spalancato la porta con un calcio e li ha buttati fuori sulle scale. Si vede che non era ancora soddisfatto, perché è tornato dentro, ha raccattato la borsa a pois di Sonia e gliel’ha chiavata dietro insieme al bicchiere di champagne sporco di rossetto.

“Voi munnezza siete, la munnezza degli esseri umani!” ha detto tra i denti mentre rientrava tutto rosso in casa. Mamma si è seduta tremando in punta alla poltrona col bambiniello stretto ancora nel pugno chiuso. In quel momento è scoccata la mezzanotte e da dietro una pianta è comparso zio Alfredo vestito da babbo natale cantando Jingle Bells mentre scuoteva un campanaccio da pecoraro in mano.

Ettore, che fino a quel momento si sarebbe meritato il premio Nobel dei cani perché nonostante tutti gli odori del cenone se ne era rimasto buono buono sul suo tappetino a giocare con l’osso di bue – e poi non si era mosso nemmeno al ringhio di Sonia – è sgattaiolato sotto al tavolo fino ai piedi di zio Alfredo, ha annusato con calma il tessuto rosso del vestito e ha sollevato la zampa. Io lo avevo portato giù qualche ora prima, ma si vede che la vescica si era di nuovo riempita tutta, oppure Ettore si sentiva assai ispirato. Zio Alfredo è rimasto immobile con il campanaccio fermo in mano. Continuava a guardarsi i pantaloni zuppi e le scarpe allagate di pipì con la fronte pensierosa, come uno che vede qualcosa che lo incuriosisce ma non capisce cos’è.
Marilena, che pure lei fino a quel punto era rimasta tranquilla (molliche di pane a parte), ha ripreso a gridare e ridere forte e più mamma provava a calmarla, più lei indicava zio Alfredo e sbracciando urlava “Piscia, piscia! Zio Alfredo piscia!”

Io ho fatto segno a Ettore di tornare subito da me, ma lui se ne è rimasto fermo a scodinzolare davanti a zio, lasciandogli il tempo di prendere coscienza. E infatti all’improvviso zio si è come scetato da un sogno, gli occhi si sono fatti piccoli e cattivi e con una mano sola ha acchiappato Ettore per la coda tenendolo sollevato a testa in giù come un coniglio. Mentre lo strattonava malamente gridava “‘Stu cane è muorto! ‘Stu cane adda murì!”

Così l’ha trascinato in cucina. Mi sono fiondato appresso a zio per salvare Ettore. Il cuore mi batteva tra i denti, come se tutto il sangue si fosse spostato nella testa. Mamma si è allungata di scatto e mentre teneva ancora una mano sulla bocca di Marilena, con l’altra ha cercato di acchiapparmi sotto la spalla per non farmi andare. Io già tenevo le mani che mi tremavano e sentivo le formiche salirmi veloci nelle braccia attraverso i gomiti. Con un gesto brusco le ho scansato la mano e fissandola con rabbia l’ho spinta verso il muro con tutta la forza che tenevo. Solo dopo, a ripensarci, mi sono accorto che negli occhi di mamma c’era la paura, e dietro alla paura una domanda, grande ma silenziosa.

Io però dovevo pensare a Ettore, così l’ho lasciata scivolare con la schiena al muro fino a terra, mentre il bambinello rotolava sul tappeto rincorrendo le palline di pane di Marilena.
Zio Alfredo continuava a urlare “Cane ‘e merda! T’aggia accìrere!”

Il guaito di Ettore mi faceva male alle orecchie e quando il neon della cucina mi ha illuminato in pieno la faccia, Zio Alfredo si è girato verso di me con gli occhi del pazzo.
“Tu qua stai? Bravo, è giusto. Devi vedere l’esecuzione”.

Io piangevo e non mi usciva una parola. Mi faceva male la testa, non riuscivo a pensare e gli occhi da pazzo di zio Alfredo mi mettevano paura.
Sempre tenendo Ettore come un coniglio, con la mano libera zio si è avvicinato al forno elettrico e ha schiacciato ON. Poi ha aperto lo sportello e ci ha ficcato dentro Ettore, che però non voleva entrare e si agitava tutto come un capitone. Quando lo sportello del forno si è chiuso, Ettore ha fatto un ultimo guaito disperato.
È sceso il silenzio. Zio Alfredo mi ha guardato sospirando e sembrava di colpo tornato tranquillo. Si è seduto su una delle sedie di paglia intorno al tavolo, si è asciugato il sudore sulla fronte con un tovagliolo di carta e poi si è scavato nella manica per trovarsi l’orologio. L’ha osservato a lungo come se dovesse leggerci dentro il futuro e mi ha chiesto con calma “Sai quanto ci mette l’agnello a cuocersi bene bene, fino a dentro?”

Io tremavo tutto e riuscivo solo a pensare che volevo stare nel forno insieme al mio Ettore, perché la cosa più brutta non è soffrire, ma soffrire da soli.
Dopo qualche secondo che a me però è sembrato un’ora, mamma è comparsa sulla porta della cucina che pareva un’altra donna, proprio diversa da quella che bestemmiava a Sonia e dopo la spinta mi guardava impaurita, tremando sul pavimento. Si era tolta le scarpe e teneva un lembo del vestito penzolante per le mazzate di prima, ma pareva comunque vestita di tutto punto, quasi stesse portando l’alta uniforme, e la sua camminata era lenta ma molto sicura. Negli occhi teneva una luce cattiva che non le conoscevo.

Con gesti semplici semplici, come quelli che fa ogni giorno per mettere i panni in lavatrice o cucinarmi una fettina, si è diretta alla parete dove stanno tutte le padelle in alluminio appese ai ganci, ha afferrato per il manico la più grande, l’ha soppesata bene come fanno i tennisti con la racchetta prima di servire, e dopo un lungo respiro l’ha chiavata con tutta la forza in faccia a zio Alfredo. Poi ha riappeso la padella ammaccata al muro, ha aperto il forno e facendosi piccola piccola si è allungata fino all’angolo in fondo dove Ettore stava rannicchiato e tremava come una foglia. Quando finalmente l’ha tirato fuori, lui stava tutto spaurito e mamma se l’è tenuto in braccio come un bambino, e ogni tanto gli diceva “Schhh, tu sei un bravo cagnolino, va tutto bene adesso, schhh…”

Lo so che è stupido, perché a finire nel forno è stato Ettore, però quasi l’ho invidiato in quel momento perché poteva essere il bambino che io non sarò mai più.
Ho pensato male, perché a Ettore non sono bastate un po’ di coccole. Era troppo spaventato e appena mamma l’ha posato dolcemente sul divano che di solito è il suo posto preferito, è saltato giù come tenesse una scarica di corrente ancora in circolo, si è messo a correre per casa come un coniglio pazzo, ha sbattuto tre volte contro un tavolino e due sedie, poi, come le mosche quando si sbattono in un posto chiuso, non appena ha incarrato la via di uscita della porta di casa rimasta semiaperta dopo il mazziatone di papà, non ci ha pensato due volte ed è scappato fuori.
Sono corso subito da Peppino facendo le scale due a due, sperando che Ettore si fosse nascosto da lui, ma niente, nemmeno l’aveva visto. Quando sono rientrato, mamma stava guardando papà in silenzio e papà guardava il presepe e ogni tanto si girava verso mamma con l’aria di rimprovero di un bambino offeso, senza mai riuscire a fissarla dritta negli occhi.

Mamma mi è venuta incontro e mi ha detto con un filo di voce “Vieni, piccerì, andiamo a dormire in camera di mamma. Attento a dove metti i piedi. Domani pensiamo a tutto”.

Da qualche giorno siamo entrati nel nuovo anno, e Ettore ancora non si è visto. Vincenzo sta ai domiciliari, perché il giorno di Natale, dopo essersi lasciato malamente con Sonia, per sfogarsi lo stress ha picchiato a sangue un tunisino alla stazione che voleva vendergli un accendino. Mamma ha riportato Marilena all’istituto, e passa le giornate a piangere. Mi chiede duecento volte al giorno dove sta Ettore, perché le goccine non fanno più effetto.

“Non lo so”
“Ma l’hai cercato bene?”
“Come no”
“E dove sta, dove sta…”
So che vorrebbe stringerlo come faceva prima e allora le dico che ho cercato, e continuo a cercarlo. Ma non è vero. Faccio dieci volte il giro della casa, lo chiamo e lo richiamo. Controllo anche fuori al pianerottolo e dai vicini. Ma già lo so, non può rispondere da dove sta. Certe volte mi viene di guardare sotto al mio letto, ma poi non lo faccio. Forse era solo stanco di vivere con noi, in una casa dove non sai mai se è peggio il silenzio o l’ammuina.
Quando succede qualche cosa o, peggio ancora, quando non succede, e allora mi iniziano a salire le formiche nelle mani, terrei tanta voglia di metterle dentro al pelo di Ettore, fino a che non sento più niente, tranne il battito caldo del suo cuore. Il fastidio delle mani aumenta, ma ho capito che se le chiudo facendo i pugni stretti poi, dopo un poco, mi passa.
Ma devo stringere forte, più forte che posso.

Il sentimento d’impostura

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di Ornella Tajani

Càpita, anche ormai lontani dalla maggior età, di sognare di dover ripetere l’esame di maturità, o di ritrovarsi davanti a un imprecisato tribunale che ci accusa di non aver sostenuto tutti gli esami universitari: nel sogno siamo ingiustamente costretti a tornare fra i banchi per la versione di greco o il compito di matematica, oppure ci accorgiamo di avere per anni montato una truffa, perché nel nostro percorso scolastico o accademico c’è una falla.

Nella realtà che diventa letteratura, la trama di una menzogna di questo tipo è magistralmente sviluppata da Emmanuel Carrère in L’Adversaire. Ma nella realtà che ci riguarda, in quella cioè in cui siamo – da svegli – effettivamente diplomati o laureati, un sogno del genere è per Belinda Cannone, scrittrice e saggista francese, un chiaro sintomo del sentimento di impostura (Le sentiment d’imposture, éditions Calmann-Lévy, 2005; oggi Folio Gallimard; tradotto da Giovanni Lombardo per Edizioni di Passaggio, 2011).

Gli esempi che Cannone fornisce sono vari e accattivanti: si passa dalla letteratura alla psicanalisi, dalla politica al cinema, alla diretta testimonianza di suoi amici e conoscenti. Il sentimento di impostura è quello che affligge tutti gli esseri che sentono, per una loro intima, terrificante e spesso irrazionale convinzione, di occupare da impostori un posto che non gli spetta, una posizione – professionale, sociale, intellettuale, o di rivestire un ruolo all’interno di una relazione sentimentale – che non meritano. Ciò che Cannone vuole descrivere è «una di quelle forme chimeriche della mente che ossessionano un individuo, condizionando a volte la sua intera esistenza o una parte della sua esistenza, e che puntualmente la rovinano» (trad. mia per le citazioni).

Prendiamo un altro esempio: Rebecca, la prima moglie. Nel capolavoro di Hitchcock, Rebecca è soltanto un fantasma: la vera protagonista femminile non solo non compare nel titolo, ma resta senza nome per l’intera durata del film. Questo perché tutta la sua identità è condensata nel ruolo di seconda moglie: nessuna altra complessità sembra esserle concessa. La donna, di umili origini, occupa questa casella sociale afflitta da un fortissimo sentimento di impostura: dopo essersi sposata con l’uomo che ama, il ricco Maxim de Winter, nonostante sia ormai diventata padrona del castello di Manderley, quando qualcuno telefona a casa e chiede della sig.ra de Winter, lei, piuttosto che riconoscersi in quel titolo, risponde «La sig.ra de Winter è morta». Non si sente legittimata a occupare il suo posto accanto a Maxim, nonostante il suo ruolo sia ufficialmente riconosciuto.

«Per provare un sentimento d’impostura, bisogna aver raggiunto un traguardo», spiega Cannone: bisogna cioè aver conquistato la posizione desiderata. Succede, ad esempio, al personaggio letterario del «negro bianco»: in La macchia umana di Philip Roth, Cole Silk giunge all’obiettivo accademico prefissato, celando però a tutti un dato fondamentale sulle sue origini. L’autrice tiene a sottolineare la differenza tra impostura e vergogna, ritenendo che quest’ultima sia determinata da una colpa reale o da una «macchia», appunto, socialmente condannabile. Laddove la vergogna inibisce l’azione e porta all’isolamento, l’impostura si accompagna invece a una volontà più attiva, a un desiderio di vittoria. Schematicamente, per Cannone, «alla triade inibizione-depressione-vergogna, l’impostore contrappone quella desiderio-angoscia-sentimento d’impostura». In verità la distinzione è forse meno netta di quanto affermi l’autrice, poiché impostura e vergogna possono confondersi e sfumare, ad esempio, nel solco di una mémoire humiliée, tema splendidamente trattato da alcuni autori francesi contemporanei (Annie Ernaux, Didier Eribon) e sul quale mi riservo di tornare in futuro.

Uno dei nodi più interessanti del saggio è invece il legame dell’impostura con il precariato: se un tempo l’affermazione professionale era molto più semplice e rapida, diremo quasi automatica, oggi la sua mancanza provoca un inevitabile senso di crisi. Diventa difficile, così, conquistare il famoso posto all’interno della società, o magari questo posto è occupato parzialmente, temporaneamente: al suo interno ci sediamo di traverso, restando scomodi. È una scomodità che diventa esistenziale, alla quale rispondiamo mediante una iper-affermazione della nostra singolarità. In altre parole: se le dichiarazioni «sono un avvocato», «sono una scrittrice», «sono un’insegnante di matematica» suscitano in chi le pronuncia un sotterraneo senso di impostura, perché a parlare è un praticante/una scrittrice senza editore/una supplente, cos’altro si può fare per combattere il senso di crisi se non ribadire costantemente – magari sui social – che si è avvocato, scrittrice o docente di matematica? L’ipotesi di Cannone è che l’autopromozione generalizzata sia una reazione di difesa psichica dell’individuo costretto all’interno di una società labile e precaria, in cui la «casella» da occupare nel mondo non è già pronta, ma è tutta da montare, come un mobile Ikea, e non è detto che si disponga di tutti i pezzi. Oppure ci sono i pezzi ma non le istruzioni: è il caso divertente, per quanto un po’ forzato, di Antoine, un altro degli intervistati, professore di ruolo di letterature comparate, la cui testimonianza sottolinea come il campo della comparatistica richieda ai suoi appartenenti di possedere una imprecisata, ma fondamentale, «identità» comparatista che lui stesso non riuscirebbe a definire. La questione identitaria, insieme all’indissolubile rovello rappresentato dal merito in una società che si vanta della propria meritocrazia, è l’asse principale dell’esplorazione, da parte dell’autrice, del disagio intimo dell’impostura.

Nella parte finale del libro Cannone si dedica a casi di impostura determinati dalla provenienza sociale, trattando esempi di persone appartenenti a classi disagiate che sono riusciti ad affermarsi nel campo del lavoro o della politica. L’autrice, con una provocazione, si spinge a dire che in fondo, nonostante le trombe dell’ideologia meritocratica quasi d’obbligo in una società democratica, la maggior parte degli individui cova nell’animo una concezione aristocratica del valore, legata a una distinzione di nascita. «Non si tratta di credere davvero che il ceto aristocratico sia per natura superiore – chiarisce Cannone -, ma piuttosto del fatto che il loro titolo indica un’antichissima familiarità con il potere». Qui l’autrice cita Freud e la patologia del romanzo familiare, per la quale, dato l’assioma mater certissima/pater incertus, il bambino di origine modesta inizia a fantasticare sulla possibilità di essere in realtà figlio di un uomo ricco e potente. Questo è il tema, fra l’altro, di un bel racconto di Didier Daeninckx, La particule (in Off Limits, trad. Fabio Gambaro, Donzelli), nonché il punto di partenza del saggio di Marthe Robert del 1977, Roman des origines et origines du roman, in cui l’autrice, partendo dallo studio di Freud, teorizzava due differenti tipologie di romanzo: quella dell’enfant trouvé, del trovatello, e cioè della letteratura che inventa, mettendo magari in scena un personaggio che fantastica su un’esistenza straordinaria e altra da quella che gli è concessa (così come fa il trovatello sulle proprie origini; Don Chisciotte sarebbe l’archetipo di questo modello); e quella del bastardo, dunque della letteratura realista, che conosce i fatti, il cui protagonista è consapevole della propria condizione e affronta il mondo per quello che è, cercando di conquistarlo (il Balzac della Comédie, ecc.).

Ciò significa – prosegue Cannone – che la questione dell’essere “nati bene” non riveste solo una dimensione sociale. Nell’infanzia quest’idea si mescola a vari sogni e fantasmi […]. Da adulti, ognuno viene restituito alla propria modesta condizione reale. Così, quale che sia la nostra origine sociale, il vecchio piccolo principe che alberga in ognuno di noi reclama all’io diventato adulto un’identità grandiosa – insostenibile. È da qui che forse proviene il tanto diffuso sentimento d’impostura.

Questa penultima proposizione di Cannone è solo una possibile ipotesi dell’imbrigliabile oggetto d’analisi che l’autrice prova a ritrarre in questo breve saggio, a-scientifico, irriverente e spesso arbitrario, ma ricco di suggestioni. L’epilogo, invece, apre a una interrogazione ampia sul senso dello stare al mondo, sullo stupore primitivo della nascita e lo sconcerto provocato dall’esistere che portano l’individuo a mettersi continuamente in discussione, e a sentirsi spesso fuori posto. È anche da qui che, forse, scaturisce il sentimento d’impostura, faticoso ma appassionante, perché obbliga a uscire da se stessi, a ricercare un confronto costante con l’altro – un altro cher imposteur, mon semblable, mon frère.

Un salotto a Salò. Pasolini in Arcitaliani di Massimo Sgorbani

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di Marco Simonelli

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A quarant’anni dal brutale omicidio di Pier Paolo Pasolini, l’humus social-mediatico italiano ha ricordato il poeta friulano glorificandone il nome e in linea di massima tacendone l’asperità e complessità dell’opera poetica e cinematografica: persino le Poste Italiane hanno emesso un francobollo che ne raffigurava l’effige, sancendone così la beatificazione nell’empireo filatelico. Chi invece ha preferito ricordare Pasolini e il suo acume critico nei confronti del perbenismo della società italiana post-bellica è il drammaturgo Massimo Sgorbani che con Arcitaliani o le 600 giornate di Salò ha omaggiato l’opera pasoliniana isolandone alcuni temi fondamentali per poi rielaborarli nella costruzione di uno spettacolo teatrale della durata di tre ore.

Lo spettacolo si apre all’indomani della liberazione della Sicilia da parte degli Alleati e segue le vicende di uno strampalato e fumettistico nucleo familiare orgogliosamente fascista ispirato al personaggio di Sor Pampurio Arcicontento iconica creatura partorita dalla penna di Carlo Bisi per il Corriere dei Piccoli: un padre presuntuoso e autoritario (Marco Natalucci) che, come il suo doppio d’inchiostro, costringe la famiglia a cambiare casa continuamente; una madre (Rosanna Gentili), ingessata in un tailleur verde sotto al ginocchio, che soffre di tremende quanto provvidenziali emicranie; un figlio  adolescente (Roberto Caccavo) alle prese con le prime pulsioni sessuali che comunica, attraverso stati onirici, con i fantasmi dei partigiani trucidati, una fedele e stralunata servetta di estrazione contadina (Gaia Nanni) e un pappagallino che, dalla sua gabbietta, commenta in versi le vicende dei protagonisti. Al plot principale del testo si aggiungono gli inserti grotteschi di Ben e Claretta (Mussolini e la Petacci, rispettivamente Gianfranco Quero e Giusi Merli), marionette umane dalla fisicità distorta i cui dialoghi altro non sono che decontestualizzati  lacerti della corrispondenza intercorsa fra il Duce e la sua amante. Da subito il colorato e disfunzionale nucleo familiare si rivela un microcosmo di fascismo: i vari componenti infatti, avvalendosi del ricatto e della minaccia, costringeranno a turno la servetta a consumare con loro un rapporto sessuale. Esilaranti e terribili, gli amplessi a scena aperta altro non sono che esplicite citazioni pasoliniane: la famiglia borghese risemantizza quella di Teorema sconvolta dall’attrazione erotica per l’ospite Terence Stamp; il personaggio della servetta abusata è un emblema dei giovani sottoproletari che in Salò subiscono le torture dei quattro carnefici fascisti mentre il personaggio del pappagallino che interagisce con i protagonisti commentandone le azioni cita i pennuti parlanti di Uccellacci e uccellini.

Ma al di là delle suggestioni pasoliniane, Arcitaliani appare come un dramma allegorico che esplora l’archetipo di una famiglia affetta da un fascismo inteso come disfunzione affettiva, violenza sopraffatrice, incomunicabilità. I componenti della famiglia infatti sembrano comunicare fra loro avvalendosi di frasi fatte, consuetudini, tic non solo linguistici: il figlio, che cresce -amleticamente- comunicando con i fantasmi dei partigiani trucidati, il padre che cambia continuamente abitazione poiché insegue l’irraggiungibile ideale di un appartamento perfetto, la madre che nasconde la propria sessualità ed evita il “dovere coniugale” con la scusa del mal di testa celano, dietro la loro tendenza macchiettistica, i fantasmi che potevano alternarsi nella psiche di chi visse, come Pasolini, in quel contesto storico. Si tratta di un teatro freudiano che esplora le conseguenze sadiche dell’incomunicabilità e della solitudine. L’enuresi del figlio, la fissazione scatologica del padre, il rigido perbenismo fobico della madre sono altrettante spie di un malessere storico-filosofico che sembra affondare le proprie radici nella marionettistica rappresentazione del dux-pater patriae Ben(ito), ipersessualizzato megalomane tiranno che risulta comico e grottesco nella sua spavalderia di latin-lover senile. Unica remissiva risorsa affettiva e comunicativa affidabile dell’intera famiglia risulta essere l’abusata servetta sottoproletaria che non si limita a fornire ai tre il proprio corpo bensì l’ascolto di cui necessiterebbero ma che non riescono a darsi reciprocamente.

I momenti più trascinanti di Arcitaliani sono indubbiamenti i monologhi in cui ogni membro della famiglia borghese rompe la quarta parete e si produce in un’autoanalisi psico-semiologica con lo scopo di illustrare al pubblico il significato profondo delle proprie azioni: ne emergono patologie neuro-sociali come l’analisi che la madre fa dell’origine della sua emicrania, ricondotta all’usanza iconografica dell’aureola che nell’arte sacra denota la santità del personaggio rappresentato.

Nel salotto della famiglia borghese irrompono, attraverso gli incubi del figlio, i fantasmi veri e propri dei partigiani che hanno perso la vita per mano dei tedeschi: vengono realizzate in questo modo le scene più commoventi dell’intero testo, affidate a un coro di giovani attori che si producono in un suggestivo controscena.

La regia di Gianfranco Pedullà accentua ed esaspera i connotati fumettistici della famiglia di Pampurio: sgargianti e stereotipati, creature smaccatamente finte (come del resto lo sono Ben e Claretta, amanti tragici ridotti a fantocci o macchiette d’avanspettacolo) si contrappongono alla coralità lucida e precisa nell’iperrealismo dolente delle scene oniriche.

Significativa la scelta di scritturare un poeta (Rosaria Lo Russo) per interpretare il pappagallino: a questo personaggio, che si esprime utilizzando luoghi testuali di Malaparte e D’Annunzio, è affidato il ruolo di fool shakespeariano, linguacciuta presenza che dalla sua gabbietta rammenta alla famiglia borghese l’oscenità delle loro azioni. Nella sua morte (verrà brutalmente freddato dal figlio con un colpo di pistola) è possibile leggere in filigrana sia un riferimento al D’Annunzio dell’impresa di Fiume (il cui spirito verrà in seguito tradito dagli esiti del fascismo), sia un riferimento all’omicidio di Pasolini intellettuale scomodo.

Il dramma troverà il suo epilogo in piazzale Loreto, fatale ultimo domicilio della famiglia di Arcitaliani dove la servetta rivelerà il suo ruolo di allegoria del sottoproletariato: verrà infatti sedotta dalla Radio stessa, nella persona del cantante (Massimo Altomare) che interpreta brani dell’epoca (Mamma mi ci vuol la fidanzata, La famiglia canterina etc) per permettere agli attori un rapido cambio di scena. Nel suo destino si traduce la lucida visione che Pasolini ebbe del sottoproletariato e della sua inurbanizzazione e conseguenti “corruzione” e imborghesimento fra gli anni ‘50 e ‘70, forse il modo più schietto e incisivo per ricordare il lascito intellettuale di Pasolini all’Italia.

Date dello spettacolo presso il Teatro delle Arti di Lastra a Signa

2015
– 30 ottobre (anteprima)
– 01 novembre (anteprima)
– 02 novembre (debutto)
– dal 03 all’ 08 novembre (repliche)
2016
– dal 13 al 15 maggio (repliche)