Home Blog Pagina 250

Arcipelaghi

2

Di Giorgio Mascitelli

Apprendo da fonte degna di fede ( uno di quei rotocalchi supplementi dei quotidiani che ci insegnano a distinguere il grano dal loglio, per così dire) che un vero ricco al passo con i tempi alla domanda su quanto sia grande la sua isola deve rispondere che lui possiede un arcipelago. Non sono certo un moralista, come pare sia necessario dire oggi, e poi c’è già il Santo Padre per insegnare a tutti il valore morale della povertà e della sobrietà  e il rispetto della gerarchia, che consente a chi gode dei predetti beni spirituali di non privarsene mai; né intendo buttarla in politica ricordando come la Grecia stia pianificando di vendere alcune isole per ripagare le banche creditrici, di cui potrebbero essere azionisti magari alcuni degli stessi acquirenti. Non sono scandalizzato perché in fondo mi so simile ai collezionisti di isole: durante l’infanzia collezionavo figurine dei calciatori non per completare l’album, ma per il piacere di averne le tasche piene e, da un certo punto di vista, il collezionista di figurine e quello di isole e le rispettive collezioni non sono poi tanto differenti.

Se invece si prende in esame la questione da un punto di vista tecnico di retorica della comunicazione, allora le cose cambiano: attualmente il discorso mediatico sulla ricchezza è tutto improntato all’elogio della sobrietà, della misura e addirittura dello stesso pauperismo, nel quale annunci compiaciuti del taglio di superstipendi si alternano a indignate comunicazioni della pervicacia di coloro che si ostinano a non rinunciare a cifre ormai insolenti per il pubblico. Non mancano naturalmente  gli elogi agli esempi positivi di liberalità e munificenza di chi può, come si diceva una volta. In un contesto mediatico così improntato a una severa tutela dei valori autentici della vita è chiaro che riportare eleganti bon mot come quello dei ricchi e dei loro arcipelaghi è una stonatura grave paragonabile a quella di chi, vestitosi meticolosamente in nero e compunto il volto a un’espressione tristemente partecipe in occasione di un funerale, si sorprenda nel corso della cerimonia a ridere sguaiatamente o a fare un pernacchione.

In senso tecnico si tratta di un’antifrasi, che è figura d’ironia e di solito viene impiegata con intenti demistificatori, e qui l’ironia e la demistificazione ci sono, ma sono involontarie. D’altronde è comprensibile che sia così: per un apparato mediatico costituzionalmente programmato all’ottimismo dei consumi riconvertirsi nel giro di pochi mesi a un pauperismo pessimista, seppur moderato, può essere molto difficile.

Il fatto più grave, se si è un operatore professionale della comunicazione, o più divertente, se non si è operatori, non è però la carica involontariamente demistificatoria di un dettaglio del genere dell’ipocrisia dei ricchi e dei potenti, che se la spassano godendosi i loro soldi e facendo solo finta di ridursi gli stipendi. Il fatto più grave o più divertente è che a qualcuno potrebbe venire in mente che questa battuta starebbe a pennello in una storia dei tempi antichi: sì una di quelle storie che si raccontano ancora oggi ai bambini con re e principesse, duchesse e ciambellani oppure, per il piacere dei classicisti più grandicelli, in una delle Vite dei Cesari di Svetonio.

Quando io avevo l’età dei bambini di oggi, anche allora vigeva l’austerità, eppure credo che nei media  non sarebbe stato nemmeno pensabile un accenno a un’isola o a un arcipelago di proprietà di chicchessia. Probabilmente già allora qualche fortunato possedeva la sua brava isola, anche se erano meno di oggi, ma non sarebbe stato tollerabile che il discorso mediatico alludesse anche solo per scherzo a differenze e disuguaglianze così vistose e arcaiche da smentire la spinta democratica all’emancipazione nella società. Se il mondo era moderno, non ci potevano essere che comportamenti e divertenti moderni, anche tra i ricchissimi. Ovviamente già allora dietro questo spettacolo del progresso c’era chi lavorava fattivamente per rafforzare la disuguaglianza, che tuttavia non era ancora diventata uno spettacolo di successo.

Lo sarebbe diventato negli anni successivi: ora che  il buon senso e la prudenza a causa della crisi suggeriscono di sostituirlo con quello della sobrietà, anche i professionisti della comunicazione fanno fatica a cambiare perché lo spettacolo della disuguaglianza non era una mistificazione, un falso che copriva la verità, anzi era la più schietta rappresentazione dello spirito dei tempi.

E naturalmente cambiano gli spettacoli, ma non i tempi e il loro spirito: magari uno di questi giorni costruisco insieme a mio figlio un’isola tutta nostra di sughero da far galleggiare nel laghetto dei giardini pubblici.

Viso e gesto di musica: Claudio Abbado

3

http://www.youtube.com/watch?v=VmozblR_9Pk

Orchestra del Festival di Lucerna, Gustav Mahler, sinfonia N. 1 in re maggiore.

Due azioni poetiche torinesi: il 24 alla Trebisonda e il 25 a Voyelles et Visions

5

 Venerdì 24 gennaio 2014 alle ore 21.00

 Libreria Trebisonda a Torino (via s. anselmo 22)

 presentazione dei libri

Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, Italic-Pequod, 2013

 &

 La grande anitra, Oèdipus, 2013

 di

 Andrea Inglese

Morir dal ridere, ovvero la Grande Svolta

8

di Luca Lenzini

m.r.

Un passaggio epocale, niente di meno, ha avuto luogo nel 2013. Il fatto è così macroscopico che, come accade, si è finito per trascurarlo, con grave negligenza: nei Media le vignette dedicate a Silvio Berlusconi si sono drasticamente ridotte, per essere sostituite da quelle su Matteo Renzi. Si dirà: e allora? Morto un re, se ne fa un altro. E appunto, tale è la logica inesorabile del sistema mediatico, non davvero nata nel terzo Millennio: eppure, forse proprio perché giornalmente assediata da non-notizie, catastrofi naturali e scandali a base di politici e celebrities, la coscienza stenta a cogliere sino in fondo le implicazioni di questo Rubicone – per la Sinistra, vorrei specificare, non fossi incerto sulla titolarità dell’arcaico concetto.

Savina Dolores Massa, da “Undici” a “Cenere calda a mezzanotte”. Intervista di Max Ponte

1

massaIl tuo romanzo d’esordio, Undici, è arrivato fra i finalisti del premio Calvino del 2007. Come sei arrivata alla scrittura e quando decidi di intraprendere questo mestiere (“a tempo pieno” dice una tua biografia)?

Quando scrissi Undici fu per un’urgenza del cuore, per una “protezione” verso un fenomeno di aridità umana inconcepibile: le migrazioni. Avevo già scritto un romanzo, tuttora inedito, ma soprattutto esisteva la prima stesura del mio ultimo Cenere calda a mezzanotte. Per poter raccontare come piace a me abbandonai un lavoro fisso e ben retribuito, scegliendo una libertà colma di sacrifici. Non me ne sono mai pentita. Fu la scomparsa di mio padre, il desiderio di raccogliere Memoria a farmi fare la scelta.

Quali autori e quali letture hanno nutrito il terreno che ha fatto germogliare le tue narrazioni?

Sono sempre stata avida di storie. Fin dai sei anni non sono mai andata a dormire senza un libro per compagno. Mai avuto l’orsacchiotto. Ho letto compulsivamente di tutto. Dal tutto poi si arriva a selezionare. Sartre e De Beauvoir assieme a Marquez e a Marx a sedici anni. Ma ancor prima Kerouac, Ginsberg, Hemingway, Durrell, insomma, un po’ tutti gli autori americani. Borges, Amado e sempre Marquez fin quando ha conservato lucidità. Anna Maria Ortese, Goliarda Sapienza, Morante, Pamuk, Woolf, Amelia Rosselli, Majakovskij, Giulio Angioni, Sexton, Gualtieri, Achmatova. Anche molti gialli e tanta fantascienza. Anche fumetti porno. Mi fermo così, leggo e amo le mille differenze tra un autore e l’altro. Da qui il definirmi di qualcuno, “Lettrice disordinata”. Forse l’aggettivo giunge dalla mia confessione, “Io non studio, semplicemente leggo”. E apparentemente dimentico, invece so come tutto si sia fatto universo nella mia memoria. Rosselli che litiga con Ortese, Woolf innamorata di Majakovskij, Sexton consolata da Sapienza, e via sognando.

La Sardegna, la tua terra, compare e scompare nei tuoi romanzi, da scenario fantastico in Mia figlia follia diventa dura realtà, terra dei vinti, in Ogni madre, per poi ritornare a un altrove nel tuo ultimo romanzo Cenere calda a mezzanotte.

Solo in Undici non compare la Sardegna se non in un minuscolo passo. Si scrive di ciò che si conosce meglio, ma questa non deve essere una regola. Altrimenti la fantasia potrebbe sciuparsi. I miei luoghi raccontati o i personaggi possono appartenere tranquillamente al mondo. Non pongo frontiere all’immaginazione. Il romanzo ancora inedito spazia dal Messico a Gibilterra, ad esempio. E quando scrivo poesia o teatro, non credo di poter essere individuata come sarda. Credo di essere il risultato di ogni mio pensiero chiassoso, capace agevolmente di saltare il mare di un’isola.

Il topos della madre, e il ruolo della donna, sono temi che caratterizzano fortemente i tuoi romanzi. In Cenere calda a mezzanotte scrivi: “Perché questa sorte di essere donna? E cosa volevi essere? Nuvola.” Bonaria, madre di sette figli, muore per un taglio e proprio qui inizia il romanzo.

Li caratterizzano molto, sì, mi è stato detto. Devo chiarire che non decido mai nulla a tavolino: le storie giungono, con uomini e donne. Con la vita. Non essendo nata “nuvola” ma donna, porto me stessa in tutte le mie sfaccettature, e non sono poche, ahimè. La madre indubbiamente compare spesso. Frugando nel mio inconscio credo di aver individuato la causa nell’assenza di maternità caduta in sorte alla sottoscritta. Ma gli inconsci sono artisti nell’arte dell’inganno.

I dialoghi dei tuoi personaggi hanno un’impronta teatrale. Penso a quello fra Maddalenina e Maria Carta in Mia figlia follia. Maddalenina, come si scoprirà, sta parlando con un fantasma. E di dialoghi con gli spettri ne abbiamo una lunga tradizione (amo ricordare spesso il dialogo fra Vittorio Alfieri e l’amico Gori Gandellini). Che rapporto c’è fra la tua scrittura e il teatro?

Considero l’esistenza la migliore fonte teatrale da cui attingere. Anche volendo impedire ai miei personaggi di agire come preferiscono, loro nascono attori. Io conto poco, sono ingovernabili, dormono quando vogliono, dialogano tra loro ignorandomi. Spesso sono consapevole di non essere regista di un bel niente. Raccontare è sempre teatro, e alla fine c’è un sipario che si chiude. A volte applausi, a volte no: questo mi piace molto. È giusto che i personaggi si assumano la propria responsabilità nel momento in cui mi negano il ruolo del burattinaio. Poi vengono a piangermi sulla spalla quando si accorgono del mio bisogno di dimenticarli. Pur amandoli tanto sono obbligata ad allontanarli. Maddalenina di Mia figlia follia mi ha costretta a balbettare per mesi: non se ne voleva andare. Anche Sayoro di Undici mi ha guastato molte notti, sempre accanto al mio letto dicendo: “Ho ancora troppo da dire”. Vanno cacciati in malo modo, altrimenti non potrei pensarne di nuovi.

Il forte lirismo della tua scrittura e le mie sottolineature a matita sono andati di pari passo. Ho notato che persino gli escrementi, elemento che pochi scrittori affrontano, assumono qualche grado di nobiltà. Tale lirismo è alimentato da una tua produzione poetica oppure è l’écume, la spuma (per dirla alla Vian) della tua narrazione?

Vengo definita spesso scrittrice di prosa poetica. E credo d’essere d’accordo. Amo la poesia considerandola la migliore espressione di scrittura, di rappresentazione dell’umanità sincera. Ne scrivo tantissima, mai pubblicata. È difficile trovare editori che rischiano. Lei arriva come nebbia sopra ogni mia parola: è inevitabile. Pur cruda sa possedere una sua dolcezza. Non saprei mai scrivere senza la sua compagnia. Certe volte ci provo, snaturandomi, ma torno all’istante dalla mia anima.

I tuoi libri alternano e integrano impegno civile e trasfigurazione della realtà. Undici parte da un fatto di cronaca, la morte di 11 clandestini africani su una barca e Ogni madre è una raccolta di racconti di “denuncia sociale” ispirati ai fatti di cronaca avvenuti in Sardegna fra il 1870 e gli anni ’60 del Novecento. Questi due libri, e soprattutto il secondo, sono segnati dalla cifra dell’impegno civile mentre Mia figlia follia e Cenere calda a mezzanotte sembrano appartenere più che altro a quello che molti definirebbero “realismo magico”.

Chiunque abbia tentato di etichettare la mia scrittura si è ricreduto, soprattutto ascoltandomi parlare corpore presente. Non sono inquadrabile io, non lo è niente della mia produzione. Ho delle contraddizioni incomprensibili perfino a me stessa. Quanto i primi due lavori, anche Mia figlia follia e Cenere calda a mezzanotte dimostrano impegno civile o come si preferisce chiamarlo. Nel primo c’è il rifiuto per la “diversamente” viva, considerata matta; per il vecchio omosessuale deriso da un’intera comunità; per il maschio privo di genitali; per un bambino che ha compreso precocemente il disincanto della vita. Nell’ultimo romanzo pubblicato, così come in tutti gli altri, c’è un comune denominatore: il canto degli umili, degli invisibili alla Storia, della fatica nella sopravvivenza. Se raccontare di ciò è da considerarsi impegno civile, ebbene, è così. Non desidero medaglie quando scelgo di raccontare la realtà, spesso crudele per molte fasce di esistenze. Il “magico” è solo la memoria dei racconti di mia nonna, che neppure sotto tortura mi avrebbe mentito. Il “magico” è verità assoluta, in Sardegna. Ah, dimenticavo di dire, “secondo me”.

Quando si parla di “realismo magico” si applica una categoria che appartiene agli scrittori sudamericani. E a dire il vero nella tua scrittura si trovano atmosfere che ricordano l’America Latina. (In Mia figlia follia anche la copertina sembra strizzare l’occhio alla Allende). Ti ritrovi nell’etichetta “realismo magico”?

Se nella mia scrittura alcuni notano atmosfere sudamericane, è perché non hanno mai conosciuto Maria Carta, o Petronilla, o Rebecca, o Tommaso. E Peppina, l’hanno mai incontrata? Ebbene, io ho avuto questa fortuna, e giuro sul mio cane che non eravamo a Macondo, ma in Sardegna. Molti popoli hanno le medesime radici, a volte spiegabili, altre no. Ciò che io racconto è il mio patrimonio genetico, nudo, crudo e sincero. In sa ruga ‘e Peppi Enna citata in Cenere calda a mezzanotte, hanno abitato davvero le anime narrate. Ancora ci vivono. Grazietta è qui in questa casa da spettro, adesso sta suonando il pianoforte. Altro che Sud America! Poi, che io scelga di raccontare ciò, anziché altro certo esistente nell’isola, è una mia predisposizione naturale. Sono identica alle mie creature “magiche”, non posso farci niente. Mi sforzo spesso di essere composta e ragionevole, ma inciampo sui miei stessi piedi.

Ritorniamo alla Sardegna, culla di ottimi scrittori e di una narrativa, di cui spesso anche Radio 3 parla, chiamata narrativa sarda. Potremmo citare alcune scrittrici di successo come la Murgia e la Agus. Dopo l’etichetta “realismo magico”, magari applicata allo scaffale di una libreria, potresti ritrovarti con un’altra etichetta, narrativa sarda. Ti spaventa?

Il mio desiderio sarebbe di non sentire più pronunciare “scrittore sardo”. Non lo si dice per un calabrese, per un toscano  e via dicendo. È vero che l’isola sforna continuamente scrittori di spessore ma ciò non dovrebbe essere considerato motivo di etichetta, anche perché potrebbe essere un’arma a doppio taglio. Cioè relegarci alla Sardegna senza considerarci concreti scrittori italiani o del mondo.

Tu vivi a Oristano, dove hai un ruolo nelle iniziative culturali della tua città. Hai mai pensato di lasciare la tua terra? Di vivere nel continente o all’estero?

Se fossi ricca adorerei viaggiare. Ad oggi, in tutta la mia vita, la sola città visitata all’estero è stata Barcellona. Mi arrabbio molto per questo, ma non sempre gli scrittori campano nel lusso. Qualche volta sono perfino privi del necessario, soprattutto se ostinati quanto me, così innamorata del mio mestiere. Viaggerei, per tornare, dopo, sempre a casa. Non è solo una questione di radici: amo gli alberi che volano. Ho semplicemente la fortuna di vivere in un paradiso, ho delle amicizie alle quali voglio spesso vedere il volto. Lavoro come una matta in mille iniziative culturali, affinché questa piccola città riesca ad essere bella. Qui ho i silenzi giusti per far nascere le mie storie. Credo d’aver avuto fortuna quando caddi dal becco della cicogna.

Il tuo ultimo libro Cenere calda a mezzanotte segna un passaggio decisivo nella tua scrittura, a partire dal titolo e la lunghezza del testo (400 pagine circa, quasi il doppio rispetto ai precedenti). Una domanda sul titolo: è stato immediato o ha richiesto molto tempo?

Il mio ultimo libro è stato il primo scritto, ma ho avuto bisogno di tesserlo a lungo, proprio perché rivelava spudoratamente il colore del mio sangue. Ero schiva a dare a tutti una storia così lunga e complessa. L’ho rivista in continuazione, limando, aggiungendo. Soprattutto aggiungendo, e le pagine non mi sarebbero bastate mai se non avessi deciso che tutto va concluso. Come capita a ogni vita. Il titolo giunge da un passo del romanzo, quando muore un maiale. In origine aveva un titolo che rischiava di condurre al Sud America, e quindi eliminato senza rimpianto alcuno.

Cenere calda a mezzanotte è uscito alla fine del 2013 per i tipi del Maestrale, casa editrice con la quale hai pubblicato tutti i tuoi libri. Com’è nata quest’opera e come si relaziona alle precedenti?

Come è nata. Babbo morì tra le mie braccia un 13 gennaio. Crollai come un vento concluso. Con ossessione e masochismo, nei giorni successivi al lutto, ascoltavo continuamente “Casta Diva” della Callas. Provavo una ingiusta collera nei confronti di mio padre, per l’abbandono. Per la sua ingombrante assenza. Sulle note di “Casta Diva” mi venne naturale scrivere una storia che mi impedisse di dimenticare chi mi aveva tanto amata. Col trascorrere dei mesi cambiai colonna sonora, e nel romanzo giunse la commedia e uccelli ricamati. Anche occhi azzurri. Nessuno osi adesso farsi venire in mente Occhi di cane azzurro di Marquez. Sbaglierebbe, Petronilla aveva davvero gli occhi così. Il romanzo si relaziona ai precedenti solo nella mia assurda maniera di affrontare la scrittura, libera da regole o noiose sintassi. Mai io ho preparato in anticipo uno schema di trama. La gente giunge in visita, così come un amico può suonarmi il campanello all’improvviso.

Infine nei tuoi libri compare anche qualche animale, cani e gatti. Il cane indica spesso il volto della sofferenza, in Undici ad esempio. Nel tuo ultimo romanzo ritroviamo anche un gatto bianco che ha la “capacità di insinuarsi nella mente” di chi lo osserva. Hai animali domestici?

È vero, non ci avevo pensato. Anche in Cenere calda a mezzanotte c’è un “cane negro” che azzanna i ricordi. Oppure i cani innamorati di Rebecca. Spesso sono i lettori a spiegarmi ciò che scrivo. Mi pongono delle domande assai imbarazzanti. Comprendono tutto meglio di me, scema di una narrastorie. Attualmente convivo con tre cani bianchi, sette gatti, una tartaruga d’acqua di 16 anni (ancora un poco e dovrò sistemarla nella vasca da bagno). Ho molti ragni: sono restia alle pulizie in grosso e anche in magro. Preferisco scrivere, sono felice solo svolgendo questo atto. Non cerco l’immortalità per me, ma per le mie creature sì, perché hanno patito molto e meritano un ricordo. Tornando agli animali, ho anche molte conchiglie, e anche se non domandano cibo io ne sento la voce e la vita. Poi ho un cranio di pecora e un cucciolo defunto di manta marina. Nel grande cortile di questa casa ho sepolto tanti piccoli compagni dei miei giorni. Perfino un pesce rosso battezzato Tovagliolo. Certi giorni di delirio vorrei disseppellirli e posarli accanto alla mia collezione di cavalli di legno. Meno male che l’intervista è conclusa: stavo già partendo tra le nuvole.

Una rassegna di poesia contemporanea a Roma

1

Giardini d’inverno

Poesia contemporanea: riconnessa [ritrasmessa] relata

In collaborazione conIvan Schiavone & Cecilia Bello Minciacchi

 

Con: Jolanda Insana

Franco Buffoni

Nanni Balestrini

La rapina del secolo!!!

1

gioiellidi Gianni Biondillo

 

A noi è Hollywood che ci frega. Immaginate la scena: una rapina rocambolesca in una highway della California, colpi di kalashnikov, traffico bloccato da camion in fiamme e chiodi sull’asfalto, il flessibile che scardina il portello del portavalori. Dieci milioni di lingotti d’oro trafugati nel volgere di neppure venti minuti. Roba da film, appunto. Subito ti figuri alla testa della banda criminale uno con l’eleganza di George Clooney, come braccio destro uno con l’espressione ribalda di Brad Pitt. Poi trasferisci tutto a Merate e la cosa si sgonfia. Se ci sono di mezzo rapinatori che si chiamano Antonio o Giuseppe, se vengono da Cologno Monzese o Andria si perde istantaneamente la poesia. Altro che action movie, sembra un poliziottesco di bassa lega, non ostante i giornali abbiamo parlato di far west e di “rapina del secolo” (che, detto fra noi, mi pare un po’ azzardata come dichiarazione, dato che il secolo è appena iniziato).

Non vorrei buttarla in burletta, ad aprile dello scorso anno i ladri avevano fatto davvero un lavoro coi controfiocchi: nessun ferito, nessun incidente grave, il piano aveva funzionato alla perfezione. Roba da orologiai. Bravi i poliziotti insomma, che pazienti non hanno mai perduto le tracce. Ma, diciamocelo, dimenticare un foglietto con indicato un numero di cellulare di un complice proprio nel nascondiglio di Origgio (mica Los Angeles!) sembra una burla. Non siamo più in area poliziottesco, caschiamo nel grottesco spinto, nella commedia all’italiana.

O forse no. Forse siamo nel cuore del noir. Che è una condizione narrativa (ed esistenziale) ben differente dal più consolatorio giallo. Il noir ci dice che qualunque piano, anche il più razionale, geniale, cervellotico, ha sempre una falla. Perché il mondo è più grande, la vita più complicata. Perché le persone sbagliano, spesso in modo ridicolo. Avessi lasciato un indizio del genere in un mio romanzo i lettori non me lo avrebbero mai perdonato. Troppo banale. I lettori di gialli sono viziati, non vogliono essere messi di fronte alla vita, ne vogliono una sua rassicurante sublimazione.

Quindi già me li vedo a fantasticare chissà quale arguto nascondiglio per la refurtiva. Gli inquirenti insistono a dire che neppure i ladri sospettavano un bottino così corposo. Non ho modo di saperlo, di certo tutto quell’oro non è facile smerciarlo, occorre una bella rete di ricettatori, anche oltreconfine. Oro, sia detto per inciso, che è la storia della crisi di questi anni. Il giallista ci vede un bottino, il noirista ci vede famiglie indebitate che vendono le catenine della nonna. È questa la differenza.

Dove stanno i lingotti? In qualche cassetta di sicurezza di chissà quale istituto compiacente? Stipati sotto una montagna di sterco di qualche fattoria della zona? Seppelliti nel cimitero di guerra dei caduti inglesi di Milano? In quale loculo? C’è una mappa del tesoro da qualche parte? C’è una nuova appassionante avventura da raccontare?

Probabilmente la maggior parte della refurtiva è già dispersa. E, per quanto altri complici verranno sicuramente catturati, chi sta dietro, ma dietro per davvero, non lo arresteranno mai. Ché, Brad o Antonio che siano, George o Giuseppe, i ladri, tutti i ladri, sono destinati a perdere, nella realtà prima ancora che nei romanzi, perché non hanno capito la regola fondamentale del capitalismo: per fare soldi non bisogna rapinare le banche. Bisogna fondarle.

(pubblicato ieri su La Provincia di Como)

La mafia come il kitsch uccide solo in salotto

13

di
Francesco Forlani
i
Partiamo da un presupposto. Non credo ( ma ne ho le prove ) che la letteratura, il cinema, l’arte “di qualità” non possa accedere al Grand publique, se non a patto di rinunciare a qualcosa. La storia ci propone moltissimi esempi di invenzioni, sperimentazioni, creazioni, opere in grado di sparigliare le carte in tavola di una pretesa incomunicabilità tra qualità dell’opera e fruizione popolare. In musica, per esempio, abbiamo visto come nel passaggio dall’underground al grande pubblico, molte band non solo non abbiano “perso”, ma a detta di molti ci abbiano perfino guadagnato, e non solamente skei. Mi vengono in mente i Cure, i Talking Heads, Lou Reed ma il discorso può valere per una nutrita compagine che va dalla new wave, passando per il punk fino al reggae di Bob Marley, tanto per capirci. Per quanto riguarda il cinema, più particolarmente quello italiano, esperimenti come La meglio gioventù o il recentissimo La grande bellezza ci dicono che un’opera può valere nonostante il suo successo.
Questa premessa mi è necessaria perché vorrei capire con voi che cosa di due film, che hanno avuto eccellenti critiche e buoni incassi ai botteghini, non mi abbia per nulla convinto. Sto parlando di:

La mafia uccide solo d’estate
di Pif

Un boss in salotto di Luca Miniero

#

“La precondizione del kitsch, una condizione senza la quale il kitsch sarebbe impossibile, è la disponibilità, a portata di mano, di una tradizione culturale pienamente matura, le cui scoperte e conquiste e la cui compiuta autocoscienza il kitsch può sfruttare per i propri fini. Esso infatti prende in prestito da questa trovate, trucchi, stratagemmi, regole empiriche, temi, li trasforma in sistema e scarta il resto. Esso trae la sua linfa vitale, per così dire, da questa scorta di esperienza accumulata.”
( C. Greenberg, “Avanguardia e kitsch”, in Arte e cultura, Allemandi, Torino 1991, pp.17-31 )

showroom_bastille_12Per molti anni, a Parigi, in un percorso obbligato che mi portava dalla Rue de la Roquette alla Place de la Bastille, per poi continuare sul Faubourg St. Antoine, mi capitava di passare un po’ di tempo, il tempo di una sigaretta, davanti alle vetrine di un negozio di mobili il cui nome, Romèo, suggeriva il tono delle cose esposte, la fede incrollabile nell’arte del salotto, di un vero salotto ricco all’inverosimile di marmi e cristalli, porcellane e specchi, in un’esplosione di generi e stili tanto impressionante quanto insostenibile per ogni tipo di sguardo che non fosse protetto da occhiali da sole. Kitsch, appunto, allo stato puro.

Due domande, allora, si ponevano di fronte a quell’inverosimile convivenza di pantere nere  ultralucide con sedie Louis XV, lampadari rococò e tappeti da mille e una notte (possibilmente bianca).  Innanzitutto chi erano gli acquirenti? e la seconda più personale, perché mi attardavo ogni volta davanti a quelle vetrine?

Nella Storia della bruttezza, Umberto Eco dedica al kitsch, nel capitolo XIV, una buona decina di pagine, fornendo una rapida ma efficace sintesi bibliografica che comprende tra gli altri, Schopenhauer, “quando delinea la differenza tra l’artistico e l’interessante, inteso quest’utimo come arte che sollecita i sensi del fruitore.” Concetto, se vogliamo, ripreso da Hermann Broch che alla tecnica dell’effetto – e dell’affetto aggiungeremmo noi- attribuisce le stesse caratteristiche. Scrive infatti: “Il Kitsch. Questa soddisfazione degli impulsi ottenuta con mezzi finiti e razionali, questa patetizzazione del finito ad infinito, questo mirare al “bello”, conferisce al Kitsch un che di falso dietro al quale si intuisce il “male” etico.”

In che modo questa inversione di canone e registro, che si traduce con il “raccontare” cose gravi attraverso un registro da commedia si fa cogliere impreparato rispetto a una domanda che ne interroghi il suo senso più autentico? Il più delle volte la risposta elude quel disagio e spesso si traduce nella reazione stizzita dell’autore ma ancor più del lettore spettatore che quel libro, questo film lo ha amato e che sbotta dicendo: ma in fin dei conti è una commedia!

In modi e obiettivi diversi, La mafia uccide solo d’estate e Un boss in salotto, trattano il tema della criminalità, e lo fanno attraverso un angolo di lettura per certi versi simile, ovvero dell’uomo e della donna qualunque che con ‘sta cosa devono comunque farci i conti. Il nostro immaginario contemporaneo si è nutrito in questi ultimi trentanni di migliaia di narrazioni, per fortuna, ( e per narrazioni intendo di ogni genere, teatrale, letterario, cinematografico) che si proponessero nel bene e nel male un punto di vista, un’analisi, un sentimento, condivisibile o meno che fosse sulla Storiasiamonoi del nostro paese. In particolare Mafia, Camorra, Anni di Piombo, hanno generato fiumi di pagine, polemiche a mezzo stampa, tavole rotonde, portando l’uomo-donna qualunque a sbottare: mo basta però con mafia, camorra, bierre.! Ach du marùn ! In cui risuona l’altrettanto reazione stizzita di molti, in questi nostri meravigliosi anni, quando si parla di deportazione e di shoah.
Così, l’unico modo che rimane di raccontare questo tipo di esperienza a un immaginario già precostituito è di liberare la narrazione da ogni senso del tragico, dell’ineluttabile, sostituire la causa con l’effetto, possibilmente quello di una risata liberatoria .

I due film adottano, in tal senso, strategie molto simili, per esempio nell’organizzazione del montaggio, televisiva, rapida, autosufficiente. Sequenze come capitoli autonomi parcellizzabili e godibili in rete. Quanto le due produzioni fossero legate alla rete si evince anche dalle due “promozioni” in rete dei film. Per Un boss in salotto è stata proposta la diretta streaming delle riprese, il 30 maggio 2013, senza l’utilizzo di filtri né effetti, cosa finora inedita per una produzione cinematografica italiana (wikipedia). E per “La mafia uccide solo d’estate” la produzione di ben 10 clip, trailer del film su youtube e altri social network.

E la sensazione che ho avuto è stata che i trailer, i video clip, fossero i migliori sketch di tutto il film. Come se di una partita di calcio uno vedesse prima la sintesi con i gol e poi la partita tutta intera. Sketch, dicevamo.

Umberto Eco ci racconta come “secondo alcuni la parola kitsch risalirebbe alla seconda metà dell’Ottocento, quando i turisti americani a Monaco, volendo acquistare un quadro, ma a poco prezzo, chiedevano uno schizzo (sketch). Di lì sarebbe venuto il termine per indicare volgare paccottiglia per acquirenti desiderosi di facili esperienze estetiche.”
Questa “partecipazione” alla gravità del tema è più palese in Pif, soprattutto per l’uso delle immagini di repertorio relative agli attentati mafiosi, e quelle sì senza filtri al tragico, però anche in Luca Miniero, il piano sequenza dei veri camorristi che denunciano l’estraneità dello zio (Rocco Papaleo) all’organizzazione citava le famose immagini del maxi processo napoletano.
Ci sarebbero molte cose da dire poi sulla recitazione degli interpreti dove sia che si tratti di prove attoriali ineccepibili come nel caso della commedia di Miniero o di pessimo “gioco” in molti punti del film di Pif ( tecnica di recitazione mediocre come nella maggior parte delle fiction televisive) si avverte come un’inadeguatezza o della storia agli attori o di quest’ultimi alla prima.
Ma torniamo in salotto.
CORRECTION-FRANCE-ART-AUCTIONS
Sempre nel bel libro di Umberto Eco mi imbatto ad un certo punto in una “magnifica” sorpresa.
“Se si accetta la proposta di MacDonald, un buon esempio di midcult sono i ritratti femminili di Boldini, un pittore a cavallo tra XIX e XX secolo, ritrattista di fama, noto presso la buona società della propria epoca come “il pittore delle signore”. I committenti dei suoi ritratti volevano un’opera d’arte che fosse certamente fonte di prestigio ma che celebrasse anche in modo inequivocabile le grazie della signora. A questo scopo, Boldini costruiva i suoi ritratti secondo le migliori regole della provocazione dell’effetto. Se si osservano i suoi ritratti muliebri si nota come il viso e le spalle (le parti scoperte) obbediscano a tutti i canoni di un sensuoso naturalismo. Le labbra di queste donne sono carnose e umide, le carni evocano sensazioni tattili; gli sguardi sono dolci, provocanti, maliziosi o
sognanti, sempre capaci di sedurre lo spettatore. Le donne di Boldini non evocano l’idea astratta della bellezza, non prendono la bellezza muliebre a pretesto per divagazioni plastiche coloristiche; rappresentano quella donna, e al punto tale che lo spettatore è portato a desiderarla.

01Avevo letto da poco, di un appartamento disabitato dagli anni ’40 a Parigi . “Era di proprietà di Madame de Florian , attrice socialista che fuggì verso il sud della Francia durante la seconda guerra mondiale, lasciando tutto intatto, con la speranza di ritornare. Non ritornò mai più a Parigi, ma continuò a pagare l’affitto fino al giorno in cui morì all’età di 91 anni ” leggiamo nell’articolo. E scopriamo come in questo luogo in cui la patina del tempo aveva fissato per sempre un giorno, come in una villa pompeiana, nel salotto viene ritrovata un’opera di Boldini, si proprio il pittore citato da Umberto Eco. “Il dipinto era di Boldini e il soggetto un bella francese che si è rivelata essere l’ex musa dell’artista e la nipote era colei che aveva lasciato l’appartamento disabitato per più di mezzo secolo. La musa era Marthe de Florian , un’attrice con una lunga lista di ammiratori tra cui il primo ministro della Francia, George Clemenceau e lo stesso Boldini .”
02
Era come se il kitsch, qui rappresentato dal ritratto di una musa, potesse vivere attraverso questa sua sospensione temporale, l’autenticità dell’opera d’arte che le era preclusa. Solo il “non tempo”, ovvero il tempo non vissuto e sospeso di quell’appartamento, rendeva giustizia all’amore di un uomo verso una donna.

In conclusione sento di dover rispondere alla domanda che viene spontanea a questo punto: ma i film ti sono piaciuti o no?
Li ho visti, ho riso, mi sono commosso, me li sono, seppure con moderazione, goduti. Come la sigaretta davanti alle vetrine dl Romèo, in Place de la Bastille. Ma soprattutto non ho applaudito alla fine del film di Pif. Come si applaude il pilota al momento dell’atterraggio.

Moby Dick, storie di mare e resistenza

0

testo e foto di Dario Coletti

mare 005Sono in mare in prossimità di Porto Paglia, vicino Gonnesa, imbarcato su un vascello. È il dieci giugno 2010 e compio cinquantuno anni. Respiro profondamente. L’aria è fresca, il sole è tiepido, guardo l’orizzonte e sorrido. Guardo, respiro, sorrido. Sono esattamente dove ho voglia di stare con l’ambizione di fare quello che mi piace, sono io che ho voluto e progettato questo momento. L’ho desiderato tutte le volte che ho attraversato il mare per raggiungere quest’isola o per tornare a casa, ogni volta accompagnato da un’emozione diversa, o spinto da obiettivi e speranze sempre nuovi. Il bello del navigare è che da quando ci si lascia alle spalle la costa, anche di pochi decine di metri, si comincia immediatamente a rievocare storie universali che anche se fantastiche diventano plausibili e ti riconciliano con le motivazioni dei viaggiatori leggendari: Ulisse, Achab, Santiago, il vecchio uomo di mare o il cambusiere Ransome. La distesa dell’azzurro e il ritmo delle onde mi guidano in un altro viaggio, più profondo, in un luogo dell’anima dove tutto si annulla e dov’è possibile riscoprire l’andamento del moto universale. Inizio il mio viaggio nel tempo. Se sono qui nel blu e se respiro avidamente è perché il mio corpo ha bisogno di ossigeno quanto la mia mente di pace.

Tempo: due anni prima. Luogo: una stanza di ospedale con circa quattordici letti. Il protagonista sono io in un doppio ruolo: un primo io è in sospensione magica, intento a osservare un secondo io seduto su una poltrona accanto a un letto disfatto. Delle due presenze, la prima si manifesta come un flusso di energia trasparente, antropomorfa, la seconda ha una consistenza materiale, non sembrano dialogare tra di loro; c’è molta luce ed è tutto bianco in questa camerata. Gli altri abitanti di questo luogo si muovono dentro ai loro letti, lo fanno lentamente, sembrano immersi in un tempo che si chiama attesa. L’io seduto, quello ferito, legge un libro. Sembra che la lettura riesca a placare il dolore, quanto quel liquido trasparente che attraversando un congegno idraulico scorre nel suo sangue. Effettivamente sembra che le avventure dei balenieri riescano a portare la mente dell’io seduto fuori del corpo, a sospingerlo su ignote rotte alla ricerca di verità. A un tratto l’io seduto guarda verso il luogo dell’io sospeso ancora intento a osservare. Quando i due sguardi s’incontrano, una forza prepotente sembra attrarre l’ombra verso il corpo, l’aria verso la terra, fino a farli corrispondere, fino alla fusione. C’è una smorfia sul viso dell’io unificato, mentre nella coscienza affiora la promessa d’intraprendere, se salvo e appena possibile, la vita del mare, sia pur per breve tempo, sia pur solo per fotografare. È questo il pensiero che balugina nella mente dell’io unificato; luccica come il dorso argenteo di questi pesci stesi sul ponte del vascello al sole.

mare 13

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Riemergo dal passato e mi trovo in un’agitazione fatta di movimenti sincronizzati, urla e comandi, un caos che confluisce in un clamore unico, un boato che mi risveglia e ritorno di nuovo pienamente cosciente. In mare. Sapientemente, rispondendo agli ordini di un capo giovane dagli antichi saperi, uomini di mare ritmano il destino di un centinaio di tonni incanalati nelle reti. I tonnarotti a ritmo tirano le funi e chiudono definitivamente ogni via d’uscita a questo banco di tonni, escludendo qualsiasi spazio alla speranza. Urla ritmate e movimenti sincronizzati che caratterizzano l’azione sulla superficie del mare si contrappongono sotto il pelo dell’acqua a disperazione e disordine. Le pinne cominciano ad affiorare, il quadrato di mare che si stringe nella schiuma, emergono dorsi argentati; annaspando pesci di cento, duecento chili tentano di sfondare il perimetro di questa gabbia mortale. Cerco con gli occhi il vecchio rais siciliano dagli occhi chiari di normanno. È sul ponte della barca, lo colgo mentre scruta quel quadrato di mare agitato. L’aspetto è fermo ed eccitato, deciso e compassionevole. Sembra un giovane di 70 anni, consapevole del suo ruolo. Mi appare come un antico cerimoniere. Quando la camera della morte è chiusa, per un attimo tutto si ferma, i tonnarotti stanno immobili ai bordi delle imbarcazioni con rampini e ganci pronti alla raccolta. È un momento solenne che sa di preghiera, di richiesta di perdono per l’eccidio previsto e immanente. Un grido rompe quest’atmosfera, seguito da un clamore di voci. Comincia la mattanza. Le reti affiorano e i primi tonni vengono issati sul ponte. Si dimenano in un ultimo desiderio di vita. A breve tutto è sangue, il mare si colora di rosso, il ponte della barca e tutti noi siamo imbrattati di sostanza vitale.

Gli uomini scattano a un ritmo che ricorda la catena di montaggio: affondano ganci e funi nella vasca e tirano su enormi pesci. C’è eccitazione, esaltata dal clamore delle code che sbattono sulla superficie dell’acqua e sulle murate delle imbarcazioni e dal rosso del sangue che dilaga. Emergendo dal caos infernale che domina la scena, mi appare, come in un sogno, un tonnarotto: è saldamente ancorato sulla murata della nave e aggancia pesci medi e li trascina sulla barca. È la storia di un passaggio, un distacco dal proprio ambiente vitale, inteso come smarrimento, stupore per tutti, per il carnefice e la vittima. È qui che tutti comprendiamo il dolore.

A ogni arrivo, per suggellare la fine della storia, il vice rais affonda il coltello sotto la pinna del tonno a cercarne il cuore. Qualcuno s’immerge nel mare e nel sangue per far durare il meno possibile questa mattanza. L’eccitazione del sangue pervade i sensi, l’istinto è quello di gettarsi in acque limpide per purificarsi, e poi tornare verso la terraferma, pulito dal sangue degli animali sacrificati. Il pensiero è una via d’uscita per allontanarsi dal rumore della morte, per tornare alla normalità del calore del proprio focolare al buon vino bevuto al bar con gli amici di sempre. L’imperativo è allontanare il pensiero della morte.

mare 76

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Non è ancora il rosso e non è più il blu che comanda il pensiero dell’uomo seduto con il libro sulle gambe e gli occhi chiusi. Ora è il bianco della schiuma marina, dei ventri di questi pesci ammassa- ti nelle stive del vascello. È ancora il bianco della balena, simbolo dell’irrefrenabile istinto di libertà, indomito, che diventa vendicati- vo e terribile al solo pensiero di subire limitazioni. È il bianco del mistero che, quando diventa assoluto, quando ci circonda in ogni parte del nostro essere, quand’è fuori e dentro di noi, ci riporta all’immagine del mare bianco, immerso in un’immota nebbia che inghiotte Gordon Pym nel suo ultimo misterioso viaggio.

Ora nello stanzone è sera, l’uomo unificato è nel letto, poggiato su cuscini che lo tengono eretto, il capo all’indietro, gli occhi chiusi, e nella mente oscurata da questo buio cercato si affaccia una frase che sa d’incoscienza: io sono la balena bianca, indomita, se vuoi prendermi morte, fallo, ma non chiedermi il permesso.

Dopo la battaglia, durante il rientro, l’orizzonte blu ci accompa- gna discreto, ipnotico, catartico, conclusivo. Lo osservo, senza mai abbassare lo sguardo, per tutto il tragitto.

Al largo di Portoscuso, 10 giugno 2007

[Dario Coletti è fotografo professionista e coordinatore del Dipartimento di Fotogiornalismo dell’ISFCI a Roma. Il testo e le foto sono tratte da: “Il fotografo e lo sciamano, dialoghi da un metro all’infinito”, Edizioni Postcart, Roma, 2013]

Pier Paolo Pasolini, l’auleta esibizionista

7
(Ringrazio Gian Luca Picconi, che ha trascelto e curato buona parte dei lavori editi e inediti di Corrado Costa apparsi sul numero 52 de il verri, a Costa stesso dedicato, per aver accettato di riguardare e mandare per Nazione Indiana il testo di questo lucido e pungente saggio dell’autore. A.B.)

ccppp

di Corrado Costa

1. Sarà difficile trovare una contrapposizione peggiore al «faut être absolument moderne» di quell’«allusione ad una violenta modernità» che si legge e si deduce da un verso di Pasolini («Menabò» 7, p. 173).
Rimbaud chiedeva ai poeti una collisione con la realtà attraverso l’affermazione dei desideri, «un long, immense et raisonné dérèglement de tous les sens. Toutes les formes d’amour, de souffrance, de folie».
In parole più più recenti e immediate «l’isterica assenza di inibizioni malgrado tutte le angosce immaginabili, il narcisismo spinto ai limiti della paranoia» di cui parla Adorno.
P. sembra codificare ancora una volta la sublimazione delle inibizioni, la «filistea economia degli istinti, secondo la quale i figli privilegiati della rinuncia si scaricano in sinfonie e romanzi».
Invece di una poesia moderna, ostile, indesiderata, P., con la sua formula, ottiene una elaborazione poetica che non si sottrae alla psicologia del poeta; una poesia che non riesce a mordere la realtà ma che, tutt’al più, si mangia la coda come una serpe miope ed edonista.
L’«allusione a una violenta modernità» è la bandiera sotto la quale passano merci contrabbandiere: l’estetismo che ha bisogno di una moralità populista, l’allucinazione in cambio dell’espressione, l’emozione soggettiva che tende a sostituirsi in modo illusorio allo strapotere della realtà.
2. Per esemplificare in che modo si possa essere assolutamente moderni alludendo ad una violenta modernità basterà esaminare due testi di P., forniti dai due ultimi «Menabò», sei e sette: Le belle bandiere e gli Appunti per un poema popolare.
3. Per una prima prova il terzo elemento della «Tabella dei sintomi» di Benn è certamente il più semplice: basta sottoporre i testi alla «scala cromatica», cioè «osservare quante volte nei versi si parla di colori: rosso purpureo opalino argenteo bruno verde arancione grigio dorato; con ciò l’autore evidentemente suppone di suscitare un’impressione di lussureggiante fantasia, ma non si avvede che questi colori non sono altro che clichés di parole».
Ecco, dai due testi, un abbozzo di scala cromatica pasoliniana:
Bianco, biancore: il sole trionfante; il sole vero; i muri delle fabbriche; la polvere (nei pomeriggi secchi, quando il giorno prima è un poco piovuto); gli stracci di lana; le giacchettacce; i calzoni sfilacciati (degli operai che avrebbero potuto essere ancora partigiani); la calma della nuova primavera; quel qualcosa; il sole nel sonno gioiosamente romantico; la luce delle mattonelle dilavate; le striscie di cuoio leggerissime, tutte infangate; gli anni sessanta.
Verde, verde menta, verde da scalfire la cornea: i pini; le scarpate; i ciuffi di palme; i praticelli.
Verde bottiglia: il Lazio.
Malva e fragola: il caos edilizio.
Carnicino: la periferia.
Bruno: le prospettive adagiate nello spazio; il rosso (quando è immerso in un’aria di caldo temporale).
Azzurro: i grani del mare.
Rosa: le rovine.
Biondo: il dolore di Elsa.
Quanto al rosso la gamma è così ampia e nutrita di gradazioni da dover tentare un’apposita scala:
Rosso, rosso quasi marrone: meli, ciliegi;
Rosso brunito: prugne, susine;
Rosso vero: bandiere rosse; il viso del ragazzo (che fa del viso una triste, silenziosa bandiera);
Rosso sanguigno: il ghigno della faccia da ubriaco; le sciallette; gli anni quaranta.
A prima vista si sarebbe tentati di pensare che tutti questi colori siano agganciati ai sostantivi e agli aggettivi come veri e propri clichés di parole, illustrativi e amplificatori, senonché non possiamo dimenticare che:
a) tutta la poesia Le belle bandiere è costruita su una visione pittorico-coloristica: il P. avverte una visione di bianco sole trionfante (la gente è al lavoro, il poeta è a letto) sogna il mare-madre, il mare-utero dalle lente ondate di grani azzurri. Il biancore del sole si comunica per metafora al biancore degli anni sessanta. Il poeta è solo. L’azzurro sgretola anche la fede negli anni cinquanta. Restano solo gli amori, la mano sul gonfiore tiepido. Ma ecco, da questa situazione di complessi denunciati e rimossi, la colorita sublimazione: con il lavoro il bianco diventa rosso e il rosso acquista tutte le sue gradazioni, fino al rosso vero: la fede degli anni quaranta delle belle bandiere;
b) i personaggi degli «appunti» sono costruiti con il medesimo apparato simbolico-coloristico: «A riccé» ha le gambe col lungo, leggero e castigato calzone domenicale, incrociate, e il grembo, così casto dentro quel calzone senza una ombra nel grigio, un po’ spinto in avanti, abbandonato come sta con le spalle allo stipite e il torace sottile inguantato in un maglione di lana nera, che agli orli dei polsi e del collo è filettato di rosso. Il viso di un bruno cinereo… la nudità quasi febbricitante della pelle sugli zigomi e della luce nera e asciutta degli occhi.
«Lo zoppo»: trascina le stampelle che tiene sempre a portata di mano… La sua faccia di ubriaco ha un ghigno fisso, rossiccio.
«La gente in tram»: ognuno nei suoi contorni, impiegati e operai, coi cappotti noiset o grigi… striscie rosse di sciallette attorno al collo.
Se ne deduce che questi grigi, neri, rossi, bruni, non sono soltanto clichés di parole e non sono solo didascalie da giornale illustrato di moda per presentare lo stile sottoproletario. Sono un modo di esprimersi attraverso la nobilitazione del linguaggio, un altro «stile sublime» per evitare «le bassure del realismo imitatore a costo di impiegare i colori più stridenti».
4. C’è un precedente nella poesia italiana. Una osservazione simile a quella che viene voglia di fare (Thovez, Il pastore, il gregge e la zampogna, p. 156) a proposito di D’Annunzio: «La visione pittorica si esteriorizza nell’ostentazione da parvenu della terminologia da dilettante pittore, di quel grossolano e violento impressionismo michettiano fiorente in quegli anni».
«Fuor della muraglia su l’indaco chiaro del cielo / canta la nota verde di un bel limone in fiore».
Non parrebbe arbitrario sostituire nel testo a «impressionismo michettiano» «espressionismo guttusiano»: l’allusione alla violenta modernità si realizza in D’Annunzio con la resa parlata del gusto michettiano (artista di successo), avviene oggi in P. con la resa parlata del gusto guttusiano (artista di successo). Se Guttuso è moderno, imitare Guttuso in poesia è certamente un modo di apparire moderno.
Ma la fonte da cui deriva la compiaciuta raffinatezza di colori, il gusto mistificatorio di certe lambiccate precisazioni quali «il loro colore rosso / aveva una brunitura, come / se fosse immerso in un’aria di caldo temporale / un rosso quasi marrone», deriva da certe nature morte di Guttuso o non piuttosto va ricercata in quel repertorio relativo al color «fulvo» di D’Annunzio «simile al rame dorato che si sdora»? (Forse che sì, p. 35).
Il ragazzo che stringe la maniglia del tram negli «appunti» più che discendere da uno scoglio siciliano non discende dalla prora di qualche nave della Laus vitae? «Non tale era Achille sul punto / di partire da Sciro / e Patroclo Actòride prima / che gli omeri suoi rivestisse / l’armi funeste»?
Vediamo. I versi : «ogni elegante straccio / (dai calzoni stretti alla caviglia / alla maglia rossa e la scialletta / corrotta) era una frase di pregio / leggero fuoco che si apprendeva / nella carne» non potrebbero continuare così: «e vidi in carne verace / la gioventù sovrumana (…) irraggiare / lo spazio con lo splendore / d’una nudità»? Non è lo stesso giovinetto quello «gonfio di ossa di nervi di vene di muscoli e di tutta / la potenza carnale» e quello i cui «panni e le linee del corpo / della borgata avevano il puro / bruciore, l’allusione a una violenta / modernità, la freschezza incallita»?
Vogliamo sollevare una questione di fonti? Non pare. Si vuol solo dimostrare che l’eloquenza borghese continua a produrre i suoi «artisti visivi».
5. Per una seconda prova, sempre per giungere a un giudizio autonomo e per esemplificare come P. voglia parere e non sia artista moderno, serviamoci ancora una volta delle categorie di Benn.
Il quarto elemento che ci suggerisce è il tono serafico.
«Il grande poeta – dice a tale proposito – è un grande realista, vicinissimo a tutte le realtà, egli si carica di realtà, è molto terreno, come cicala nata, secondo la leggenda, dalla terra, insetto ateniese.
Distribuirà i toni esoterici e serafici, con infinita cautela, su dure basi realistiche. E poi osservate la parola “ripida”, ecco uno che vuole arrivare in alto e non ce la fa a salire».
Abbiamo già visto come i colori servano a rendere il linguaggio pasoliniano sublime e inconsueto, quindi esteriore e falsamente realistico, cerchiamo di vedere come P. si carichi di realtà.
1º esempio di tono serafico: P., come D’Annunzio, come gli Arcadi scientifici italiani, come i simbolisti, ha paura della parola che abbia suono consueto. Evita la parola goffa, di basso conio realistico, quella che nessun colore nobiliterebbe.
Quando D’Annunzio parla del tram, dice: «il carro che non ha timone / né giogo, e non corsieri /  splendenti di sangue e di schiuma / cui protesa l’onta soggiace / ma rapidità senz’acume che bassa scivola, inerme / tra la ferrea fune sospesa / e il duplice ferro seguace». Senza essere andato a consultare il Petit Glossaire pour servir à l’intelligence des auteurs décadents et symbolistes di J. Plowert, P. risolve il problema «tram» con una omissione.
Il suo linguaggio diventa ben più misterioso, nobile ed esoterico di quello dannunziano. Leggete:
«Stringe in silenzio la canna della maniglia, in equilibrio facile, per lui, ragazzo del popolo. Ma anche gli altri intorno a lui, nel 9, non sono scossi dalla corsa: concentrati ognuno nei suoi contorni» – come gli Argonauti.
Poco dopo questo 9 cristallino diventa simbolo orfico, principio di pensiero mistico, sottilmente rimato: la prosa e le rime sono di P., la scansione nostra, il finalino pseudo-dannunziano:

È già quasi notte, piove
si è in novembre o dicembre
gocce rade e plumbee
scivolano sui vetri del 9
…………………………………
piove sui vetri del 9
o fanciullo che hai nome
Ermione.

2º esempio di tono serafico: in P. come in D’Annunzio i corpi emanano luce. I personaggi ci appaiono circondati da un misterioso alone, aureolati come l’angelo Gabriele, secondo la ricetta di Shelley per rendere «la melodiosa tinta della bellezza».
Nelle Laudi (vv. 6918-29) le gioventù sovrumane irraggiano lo spazio con lo splendore: una sola aureola bastava. A P. no, ne occorrono infinite: il ragazzo del numero 9, in equilibrio facile, ha sopra di sé, nell’ordine:
1) Vivo fuori di lui, su lui, il gioco / incompreso della bellezza e della / miseria
2) il leggero fuoco che si apprendeva nella carne di chi non vivesse / la febbre giovanile della borgata
3) la febbre che lo vestiva e dava / quel modo di arcuarsi alle sue spalle / ai suoi tersi fianchi…
4) i suoi colori
5) le linee del suo corpo
6) il vuoto della miseria:
quanto mallo occorre levare per arrivare alla non inconsueta metafora ragazzo-agnello, di puro sapore serafico!
La gioia ignita di Demofoonte, la fioca febbre del pastore ungarettiano, gli smalti di Guttuso… come direbbe Milosz? per il ragazzo del proletariato italiano, che patria desolata!
6. Si tratta della riproposta d’un linguaggio neo-dannunziano, unico forse possibile a rendere in versi i fasti il turgore lo empito fasullo d’un determinato gusto guttusiano che affascina questo «artista visivo»? Si tratta di un repertorio decadente ancora necessario in un certo mercato, in una certa ipotesi di consumo, come pare annotare Sanguineti? Bisogna essere più precisi: al fondo di queste inutili invocazioni ai colori e alle bandiere l’adusato cliché tende a ripetersi liturgicamente. Produce una poesia a livello iterativo, gonfia l’espressione, la rende monotona; enumera litanie del tipo: «il tuo rosso sarà il rosso, il rosso dell’operaio / e il rosso del poeta, il solo rosso / che vorrà dire realtà» (da: Il rosso di Guttuso).
Che significato ha, questo apparato versificatorio:
– con l’abuso delle note coloristiche (per mascherare la propria mancanza di fantasia) prese a prestito da una esemplificazione pittorica di facile gusto corrente;
– con una raffigurazione a linee e contorni che cerca di produrre una fortissima impressione sui sensi.
– con un continuo indebolimento di ogni lato umano, obiettivo, razionale, a favore di una esaltazione del sensibile e del misterico;
– con un repertorio di ectoplasmi, di personaggi medianici evocati dalle tenebre al solo fine di proiettare su essi «il riflesso di una pietà più alta che scoppia sulle cose come una musica a rivelare i loro significati e le loro forme»
se non di nascondere quell’atteggiamento – già denunciato da Anceschi in D’Annunzio – che «sembra» voler spezzare ogni vincolo ma che invece è la spia «di non so che immaturità umana»?
In effetti al fondo di questi schemi e di questa versificazione torniamo a ritrovare una dolente strada del rifugio, una ulteriore variante della poetica del fanciullino – questa volta in chiave masturbatoria – il cui referente di significazione oggi non va a connettere più con nessuna situazione di cultura.
P. crede di essere moderno, perché tenta di fare quadrare la teoria freudiana nella propria poesia: crede poiché esprime senza censura i propri complessi di poterli considerare rimossi.
Non si accorge che tale rimozione rappresenta una rinuncia e la sua libertà espressiva non è altro che una sublimazione della rinuncia.
Uno che scrive: «in me, un bambino muto si spaventa / e chiede pietà e si affanna a correre ai ripari / … chi deve aggrapparsi alle falde delle vesti altrui / si aggrappa, e le tira, e le tira / perché si voltino quelle facce colore di fango / e lo guardino negli occhi terrorizzati / per informarsi della sua tragedia / per capire quanto sia spaventoso il suo stato» non ha certamente rimosso i propri complessi, anche se cerca di sublimarli in qualche modo, nei miti della speranza e dell’epoca futura: le «migliaia di gesti sacri» che affollano la sua solitudine «attendono – in effetti – che una nuova ondata d razionalità, o un sogno fatto nel fondo di un sogno, ne parli».
Hanno bisogno delle parole «per essere scaricati in sinfonie e romanzi»: abbiamo così una produzione che – per essere deviata dal confessionale – può certamente risultare «socialmente desiderabile», ma che per la cultura è indifferente, non portandole alcuna contestazione, e alla poesia è estranea, non essendo il materiale versificato sottratto alla psicologia e consegnato alle manifestazioni polemiche della realtà.
Di tali intenzioni poetiche sono lastricate le vie che conducono alle confessioni e all’inferno degli atti di fede: vedremo in futuro per quale culto della vergine P., auleta esibizionista, ha raccolto nel sottobosco degli apporti libidinosi, i suoi allusivi fiori.

Pier Paolo Pasolini, l’auleta esibizionista è comparso per la prima volta in «malebolge», I, 1, 1964, pp. 45-48, e successivamente in «il verri», 52, giugno 2013, pp. 20-26. La versione di «malebolge» recava, al secondo capoverso, un vistoso esempio di pesce tipografico: «Rimbaud chiedeva ai poeti una collisione con la realtà attraverso l’affermazione peggiore al faut être absolument raisonné dérèglement de tous les sens», qui emendato in «Rimbaud chiedeva ai poeti una collisione con la realtà attraverso l’affermazione dei desideri, «un long, immense e[t] raisonné dérèglement de tous les sens», attraverso una verifica sul manoscritto (conservato presso il fondo «Costa» della Biblioteca Panizzi, ACC 95), per cui è doveroso rivolgere un sentito ringraziamento a Chiara Panizzi.

I Bullshit Jobs e l’Avvelenata

11

Opera_Nazionale_Dopolavoro
di
Francesco Forlani

Diciamo la verità, quale genitore oggi direbbe a un figlio di pensare alla pensione? Pensioni? Cosa? Nemmeno alberghi, se è per questo. Quale cantante scriverebbe, in un’Avvelenata tutta contemporanea, che un laureato conta più d’un cantante? Eccoci allora a quarantanni e via calando, ad agitare le torbide acque dell’economia globale, sfogliarne il libro paga dei mestieri due punto zero per capire a quale voce appartenga la nostra e finalmente determinare una volta e per tutte quanto costi e dunque implicitamente quanto valga il nostro darci da fare qui giù.

Quando ho letto il dossier pubblicato su Marianne, settimanale di informazione francese a metà strada tra il Fatto e il Foglio,(sic) Le blues des intellos précaires, mi sono detto che una cosa era chiara; all’economia contemporanea non corrisponde più una morale in grado di interpretare i cambiamenti in atto da decenni e che coinvolge innanzitutto le nostre vite, soprattutto delle generazioni dagli anni settanta in poi.


A parte la traduzione del titolo, che andrebbe cambiato, almeno nel genere musicale, visto che più di Blues, in Italia per il mondo del lavoro “immateriale” si dovrebbe parlare di tarantelle è un dossier che affronta alcune questioni nuove, come per esempio il ritorno alla manualità e a lavori che impegnino tutto tranne che la mente, come se dopo anni di proletarizzazione dei mestieri intellettuali, gli intellettuali preferiscano dedicarsi ad attività tradizionalmente proletarie.

In definitiva, l’impressione che ho, è che perfino il paradigma “precario” sembra precarizzato dalle trasformazioni in atto della società e mi chiedo se quanto sia stato scritto in questi ultimi dieci anni in Italia, sulla precarietà, sia ancora valido. Qualcosa è cambiato, anzi molte cose e forse sarebbe bene che ne avessimo tutti maggiore consapevolezza. Un posto fisso? Nel dossier si fa riferimento anche a quest’ articolo di David Graeber, a dir poco illuminante, apparso prima su una rivista anarchica Strike Magazine e poi ripreso in Italia su Internazionale .Questa è la versione italiana leggibile via Le vide papier. (effeffe)

Il secolo del lavoro stupido
di David Graeber

Nel 1930, John Maynard Keynes prevedeva che entro la fine del secolo la tecnologia sarebbe progredita abbastanza da permettere a paesi come il Regno Unito o gli Stati Uniti di approdare alla settimana lavorativa di quindici ore. Aveva ragione: in termini di tecnologia, saremmo perfettamente in grado di riuscirci. Eppure non è ancora successo. Anzi, semmai la tecnologia è stata arruolata per inventare nuovi modi di farci lavorare tutti di più. A tale scopo sono stati creati lavori che sono di fatto inutili. Enormi schiere di persone, soprattutto in Europa e Nordamerica, trascorrono tutta la loro vita professionale eseguendo compiti che segretamente ritengono inutili. I danni morali e spirituali che derivano da questa situazione sono profondi. È una cicatrice sulla nostra coscienza collettiva. Eppure non ne parla praticamente nessuno. Perché l’utopia promessa da Keynes non si è mai materializzata? La spiegazione standard è che Keynes non aveva preventivato la mole dell’incremento del consumismo. Messi davanti alla scelta tra meno ore di lavoro e più giocattoli e piaceri, abbiamo collettivamente scelto i secondi. Il che porterebbe con sé anche una morale simpatica, non fosse che basta riflettere un attimo per capire che non può essere così.

È vero, dagli anni venti in poi abbiamo assistito alla creazione di un’infinità di nuovi lavori e industrie, ma sono pochissimi quelli che hanno a che vedere con la produzione e la distribuzione di sushi, iPhone o scarpe da ginnastica costose. Allora cosa sono esattamente questi nuovi lavori? Un recente studio che confronta l’occupazione negli Stati Uniti tra il 1910 e il 2000 ci fornisce un’immagine chiara. Durante il secolo scorso, il numero di lavoratori impiegati come domestici, nel settore industriale e in quello agricolo è crollato. Parallelamente, “le libere professioni, i lavori dirigenziali, d’ufficio, di vendita e di servizio” sono triplicati, passando da un quarto degli impieghi complessivi a tre quarti. In altre parole, i lavori produttivi, esattamente come previsto, sono stati in gran parte sostituiti dall’automazione (anche calcolando il numero di lavoratori industriali a livello mondiale, comprese le masse che sgobbano in India e in Cina, questi lavoratori non rappresentano neppure alla lontana la stessa percentuale di popolazione mondiale di una volta).

Ma anziché consentire una significativa riduzione delle ore di lavoro per rendere la popolazione mondiale libera di dedicarsi ai propri progetti, piaceri e idee, abbiamo assistito all’esplosione non tanto del settore dei “servizi”, quanto di quello amministrativo, arrivando a comprendere la creazione di intere nuove industrie come quella dei servizi finanziari o del telemarketing, o l’espansione senza precedenti di settori come quello giuridico-aziendale, accademico, della amministrazione sanitaria, delle risorse umane e delle pubbliche relazioni. E questi numeri non omprendono tutte quelle persone che per lavoro forniscono a queste industrie assistenza amministrativa, tecnica o relativa alla sicurezza, né – se è per questo – l’esercito di attività secondarie (come i toelettatori di cani o i fattorini che consegnano pizze tutta la notte) che esistono soltanto perché le altre persone passano tanto tempo a lavorare in tutte le altre.Sono mestieri che propongo di definire “lavori stupidi”.

È come se esistesse qualcuno che inventa lavori inutili solo per farci continuare a lavorare. E proprio qui sta il mistero: nel capitalismo, questo è esattamente quel che non dovrebbe succedere. Certo, nei vecchi stati socialisti inefficienti come l’Unione Sovietica, dove il lavoro era considerato insieme un diritto e un sacro dovere, il sistema si occupava di inventare tutti i lavori necessari (ecco perché nei grandi magazzini sovietici ci volevano tre commessi per vendere un pezzo di carne). Ma questo, naturalmente, è proprio il genere di problema che la concorrenza di mercato dovrebbe correggere. Secondo le teorie economiche, perlomeno, l’ultima cosa che deve fare un’azienda desiderosa di profitti è sborsare soldi a lavoratori di cui non ha davvero bisogno. Eppure, non si sa perché, succede lo stesso.

È vero, le grandi aziende operano spesso tagli spietati, ma licenziamenti e prepensionamenti colpiscono immancabilmente la classe delle persone che fabbricano, spostano, riparano e mantengono in funzione le cose. Per una strana alchimia che nessuno sa davvero spiegare, ultimamente il numero di passacarte salariati sembra aumentare, e sempre più lavoratori dipendenti si ritrovano, un po’ come i sovietici di una volta, a lavorare in teoria quaranta se non cinquanta ore alla settimana, ma lavorandone di fatto quindici proprio come previsto da Keynes, perché il resto del loro tempo serve per organizzare o partecipare a seminari motivazionali, aggiornare i profili facebook o scaricare roba. Chiaramente la spiegazione non è economica: è morale e politica. La classe dirigente si è resa conto che una popolazione felice, produttiva e con del tempo libero a disposizione è un pericolo mortale (pensate a quel che è cominciato a succedere quando negli anni sessanta ci si è avvicinati a una vaga approssimazione di questa cosa). E d’altra parte, l’idea che il lavoro sia un valore morale in sé, e che chiunque non desideri sottomettersi a un’intensa disciplina lavorativa per la maggior parte delle sue ore di veglia non meriti niente, torna straordinariamente comoda a molti.

Una volta, riflettendo sulla crescita apparentemente infinita degli incarichi amministrativi nei dipartimenti accademici britannici, mi è venuta in mente una possibile visione dell’inferno. L’inferno è un insieme di individui che passano il loro tempo a svolgere un compito che non amano e nel quale non sono particolarmente bravi. Per esempio, sono stati assunti perché bravissimi a fabbricare mobili, dopodiché scoprono di dover passare un sacco di tempo a friggere pesce. E nemmeno quello è un compito necessario: c’è solo un certo numero molto limitato di pesci che vanno fritti. Eppure tutti questi individui sono così ossessionati dall’idea che qualche collega possa passare più tempo di loro a fabbricare mobili, senza sobbarcarsi la sua quota di dovere nella frittura del pesce, che presto nel laboratorio si accumulano innumerevoli montagne di pesce inutile e mal cotto, e nessuno fa nient’altro.
A dire il vero, questa mi sembra una descrizione piuttosto precisa delle dinamiche morali che governano la nostra economia.
Mi rendo conto che simili argomenti possono suscitare alcune obiezioni, tipo: “Chi sei tu per stabilire quali lavori siano necessari? Ma poi cosa vuol dire necessario? Tu che insegni antropologia, che necessità soddisfi?” (in effetti un sacco di persone considererebbero l’esistenza del mio lavoro come la definizione stessa di “spesa sociale inutile”). Da un certo punto di vista, questo è ovviamente vero. Non esiste un modo per misurare oggettivamente il valore sociale.

Non avrei mai la presunzione di dire a una persona convinta di dare un contributo importante al mondo che, sotto sotto, non lo dà. Ma come la mettiamo con le persone convinte di fare un lavoro stupido? Qualche tempo fa ho riallacciato i contatti con un compagno di scuola che non vedevo da quando avevamo dodici anni. Mi ha sbalordito scoprire che nel frattempo lui era diventato prima un poeta, poi il cantante di un gruppo rock alternativo. Avevo sentito alcune sue canzoni, senza avere la minima idea di conoscere il cantante. È chiaramente una persona brillante, innovativa, il cui lavoro ha indiscutibilmente ravvivato e migliorato la vita di tante persone in tutto il mondo. Ciò nonostante, dopo un paio di album andati male, ha perso il suo contratto discografico e, sommerso dai debiti e con una figlia appena nata, ha finito, sono parole sue, per “imboccare la strada che sceglie in automatico tanta gente che non sa dove andare: la facoltà di giurisprudenza”. Oggi lavora come avvocato aziendale per un importante studio di New York. Lui per primo ammette di fare un lavoro del tutto privo di senso, che non fornisce nessun contributo al mondo e che, secondo lui, in realtà non dovrebbe esistere.

A questo punto ci si potrebbero fare tante domande, cominciando da: che cosa dice della nostra società il fatto che riesca a generare una domanda estremamente limitata di poeti-musicisti talentuosi, a fronte di una domanda apparentemente infinita di specialisti in diritto aziendale? (Risposta: se la maggior parte della ricchezza disponibile la controlla l’1 per cento della popolazione, allora quello che definiamo “mercato” riletterà ciò che loro, e nessun altro, considerano utile o importante). Ma ancor di più dimostra che di solito chi fa questi lavori alla in fine si rende conto che sono stupidi. Anzi, credo di non aver mai conosciuto un avvocato aziendale che non pensasse di fare un lavoro stupido. Lo stesso vale per quasi tutte le nuove industrie descritte poco sopra. Esiste un’intera classe di lavoratori salariati che, se li incontri a una festa e ammetti di fare un mestiere considerato interessante (l’antropologo, per esempio), si rifiuta anche soltanto di dirti che lavoro fa. Fategli bere due o tre drink, e si lanceranno in vere e proprie tirate su quanto inutile e stupido sia in realtà il loro lavoro.

Stiamo parlando di una violenza psicologica profonda. Come si può anche solo cominciare a parlare di dignità del lavoro, quando in cuor suo una persona ritiene che il proprio lavoro non debba esistere? Come può un fatto del genere non creare una rabbia e un risentimento profondi? Tuttavia, il talento tutto particolare della nostra società sta nel fatto che i suoi governanti hanno escogitato un modo, come nel caso dei friggitori di pesce, per garantire che questa rabbia venga indirizzata contro chi invece fa un lavoro sensato. Per esempio: nella nostra società sembra vigere una regola generale per cui più l lavoro di un individuo giova palesemente ad altre persone, minori sono le probabilità che questo lavoro venga pagato. Ripeto, è difficile individuare un parametro di misurazione oggettivo, ma per farsi un’idea basta semplicemente chiedersi: che succederebbe se quest’intera classe di persone scomparisse? Dite quel che volete di infermieri, spazzini e meccanici: è palese che, se dovessero sparire in una nuvola di fumo, gli effetti sarebbero immediati e catastrofici. Un mondo senza insegnanti e scaricatori di porto finirebbe presto nei guai, e anche un mondo senza scrittori di fantascienza o musicisti ska sarebbe evidentemente peggiore. Non è però del tutto chiaro in che modo l’umanità soffrirebbe se dovessero svanire allo stesso modo tutti gli amministratori delegati di società d’investimenti, i lobbisti, gli addetti alle pubbliche relazioni, gli analisti assicurativi, i lavoratori del telemarketing, gli ufficiali giudiziari o i consulenti legali (molti sospettano che potrebbe significativamente migliorare). Eppure, fatta salva una manciata di stimatissime eccezioni (i medici), la regola resiste sorprendentemente bene.

Cosa ancor più perversa, sembra circolare la difusa convinzione che sia giusto così. Ecco qual è uno dei punti di forza segreti dei populisti di destra. Lo si vede quando fomentano il rancore contro i dipendenti della metropolitana che paralizzano Londra per il rinnovo del contratto: il fatto stesso che i dipendenti della metropolitana siano in grado di paralizzare Londra è la riprova che il loro lavoro è necessario, ma a infastidire la gente sembra sia proprio questo. È ancora più evidente negli Stati Uniti, dove i repubblicani stanno riuscendo con molto successo a mobilitare il risentimento contro gli insegnanti o contro gli operai dell’industria dell’automobile (e non, dettaglio significativo, contro chi amministra le scuole o contro i dirigenti che crea no i problemi) a causa di stipendi e benefit che sembrano eccessivi. È come se gli stessero dicendo: “Ma voi insegnate ai bambini! O costruite le macchine! Fate dei lavori veri! E avete anche la faccia tosta di aspettarvi delle pensioni e un’assistenza sanitaria da classe media?”.
Se qualcuno avesse progettato un sistema del lavoro fatto su misura per salvaguardare il potere del capitale, non avrebbe potuto riuscirci meglio. I lavoratori veri, quelli produttivi, vengono spremuti e sfruttati implacabilmente. Gli altri si dividono tra un atterrito strato di disoccupati, disprezzato da tutti, e un più ampio strato di persone che in pratica vengono pagate per non fare nulla, e che ricoprono incarichi progettati per farle identificare con i punti di vista e le sensibilità della classe dirigente (manager, amministratori eccetera) – in particolare con le loro personificazioni economiche – ma che al tempo stesso covano un segreto rancore nei confronti di chiunque faccia un lavoro provvisto di un chiaro e innegabile valore sociale. Non è un sistema progettato in modo conscio: è emerso da quasi un secolo di tentativi empirici. Ma è anche l’unica spiegazione del perché, nonostante le nostre capacità tecnologiche, non lavoriamo tutti quanti solo tre o quattro ore al giorno.

L’ULTIMA RACCONTA (ancora dallo Zibaldone Norvegico)

1

di Luigi Di Ruscio

Mi hanno pubblicato l’ultima raccolta. Non sono all’altezza per sostenere tutto questo casino. La cosa è superiore alle mie forze, oltre alla mancanza di coraggio morale subentra anche la mancanza di coraggio morale. Non al punto di chiedere scusa, perché in tutti i casi non meritate di meglio. Uno sta a casa lontano da tutto scrive tutto quello che gli passa in testa e poi quando la cosa riesce stranamente a diventare pubblica uno si mette paura. Vivo in un mondo in cui la lingua italiana è incognita. La dissociazione tra quello che scrivo e quello che il pubblico si aspetta è enorme. L’ipotetico lettore è lontanissimo, siamo distanti più di duemila chilometri e c’è anche una distanza umana, qui sono tutti luterani, i classici scandinavi non sono certo Pascoli e Carducci ma Ibsen e Kierkegaard e Strindberg. Il lettore si aspetta “belle lettere” ed invece il lettore riceve delle belle lettere cartate di merda in faccia. Il non aver frequentato le scuole dove per prima cosa per prendere voti buoni bisogna scrivere quello che fa piacere al professore, quindi lo scrivere diventa un aspetto della socialità, il sottoscritto avendo frequentato solo cinque classi delle elementari e avendo sempre preso voti bruttissimi e ripetuto diverse classi non è stato capace di una scrittura come uno degli aspetti del sociale dove vengono scritti e recepiti messaggi che non sono affatto in disarmonia tra lo scrittore e il ricevente, cioè il lettore. Nel caso del sottoscritto si instaura una specie di confrontazione e provocazione tra il sottoscritto e il lettore. In un saggio di Elia su Mozart viene costatata una tragica dissociazione,
il pubblico della musica in quel periodo era la corte e l’aristocrazia invece la musica di Mozart era quella del mondo che sarebbe nato con la rivoluzione francese. Quindi da una parte il comico ciò l’irrisione per i valori dominanti e dall’altra parte l’angoscia di non avere più committenti, essere tagliati fuori.

[anche quest’altro testo di Di Ruscio, come il precedente, fa parte dello “Zibaldone Norvegico”, in uscita da Luigi Pellegrini Editore, collana “Itaca Itaca” con una prefazione di Angelo Ferracuti e una nota finale di Mauro F. Minervino; il delizioso errore dell’autore nel titolo è stato mantenuto dall’editore]

cop_collana1

 

New Objectivists / Nouveaux Objectivistes / Nuovi Oggettivisti

2

nuovi_oggettivisti_ A documentazione e approfondimento del convegno internazionale di studi Nuovi Oggettivismi / New Objectivisms / Nouveaux Objectivismes (Institut Français / Università RomaTre, 17-18 maggio 2012)

esce per Loffredo Editore il volume
New Objectivists – Nouveaux Objectivistes – Nuovi Oggettivisti
http://goo.gl/dhV7d8

Qui l’indice dei contenuti, e l’introduzione di Cristina Giorcelli :
http://www.loffredo.it/ecomm2/file/1387186986-intgio.pdf

testi di:

Cristina Giorcelli, Bob Perelman, Rachel Blau DuPlessis, Noura Wedell, Maria Anita Stefanelli, Luigi Magno, Geneviève Cohen-Cheminet, Benoît Auclerc, Jean-Marie Gleize, Annalisa Bertoni, Jean-Jacques Poucel, Cecilia Bello Minciacchi, Antonio Loreto, Marco Giovenale, Michele Zaffarano, Massimiliano Manganelli, Alessandro De Francesco, Giulio Marzaioli

dalla quarta di copertina:

With this volume we wish to explore the reasons why the French and Italian poets who have adhered to the Modernist aesthetic theory of revivifying contemporary verse by drawing new strength from alien sources, have turned towards the Objectivists – so idiosyncratic in their own land!

Si on se penche en diachronie sur la question, il apparaît que la découverte (ou redécouverte) en France des poètes Objectivistes américains (Louis Zukofsky, Charles Reznikoff, George Oppen, Carl Rakosi…) représente indéniablement un moment de rupture épistémique très fort.

Non si tratta per i nuovi Oggettivisti di chiosare, glossare, commentare, descrivere, ma proprio di numerare, misurare, quantificare, sotto gli obblighi di una sorta di coazione a contare che sembra riportare la scrittura alla sua origine contabile e mercantile.

§

[ il dépliant del convegno del 2012 è leggibile qui: http://goo.gl/gRGUJB ]

I libri faranno una brutta fine

61

[Questo intervento è uscito oggi su AlfaDomenica, supplemento domenicale di Alfapiù, quotidiano in rete]

di Andrea Inglese

Ce lo ha ricordato, in un post dell’8 gennaio, Luca Sofri: i libri faranno una brutta fine. Scherzi a parte, l’argomento è serio e d’attualità. Sofri ci ricorda anche che è un autore da diecimila lettori. Non è un dettaglio di poco conto. In tempi di morte del libro, bisogna chiedersi che peso dare alle persone che ancora scrivono, dentro o fuori il libro. Quanti lettori bisognerebbe avere, perché valga la pena di essere ascoltati?

Quenelle de Brest. Esistono censure giuste?

2

Dieudonne and Anelka
In Francia, da un po’ di anni, si discute di libertà di espressione e di censura a proposito di uno spettacolo, ma sarebbe più esatto dire di un comico, Dieudonné M’bala M’bala, aka Dieudonné, che proprio in questi giorni ha riacceso il dibattito e gli animi di politici ed intellettuali, artisti e comuni cittadini. I quattro articoli che seguono sono della corrispondente del Manifesto in Francia, Anna Maria Merlo e, proposti in ordine cronologico, a parer mio illustrano assai bene l’impasse politica in cui, ancor più che un governo, il concetto stesso di citoyenneté, tradizionalmente laico, si è trovato suo malgrado a fare i conti. (effeffe)

Le derive antisemite del “comico” Dieudonné> di
datario-29-dicembre
Anna Maria Merlo
PARIGI. Dieudonné è un umorista francese di 47 anni che riempie le sale quando si esibisce, a Parigi nel teatro della Main d’Or come nelle tournées in provincia. Gli spettatori ridono alle sue battute. Su Internet si è creata una comunità di entusiasti, sempre più fitta. Dieudonné ride e fa ridere riprendendo l’arsenale più retrivo dell’antisemitismo. Ha inventato un gesto – la “quenelle”, che dal campo della gastronomia (è una specie di gnocco a base di pesce o pollo) è ormai entrato in quello della politica – che ieri ha riprodotto anche il calciatore Anelka, dopo aver fatto un goal nel campionato inglese. La “quenelle” – un “saluto nazista rovesciato” secondo Alain Jakubovicz, presidente della Licra (Lega contro il razzismo e l’antisemitismo), rivendicato come “rivoluzionario e antisemita” dall’umorista e dai suoi seguaci – è diventata un emblema. La compagna di Dieudonné ha persino brevettato il termine. Contro chi lo critica e lo accusa di antisemitismo, Dieudonné si difende dietro la scusa di essere “discendente di schiavi”.
Il ministro degli interni, Manuel Valls, ha deciso di reagire. Nei prossimi giorni, invierà ai Prefetti una circolare che permetterà di valutare, caso per caso, se gli spettacoli di Dieudonné sono “una turbativa all’ordine pubblico” e se dovranno venire proibiti. Qualche sindaco ha già tentato di bloccarli, ma la giustizia amministrativa, sistematicamente interpellata dagli avvocati dell’umorista, ha sempre bocciato le iniziative locali, anche se Dieudonné è già stato condannato a pagare multe salate: l’antisemitismo in Francia è un reato, non un’opinione. Radio France ha sporto denuncia contro Dieudonné, per aver insultato in uno spettacolo un giornalista della rete pubblica, Patrick Cohen, colpevole di non si sa cosa, ma che ha un nome ebreo: “quando sento parlare Patrick Cohen mi dico, vedi, le camere a gas, peccato”, l’umorista fa ridere il pubblico. Dieudonné ha già messo alla gogna anche un altro giornalista, Frédéric Haziza di LCP, che lo aveva criticato. Contro questo “umorismo” il governo ha deciso di agire, soprattutto dopo che 6 giovani ebrei hanno di recente cercato di aggredire Dieudonné a Lione.
Per Valls, “Dieudonné ha cambiato dimensione. Gli spettacoli di Dieudonné non appartengono più alla dimensione creativa, ma contribuiscono ad accrescere i rischi di turbativa all’ordine pubblico”. Per il ministro degli interni, “siamo passati dall’ambito della legge del 1881 sulla libertà di espressione a quello dell’ordine pubblico”. Valls intende “spezzare la meccanica dell’odio” diffusa dagli spettacoli di Dieudonné. Ma molti dubitano dell’efficacia della proibizione. C’è un’oggettiva difficoltà giuridica, perché finora i tribunali amministrativi hanno sempre cassato le decisioni dei sindaci. Il Fronte nazionale difende Dieudonné invocando “la libertà di espressione”, garantita dalla Costituzione e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. L’Uejf, l’Unione degli studenti ebrei di Francia, ha dei dubbi sulla strategia di Valls e sulla sanzione preventiva, che punta alla messa al bando degli spettacoli di Dieudonné e ritiene più efficace la sanzione ex post. Laurent Joffrin, direttore del Nouvel Observateur, pero’ afferma: “temevamo di accordargli una pubblicità eccessiva, di attirare l’attenzione di un’opinione pubblica a grande maggioranza indifferente, di farne un martire della libertà di espressione. Questi scrupoli sono oggi superati, grazie alle reti sociali. Dieudonné accoglie già l’adesione ignorante ma fervente di un numero considerevole di internauti”. Sul sito Nouvelobs.com i commenti sono purtroppo istruttivi, per valutare la diffusione dell’antisemitismo in Francia all’alba del 2014.

sei-bianco copy
Dieudonné: spettacolo antisemita fuorilegge

PARIGI. Molto probabilmente, “Il Muro”, lo spettacolo dell’umorista Dieudonné già presentato a Parigi al teatro della Main d’Or, sarà proibito il 9 gennaio a Nantes, prima tappa della tournée nazionale. Il ministro degli interni, Manuel Valls, ha inviato ieri ai Prefetti una circolare, intitolata “Lotta contro il razzismo e l’antisemitismo – manifestazioni e riunioni pubbliche – spettacoli di Dieudonné M’Bala M’Bala””, che permette di far scattare la proibizione preventiva dello spettacolo, perché contiene “affermazioni infamanti nei confronti di varie personalità di confessione ebraica e oltraggi violenti e shoccanti alla memoria delle vittime della Shoah”. Valls, consapevole della difficoltà a proibire uno spettacolo, precisa che “il rispetto della libertà di espressione non impedisce che, a titolo eccezionale, l’autorità investita del potere di polizia proibisca un’attività se una tale misura è indispensabile per prevenire turbative all’ordine pubblico”. La circolare sottolinea che le affermazioni antisemite degli spettacoli di Dieudonné non sono dérapages improvvisati, ma che il controverso umorista è già stato oggetto a varie riprese di procedure penali, per propositi antisemiti. La decisione di Valls, appoggiata da François Hollande, solleva dubbi sul fronte dell’efficacia: proibire uno spettacolo non rischia di fare della pubblicità gratuita alle tesi che Dieudonné propaga già da una decina di anni, riempiendo le sale? Inoltre, Dieudonné ha un grande seguito su Internet, dove si propaga la sua “quenelle” (un gesto a metà tra saluto nazista rovesciato a “vaffa” all’italiana) e su questo fronte i poteri di polizia sono praticamente inesistenti.
Il mondo politico condanna le posizioni di Dieudonné – in Francia l’antisemitismo non è un’opinione, ma un reato – con la paradossale eccezione del Fronte nazionale, che difende “la libertà di espressione” del comico e accusa il governo di “deriva estremista”. Ma molti esponenti politici, a destra come a sinistra, hanno espresso dubbi sull’efficacia della proibizione preventiva. Anche il mondo ebraico è diviso. L’Uejf (Unione degli studenti ebrei) difende l’azione giudiziaria caso per caso ex post, quando sono verificate le affermazioni antisemite. Invece, l’associazione dei Figli e figlie dei deportati ebrei di Francia, fondata da Serge e Beate Klarsfeld, invita a manifestare, domani a Nantes, per ottenere la proibizione dello spettacolo. Il Crif (Consiglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche di Francia) chiede una “mobilitazione repubblicana” per combattere la diffusione delle tesi antisemite, che con Dieudonné sta prendendo in Francia un nuovo slancio, con la congiunzione tra il vecchio antisemitismo ereditato dagli anni ’30 e una nuova espressione delle stesse tesi, presentate come “rivoluzionarie” e “antisistema”, in nome della difesa delle lotte anticoloniali, con gli ebrei capro espiatorio, considerati responsabili della repressione dei neri e degli arabi. Nei suoi spettacoli, Dieudonné accusa gli ebrei di aver monopolizzato la sofferenza, occultando quella dei neri, grazie al loro potere economico. L’opposizione alla politica di Israele viene tradotta in espressioni antisemite e in negazionismo. Dieudonné, che potrebbe di nuovo presentarsi alle europee – come aveva fatto 5 anni fa – alla testa di una formazione antisemita, coagula questa triste alleanza e la sfrutta a proprio vantaggio. Oltre alla circolare, Valls e la ministra della giustizia, Christiane Taubira, hanno anche un altro angolo di attacco, che colpirà il portafoglio dell’umorista. Dieudonné, difatti, è già stato condannato nove volte dal 2006 per diffamazione, ingiurie e provocazione all’odio razziale. Deve pagare sui 65mila euro di multe, più altre decine di migliaia di euro alle associazioni anti-razziste che lo hanno denunciato. Ma non ha mai versato un euro, perché grazie ai ricorsi dei suoi avvocati e a un’abile costruzione imprenditoriale fatta di scatole cinesi, Dieudonné risulta nullatenente. Si è ritirato dalla Sacem (Società autori e editori), rendendo cosi’ impossibile il sequestro dei guadagni della società che produce i suoi spettacoli, la Productions de la plume, che nel 2012 ha fatturato 1,8 milioni di euro (anche grazie alla vendita di gadget di ogni tipo). Condannato per evasione fiscale (deve 800mila euro al fisco), ha fatto appello a una sottoscrizione dei suoi fan, presentandosi come una vittima del sistema.

sette

PARIGI. In seguito alla circolare del ministro degli interni, Manuel Valls, rivolta ai Prefetti e ai sindaci, molte città hanno proibito ieri lo spettacolo “Il Muro” dell’umorista Dieudonné, per “provocazione all’odio razziale” a causa dell’ossessione antisemita che ne caratterizza i testi: la tournée in provincia non potrà cosi’ iniziare, come previsto, il 9 a Nantes (dove sono già stati venditi 5200 biglietti a 43 euro l’uno), e non ci saranno gli spettacoli a Bordeaux, Tours, Marsiglia (mentre Nyon, in Svizzera, rifiuta l’annullazione “per non fare pubblicità” al comico). Il presidente Hollande, che appoggia l’iniziativa di Valls, ha chiesto ieri ai Prefetti di essere “vigili e inflessibili” nell’applicazione della circolare, che prevede sia una risposta penale alle affermazioni antisemite di Dieudonné che interventi di carattere amministrativo per evitare turbative all’ordine pubblico. L’avvocato di Dieudonné ha annunciato “azioni immediate” contro ogni proibizione, rivolgendosi alla giustizia amministrativa che, nel passato, ha dato ragione al controverso umorista almeno una quindicina di volte. L’avvocato minaccia anche di rivolgersi al tribunale dei ministri contro Valls, accusato di aver fatto affermazioni “lesive dell’onore” di Dieudonné. I proprietari del teatro parigino della Main d’Or (un fondo di investimenti), dove da mesi Dieudonné presenta “Il Muro”, stanno cercando di recidere il contratto di affitto. Inoltre, la giustizia cerca la strada per obbligare Dieudonné a pagare i circa 65mila euro di multe a cui è già stato condannato per incitazione all’odio razziale, ma che finora è riuscito a non versare, grazie a un’abile costruzione in scatole cinesi delle sue proprietà, per cui risulta “nullatenente” malgrado i lauti guadagni che ricava dai suoi spettacoli e dalla vendita di gadget di vario tipo. La polemica politica non si placa. Oggi ci sarà una manifestazione contro la diffusione delle tesi antisemite, organizzata dall’associazione dei Figli e figlie dei deportati ebrei di Francia. Marine Le Pen, il cui partito è il solo a difendere Dieudonné, pur prendendo personalmente le distanze dalle tesi di Dieudonné, accusa Valls di “vendetta personale” contro il comico.

Dieudonné: spettacolo proibito a Nantes nove

PARIGI. Il Consiglio di stato ha dato ragione a Manuel Valls: lo spettacolo di Dieudonné è fuorilegge. La decisione, presa ieri alle 18,40 dalla più alta istanza amministrativa francese a cui si era rivolto nel pomeriggio il ministro degli interni, conferma l’annullamento dello spettacolo dell’umorista che doveva tenersi ieri sera a Nantes, con “applicazione immediata”. Nel primo pomeriggio, invece, un primo annullamento dello spettacolo a Nantes, deciso dal Prefetto in applicazione della circolare di Valls, era stato cancellato dal tribunale amministrativo locale, che aveva ritenuto che il “rischio” per l’ordine pubblico non poteva giustificare “una misura cosi’ radicale”. Ma con la sentenza del Consiglio di stato, ormai non c’è più ricorso, la decisione è definitiva, almeno per Nantes. I 5mila spettatori erano ieri già sul posto quando è arrivata la decisione e le prime reazioni sono state di rabbia. La polizia era presente in forza, per timore di disordini.
Il braccio di ferro tra ministro degli interni e Dieudonné non si ferma qui: altre proibizioni preventive degli spettacoli della tournée del comico in provincia, già chieste da vari sindaci – tra cui a Bordeaux dal sindaco Alain Juppé, ex primo ministro – dovranno ancora passare la vaglio dei vari gradi della giustizia. Nel pomeriggio, Valls ha ribadito la sua posizione: “di fronte alla meccanica dell’odio – ha detto – ci vuole fermezza e determinazione, qualunque siano le decisioni (giudiziarie), la mobilitazione continua, contate sulla mia determinazione”. Valls ha ingaggiato una battaglia che va al di là di Dieudonné: sul piano morale, è sincero nell’opporsi alla diffusione dell’antisemitismo che rappresenta il principale tema della “comicità” del controverso umorista, mentre sul piano politico, il ministro degli interni si presenta come un decisionista (sul modello del suo predecessore di destra, Nicolas Sarkozy), l’opposto del presidente Hollande, accusato di essere un grande indeciso. Valls ha grandi ambizioni, pensa all’Eliseo, se non per il 2017 certamente per il 2022.
Il ministero degli interni ha preso di punta il caso Dieudonné, anche perché ritiene che la giustizia non abbia fatto fino in fondo il proprio lavoro. Dieudonné è stato difatti condannato nove volte per “provocazione all’odio razziale”, a causa dell’ossessione antisemita dei suoi testi, deve circa 65mila euro di multe (in Francia l’antisemitismo è reato), ma non ha mai pagato niente, perché, grazie a un’abile costruzione in scatole cinesi, figura come “nullatenente” e la sua società non è neppure iscritta alla Sacem (Società autori ed editori). Dieudonné, inoltre, deve più di 800mila euro al fisco e altre decine di migliaia di euro alle associazioni antirazziste che lo hanno denunciato. Un’inchiesta in corso indaga su un trasferimento illegale di più di 400mila euro in Camerun, paese di origine del comico.
La scelta di Valls di arrivare alla proibizione preventiva dello spettacolo “Il Muro” – che a Parigi è alla Main d’Or da mesi – ha suscitato polemiche e perplessità. Soprattutto sul metodo, per il rischio di fare pubblicità gratuita a Dieudonné e alle sue tesi antisemite.

https://www.youtube.com/watch?v=ovHXuO1xRko

Dario Bellucco alla Libreria Tadino

0

Lunedì 13 Gennaio – ore 21.00 – Milano

Fucine Letterarie, in collaborazione con la Libreria Popolare, presenta

 Corde (Lupo Editore)

 di Dario Bellucco

 L’azione letteraria sarà curata da Alcide Pierantozzi

 Presso la Libreria Popolare via Alessandro Tadino n.18 a Milano

Dieci anni senza “Manolo”

0

Cassani_immagine_MVM

Manuel Vázquez Montalbán e le maschere delle città

 

di Alberto Giorgio Cassani

 

«Buon pro le faccia». Così, in quello che è rimasto l’ultimo romanzo della serie Carvalho, Millennio 2. Pepe Carvalho, l’addio  il detective privato più conosciuto di Spagna si era congedato dal mondo e dal suo pubblico, destinazione il carcere La Modelo di Barcellona. Con lui, ci aveva salutato anche il suo creatore, lo scrittore Manuel Vázquez Montalbán, per gli amici “Manolo”.

Perché il 18 ottobre 2003 un infarto l’aveva stroncato in un “nonluogo”, l’aeroporto di Bangkok; una morte sul lavoro, in uno dei tanti, forse troppo faticosi per lui che soffriva di cuore, tour de force internazionali fatti per reclamizzare il suo ultimo romanzo. Ironia della sorte, e davvero morte letteraria la sua, visto che la sua scomparsa è avvenuta nella città in cui lo scrittore aveva ambientato uno dei suoi primi romanzi della serie Carvalho, Gli uccelli di Bangkok.

Una di queste tappe pubblicitarie l’aveva portato, nel novembre del 2000, anche nella città in cui abito, Ravenna, in una serata in cui il ridotto del teatro Alighieri si era riempito all’inverosimile del pubblico dei suoi tanti ammiratori, per la presentazione de L’uomo della mia vita. Qualche ora prima, a las cinco de la tarde, al Museo dell’Arredo di Russi, nello spazio progettato da Ettore Sottsass, per la regia di Gianfranco Tondini e col supporto tecnico dell’architetto Alessandro Vicari, chi scrive, molto indegnamente, non essendo un attore, aveva reso un omaggio alla Barcellona di Pepe Carvalho, impersonando quest’ultimo in un breve monologo dal titolo Il centravanti è stato assassinato questa sera.

Con la scomparsa di Vázquez Montalbán, la Spagna e non solo essa, ha perso una delle voci critiche più profonde, intelligenti ed ironiche che abbia mai avuto. Perché “Manolo” non è stato solamente un grande scrittore “di genere”, ma un grande scrittore tout court, come dimostrano i tanti libri e saggi da lui pubblicati al di là della serie Carvalho. Basta leggersi Il pianista (El pianista, 1985, trad. it. di Hado Lyria, Palermo, Sellerio, 1990), o Io, Franco (Autobiografía del general Franco, 1992, trad. it. di H. Lyria, Milano, Frassinelli, 1993), per capire la sua qualità letteraria, la sua ricerca lessicale, il suo impegno intellettuale. Lunghissima la serie dei riconoscimenti, se i premi, come in questo caso, servono a confermare la grandezza di un autore: Premio Vizcaya de Poesía del Ateneo de Bilbao (1969), Premio Planeta (1979), Premio Boccaccio (1988), Premio Ciudad de Barcelona (1988), Premio Recalmare Leonardo Sciascia-Città di Grotte (1989), Premio Nacional de Narrativa (1991), Premio Europa (1992), Premio Flaiano (1994), Premio Nacional de la Crítica (1995), Premio Fregene, Premio Nacional de las Letras Españolas (1995), Premio Città di Scanno (1997), Premio Grinzane Cavour (2000). In suo onore, dal 2006, è stato creato il Premio Carvalho, dedicato alla produzione letteraria di genere poliziesco. A lui, la sua città natale, Barcellona, il 3 febbraio 2009, ha intitolato una piazza, tra la calle de Sant Rafael e la Rambla del Raval, vicino al luogo di nascita dello scrittore e all’amatissimo ristorante Casa Leopoldo.

Di uno scrittore, quando non c’è più, rimangono i ricordi di chi l’ha amato e conosciuto, ma, soprattutto, restano le opere. E queste vanno lette, rilette e studiate. Per ciò è nata l’Asociación de Estudios Manuel Vázquez Montalbán, di cui fanno parte sette studiosi, sei spagnoli e un francese, dedicata allo studio e alla diffusione della sua opera. L’Associazione ha creato un sito web , che, tra le altre cose, contiene notizie, video, libri e articoli apparsi dal 2010 e convegni. Tra questi, l’Associazione ha organizzato, dal 2 a 4 febbraio del 2012 un primo Congresso Internazionale dal titolo: “Manuel Vázquez Montalbán: Nuevas perspectivas críticas”, svoltosi all’Universitat Pompeu Fabra di Barcellona; un secondo, Extraordinario, in occasione dei dieci anni dalla scomparsa, si è appena tenuto dal 17 al 19 ottobre, sempre presso l’Università barcellonese. Parte delle relazioni saranno pubblicate sulla rivista elettronica dell’Associazione «MVM: Cuadernos de Estudios Manuel Vázquez Montalbán».

“Manolo”, per tutta la sua vita, ha ragionato sul tema della Memoria. La città è il luogo che può conservarla o cancellarla. A Barcellona, protagonista di tutta la serie Carvalho, come in ogni grande città, entrano in gioco quattro città: quella della «Memoria», del «Deseo», della «Geometría» e della «Compasión». Queste quattro città, in realtà, a ben guardare, sono soltanto “due”: la città della «Memoria/Compasión» e quella del «Deseo/Geometría». La prima è la città degli Storici e degli Scrittori che, come l’Angelo della Storia di Walter Benjamin, ha il volto rivolto all’indietro nel tentativo di ricomporre le macerie causate da quella bufera che si chiama Progresso e che soffia dal Paradiso; la seconda è la città degli Architetti, del Progetto e dell’Utopia, che guarda, invece, solo al Futuro. Quest’ultima tende a cancellare la prima. Occorre perciò fare opera di “resistenza”, tentando di salvare le tracce delle tante archeologie urbane. Vázquez Montalbán ce l’ha insegnato: la “ricchezza” di una città sono i suoi strati archeologici. Per questo Roma è una delle città più belle al mondo. Per la città non vale lo slogan del grande architetto tedesco Ludwig Mies van der Rohe: «Less is More». Per la città, il più è più.

Occorre però sgombrare il discorso da un possibile equivoco. È inevitabile che non si possa conservare tutto: senza oblio non ci sarebbe la possibilità di agire, di creare nulla. Si resterebbe paralizzati. Lo ha scritto, una volta per tutte, Nietzsche nella seconda delle Considerazioni inattuali: Sull’utilità e il danno della storia per la vita. Il problema, però, per Vázquez Montalbán, è che i vincitori non cancellino, per sempre e del tutto, le tracce dei vinti. Questo è il punto centrale. Perché questa sarebbe la seconda e definitiva morte. Si muore una volta, quando si cessa di respirare; e si muore definitivamente quando nessuno si ricorda più di noi. Ecco perché “Manolo” fa dire a Pepe Carvalho: «Quando muoio scomparirà la memoria di quei tempi e di quella gente che facendomi nascere mi hanno messo nella platea della loro rappresentazione»; e ad un altro personaggio mette in bocca questa riflessione: «Ogni morto si porta via una parte della nostra immagine».

Purtroppo, la stragrande maggioranza di ciò che vediamo di una città sono le “maschere” dei vincitori di turno. Gli antichi romani adoperavano due parole assai incisive: damnatio memoriæ, la cancellazione completa di tutte le testimonianze di una vita vissuta. Il malcapitato non era nemmeno esistito. Vázquez Montalbán, al contrario, ci ricorda continuamente il dovere di ricordare. E lo fa utilizzando un mezzo indiretto, apparentemente inadeguato: un detective privato, ex comunista, in seguito killer di Kennedy al servizio della CIA, rientrato in Spagna, a Barcellona, per sbarcare il lunario come “annusapatte”. Com’è possibile? In realtà, Pepe Carvalho è il flâneur dei nostri tempi, che si muove nella città come in un paesaggio della memoria, registrando i mutamenti subìti dai luoghi della sua infanzia. Come scrive, infatti, Walter Benjamin (citato da “Manolo” ne L’uomo della mia vita) «Se una persona scrive un libro sulla propria città, esso avrà sempre una certa affinità con le memorie; non per nulla l’autore ha trascorso la sua infanzia nel luogo descritto». E il romanzo giallo diviene, per Vázquez Montalbán, un «mezzo di conoscenza sociale o psicologica» , anche della storia architettonico-urbanistica della città.

Seguendo le tracce delle vittime e dei carnefici, Pepe Carvalho incontra le diverse archeologie di Barcellona e scopre, assieme al suo autore, che il rischio serio che corre la sua città è che gli archeologici del futuro si troveranno di fronte solo a tre grandi ere «geologico-architettoniche»: «Gotico, modernismo e kolossalismo post-moderno». Inoltre, sembra ormai che l’anno zero, ante e post, sia diventato il 1992, l’anno delle Olimpiadi, tanto da poter suddividere la storia di Barcellona in tre grandi epoche: Pre-Olimpica, Olimpica e Post-Olimpica. I “vincitori” hanno selezionato le diverse archeologie di Barcellona, rimuovendone quasi completamente alcune (le archeologie che “Manolo” chiama «maledette») e valorizzandone, a volte addirittura “inventandone”, altre.

Dal Montjuïc, come vuole la leggenda, Ercole aveva ammirato la bellezza del sito naturale, adatto perfettamente alla fondazione di una città; sul Montjuïc si mostrano, in tutto il loro conflitto, vita e morte, Memoria e Deseo, Geometría e Compasión. Sul Montjuïc, infatti, sono stati realizzati i nuovi templi dello sport per le Olimpiadi: il nuovo stadio, che ha sventrato quello vecchio lasciandogli soltanto la pelle, il Palazzetto dello sport di Arata Isozaki e la fiaccola olimpica di Santiago Calatrava. Al contempo, sul versante verso il mare, il Montjuïc mostra il luogo della Morte, il Cimitero nuovo e il luogo che dava morte, il Castello del Montjuïc, da dove, in occasione delle rivolte popolari, si sparava sulla città, presa tra due fuochi grazie al parallelo cannoneggiamento dal versante della Ciutadella.

Ancora una volta la città, le città, devono decidere se mettersi o togliersi la maschera, se nascondere o rimandare la verità elementare della vita e della morte, se cercare di mitigare l’angoscia nomade, inscritta nei cromosomi dell’uomo, con l’ordine della sua geometria, contaminando il passato con l’avvenire, ben sapendo che, prima o poi, «toda ciudad es o será arqueología».

L’altro insegnamento che ci ha lasciato Vázquez Montalbán è il pericolo che tutte le città diventino uguali, dopo un processo di “pastorizzazione” che le renda asettiche, ripulite di tutti i batteri nocivi al turismo culturale; cosa che è avvenuto a Barcellona dopo le Olimpiadi, riducendola ad una città «bella ma senz’anima».

L’Hotel W Barcelona, dai più chiamato Hotel “Vela”, di Ricardo Bofill, su cui “Manolo” avrebbe certamente puntato la sua penna tagliente se l’avesse potuto vedere, ha definitivamente fatto diventare Barcellona l’alter ego mediterranea di Dubai, la nuova città-icona del XXI secolo: una Nueva Dubai, una città senza “inguini”, senza radici, un «campionario architettonico di valore universale» , prendendo a prestito una frase di Vázquez Montalbán su Barcellona. Ciò che rischiano di diventare, sotto l’“effetto Bilbao”, tutte le grandi città contemporanee: un campionario di firme di archistar©, che ormai hanno preso il posto dei grandi stilisti della moda. Le città finiranno su «Vogue».

Dopo aver compiuto un viaggio intorno al mondo – che sembra l’ultimo desiderio di vedere cosa accade fuori della sua tana, dal suo guscio protettivo di Vallvidrera, dove Pepe Carvalho e anche “Manolo” abitavano – il detective, inseguito dalle polizie di tutto il mondo per l’omicidio dell’odioso sociologo Jordi Anfrúns, torna a Barcellona. Barcellona, malgrado lei, diventa per Pepe Carvalho la città «da cui non si voglia far ritorno».  Nel carcere La Modelo di Barcellona Carvalho era stato rinchiuso da giovane. E al carcere La Modelo ritorna, questa volta per sempre. Carvalho non riconosce più la sua città: e dunque tanto vale restarsene chiuso dentro una cella, da cui addirittura rimpiange di «esserne uscito». Vázquez Montalbán, da parte sua, stava per tornare a Barcellona, ma la morte l’ha colto distante da essa. Chissà se per lui Barcellona era quel luogo “da cui non voler far ritorno”.

A noi non resta che rendergli omaggio, un omaggio alla sua memoria (persino un vignettista satirico come Vauro, in Italia, gli ha reso uno struggente ricordo). Forse il migliore atto di riverenza che gli si possa fare è quello di nominare i luoghi di Barcellona che nessuno ricorda più. Come ha fatto lo storico dell’arte Juan José Lahuerta che, in un libro di qualche anno fa, ha riportato alla memoria due semplici soglie di una vecchia casa della Rambla di Santa Monica, oggi rimosse.  Due pietre consumate dall’uso con due strani buchi, provocati, nel corso degli anni, dal continuo battere dei tacchi a spillo delle scarpe delle prostitute. A “Manolo”, sono sicuro, sarebbe piaciuto molto questo ricordo.

«¿La arquitectura transformará las agonías?» , si era chiesto Vázquez Montalbán in Ciudad. No, se non imparerà anche a ricordare.

 

Nota dell’autore:
Subito dopo aver pensato questo titolo, ho ricevuto dall’amico Antonio Pizza, docente di Storia dell’arte e dell’architettura all’Escuela Técnica Superior de Arquitectura di Barcellona, un articolo di Josep Ramoneda, pubblicato su «El País semanal», n. 1932, del 6 ottobre 2013, dal titolo: Diez años sin Manolo: Reatrato impresionista de un amigo. Evidentemente il vuoto lasciato dallo scrittore barcellonese, col passare del tempo, è l’elemento che più colpisce. Questo testo è apparso, in forma più ampia sulla rivista «Trova Casa Premium», n° 85, ottobre 2013, pp. 56-60. Ringrazio il Direttore Fausto Piazza per averne concesso la ripubblicazione.
La foto riproduce qualcosa che oggi non esiste più: la soglia di una casa di appuntamento all’inizio delle Ramblas coi segni dei tacchi delle prostitute che lì “battevano” appunto, coi tacchi, per il freddo.

Do you remember Amiri Baraka?

1

Amiri Baraka
Amiri Baraka
Conversazione con Amiri Baraka (2011)

di Luigi Cinque

Amiri è un piccolo marziano. Non ancora sceso dall’astronave, si vede! Continua a viaggiare. Sorride. “Il passato e il futuro – mi dice – sono solo una speculazione “ volatile” del presente”. Viene da lontano.
Nel 1961 con il nome di LeRoi Jones scrive Preface to a Twenty-Volume Suicide Note (Prefazione a una nota suicida in venti volumi). E’ la sua prima collezione di poesie. Da poco ha fondato insieme alla moglie la Totem Press, casa editrice che pubblica, tra gli altri, opere di Allen Ginsberg e Jack Kerouac. Siamo in uno dei periodi più complicati della storia sociale americana. Le Roi è un nero di Newark. E i neri sono in gioco per i diritti civili, quelli veri. Si svegliano. Bruciano. Aderiscono in massa, nei ghetti, alla religione Islamica. Un’ Islam blues, si capisce, metropolitano, con spazi per il solista, ma quel che conta è avere un dio diverso dai bianchi, dai padroni, un dio affidabile che li riconosca come fratelli neri, separati e uguali, anzi più belli, dal resto del mondo. Siamo nell’America di Malcom X. “Se ti trovassi mai in un posto/perduto e circondato dai nemici/ che non vogliono /che tu parli la tua lingua/ che màcerano le tue statue e gli attrezzi/che proibiscono il tuo um bum ba bum (…. )/ be’! Probabilmente ti ci vorranno diverse centinaia d’anni per venirne fuori!” ( Amiri Baraka . saggio 1)
C’è da correre per venirne fuori. E’ vero. Ma gli afroamericani vanno veloci. Sopratutto in quella che è la loro storia, la loro possibilità : la musica. Sono gli anni in cui Ornette Coleman con sette angeli musicanti – come qualcuno disse – incide FreeJazz. Siamo alla rottura del tonalismo, al flusso di coscienza in musica, alla creazione istantanea, al martirio edipico del compositore. E il bello è che, per altre vie, i neri si ritrovano nelle stesse acque dell’avanguardia bianca dell’emisfero settentrionale. Non a caso la copertina di “Free jazz” è un’opera ( White light ) di Jacson Pollock vate dell’action painting, morto solo quattro anni prima. Intanto Miles Davis, con altri angeli che osavano avere nomi tipo John Coltrane e Cannonball Adderley o Bill Evans, incide ( nel ‘59 ) il leggendario “Kind of blue” che nella breve e intensa storia del jazz possiamo già definire una questione neoclassica, ovvero, il recupero di antiche scale modali applicate alla tecnica e all’alchimia del jazz. Le Roi in quegli anni partecipa all’avventura della “beat generation”. E’ il movimento artistico che esalta, tra l’altro, il rapporto tra letteratura e jazz; che indipendentemente da colore, razza, sesso e simili, interpreta – on the road – il disadattamento vero; che svela alla poesia quell’ America patinata, razzista, mafiosa,puritana – ancora maccartista – capace di combattere i movimenti bombardando i ghetti (e i giovani ) di ‘roba pesante’, eroina; un’America pronta ( come spesso Amiri scriverà ) ad assassinare, tra gli altri, JFK e suo fratello, Malcom e Luther, e così tantissimi altri fino a Lennon, fino alle Twin Towers, tra una guerra e l’altra. Verso il neoliberismo petrol/bancario, spietato, di oggi.

Amiri Baraka at Doctoclip 2013
Amiri Baraka at Doctoclip 2013
Nel 1963 LeRoi scrive il “popolo del blues”. E’ il racconto dell’intreccio che lega il blues e il jazz alla vicenda umana dei neri americani. In poco tempo “blues people” diventa un manifesto letterario-musicale. E pone (non è il solo) la questione dell’estetica nera. Scriverà Amiri in una recente introduzione alla ristampa del volume ( Shake edizioni, in Italia ): “non vogliamo più nessun Nietzche a dirci che la sensazione ostacola il pensiero. Per noi neri ciò che non può sentire non può pensare. La massima intelligenza sta nel ballo, non nella pubblicità delle scuole di ballo. Il pensiero massimo è concreto, vivo, non astratto.”
Mi dice: “Attraverso la musica si può dire moltissimo, forse tutto, di un popolo.” Fa un piccolo salto logico e aggiunge: “ io vedo l’arte come un’arma… forse, oggi, l’unica vera arma di cambiamento e di rivoluzione. Anche per una rivoluzione in senso marxista.”
Dopo l’assassinio di Malcom X ( ‘65 ), LeRoi prende il nome di Amiri Baraka e abbraccia la causa estrema del Nazionalismo Nero. Ma il suo sguardo sarà sempre sostenuto da profonda intelligenza critica. Al punto che il radicalismo diventa metodo filosofico, cambia la prospettiva, inverte la logica, guarda dalla parte degli esclusi, di tutti i “niggers” del mondo. Del resto, senza la “negritudine” e il meticciato dell’ ”emisfero settentrionale”, senza quella capacità di trasfusione, senza quella energia e istinto con la quale hanno rinnovato la tecnica e la chimica del ritmo, dell’armonia, del racconto, dell’astrazione, senza tutto ciò, il Novecento – in arte, sopratutto – sarebbe stato molto più povero e triste.
Amiri è arrivato a Roma da tre ore. Siamo in una stanzetta della Casa del Jazz. E’ in tournè Europea. Fra poco assisteremo ad una straordinaria lettura. Lo accompagna Dave Burrel al piano. Nel reading, la sua voce dall’ intonazione perfetta, ( l’intonazione è tutto per un oral poet) correrà per lo spazio siderale tra il canto del Congo Square ( lo slargo dove si riunivano la sera e i giorni di festa gli schiavi della piantagione) e il blues, il bebop, il rap, l’atonale. Beve un caffè. Silenzio. Ho in mano alcune sue poesie. La traduzione italiana è di Raffaella Marzano Leggo un frammento:
Supponete, di esservi svegliati una mattina/ E c’era il vampiro alla televisione /Intervistato da un negretto scemo/Un bel sorcio, per il quale l’idea di cervello era solo un’idea,/che non pensava, se ce la faceva a pensare, fosse cattiva./ E lo scemo era un assassino che ancora non si era laureato /alla scuola degli assassini /così adorava il dente del vampiro/ le due succose zanne che pendevano ai lati delle labbra/il negro pensava fosse figoe sognava di avere denti come quelli/ così avrebbe potuto essere un sorcio, /era stanco di essere un semplice stronzo ( da Fashion this .)
LC. Amiri, oggi che sei autore di più di 40 libri di saggi, poesia, teatro, storia della musica e critica, e sei un’ icona e un attivista politico e sei anche, a tuo modo, un rapper. Come ti descrivi?
AB. Se hai una visione, diciamo, africana, del mondo puoi anche considerare di essere molte cose contemporaneamente. Molti sguardi diversi. Ogni cosa sulla terra è viva e ogni cosa esistente è parte della stessa realtà. Anche lo sguardo, dunque, può mutare forma a seconda che guarda una rana o il presidente degli Stati Uniti che beninteso sono simili perché parte di un tutto.
LC. Visione africana?
AB. Quelli del rock and roll ( così Amiri definisce la cultura borghese dell’emisfero settentrionale ), hanno chiamato “selvaggio” chi credeva che “ ogni cosa è tutte le altre”. Invece sia la ciambella sia il buco sono la stessa cosa, sono semplicemente spazio. Ed io sono lo spazio che occupo.”
Chi ha ammazzato Malcom, Kennedy e suo fratello/Chi ha inventato l’AIDS/.. (…)Chi campa su Wall Street (…)Chi sapeva che la bomba stava per esplodere (…) Chi sa perché i terroristi impararono a volare a San Diego in Florida (…) Chi sapeva che il World Trade Center sarebbe stato bombardato, Chi fa soldi con la guerra, Chi fa grana su paura e menzogne, Chi vuole il mondo così com’è (…)(da Somebody blew up America ( qualcuno ha fatto saltare l’America) Amiri Baraka 2001)
“Somebody blew” è un testo caldo. Tra l’altro, quel CHI, ripetuto, ci ricorda qualcosa di familiare. Ha la stessa misura dell ’Io so di Pasolini (lettera al Corriere della Sera 14 novembre 1974) :. Io so i nomi dei responsabili (…) Io so il nome del vertice che ha manovrato(…)
Ma bisogna ascoltare “Somebody blew”, cantata da Amiri, come un blues, per ritrovare l’analogia con il poeta friulano. La pagina non basta. Glielo dico. Amiri sorride. Sorride, finisce il caffè e aggiunge : “l’idea di fondo della poesia civile è di aiutare la gente a comprendere davvero il mondo in cui viviamo, di promuovere una rivoluzione che cambi la società. Quanta gente oggi si trova nei guai a causa dei mercati borsistici o paga per le logiche di una società imperialista?
Amiri Baraka at Doctoclip 2013
DoctorClip fest a Roma nel novembre 2012. Le foto sono di Martina Cocco
LC. il rapporto tra musica e parola… per un poeta?
AB. La musica rende le parole più accessibili, più efficaci. I cantanti conoscono bene la questione. E poi… è la nostra storia di Afroamericani. Bisogna valorizzarla. Oggi le parole della poesia hanno bisogno di essere pronunciate ad alta voce, di essere declamate, cantate, amplificate, hanno bisogno di riprendersi tutta la loro sacralità. E anche nello scrivere dobbiamo essere coscienti che quando si scrive poesia, si scrive musica. Ci sono i registri, le scale, le tonalità possibili, le sillabe che richiamano certe intonazioni, parole che di per se hanno socialmente un loro suono.
LC … torno al bues… c’è una bella affermazione di Alan Lomax, che è stato uno dei più importanti ricercatori e studiosi del mondo afroamericano e soprattutto delle radici del blues, dice: “l’hanno chiamata l’età dell’ansia ma forse sarebbe meglio definire il novecento – il secolo del blues. Il blues è diventato il genere musicale più familiare alla modernità perché oggi tutto il genere umano comincia a sperimentare la stessa malinconia dei neri della terra del blues, quel senso di anomia e alienazione, l’assenza o la precarietà delle radici, la sensazione di essere merci più che persone…”
AB. Il blu è il colore dei vestiti che si usavano nelle feste del West Africa Guinea; in America diventa il colore della perdita, il colore della memoria, capisci cosa voglio dire? Blues viene dal [colore] blu, cioè dalla bellezza perduta della vita africana. Come non poteva questo adattarsi al disagio sociale della modernità… del neocapitalismo selvaggio di oggi… del furto di identità e del futuro dei giovani …
LC. Come lo dobbiamo definire il legame tra blues e jazz?
AM. C’e’ una canzone cantata da Julie Wilson che dice “Se non era per il blues non esisteva il jazz”. Questo e’ il legame più chiaro e semplice.
LC. Due figure simbolo del jazz: Louis Armstrong e Miles Davis.
AB: Louis Armstrong… penso che tanta gente ha sbagliato a considerarlo una persona sottomessa. Non è così. E se hai mai ascoltato le sue interviste, puoi capire che era molto cosciente di essere in una posizione sottomessa, capisci? Ma lui, non era stupido, pensava che era meglio sottomettersi perche’ questo gli permetteva di fare quello che voleva fare: suonare. E non c’e’ dubbio che Louis Armstrong era il più grande musicista del suo tempo, senza dubbio. Quando era giovane, lui era il migliore.
LC. Quando il Movimento Nero diventa più antagonista, cosa pensa di Armstrong? Un intrattenitore di bianchi, un cattivo esempio, uno zio Tom?
AB. I più giovani si risentivano del fatto che Armstrong era ritenuto troppo sottomesso agli Stati Uniti. Ma non era vero. Lui era nato in un’epoca così, era nato nel 1900, capisci? Mentre negli anni ‘50 e ‘60 c’era una estetica diversa e un atteggiamento politico più cosciente. Certo loro non capivano Louis, perché Louis sorrideva sempre, era sempre gradevole. Ma penso che due cose hanno risvegliato la gente sul vero Louis Armstrong. La prima fu quando i bambini neri provavano a entrare – contro la segregazione che di fatto ancora esisteva – a Little Rock High School e il presidente Eisenhower faceva delle dichiarazioni, allora Louis gli rispose pubblicamente, dicendo: “ tu ti dovresti alzare in piedi da uomo e andare a portare quei bambini a scuola. “ In questa reazione fu molto diverso da quello che si pensava di lui. Questo ha aperto gli occhi a tanti. Anche ai Panthers. Durante un’intervista che lui fece con Willis Conover a Washington con il suo manager, Joe Glazer, seduto accanto, Conover gli diceva “Louis, sei nel mondo della musica da più di 60 anni, dimmi come sei diventato così importante”. E Louis rispose senza freni: “Beh, quello che devi fare è trovare un uomo bianco e diventare “il negro” di quel uomo bianco, non e’ vero Joe? Ha, ha, ha.” E lo disse direttamente al suo manager. Erano probabilmente 50 anni che voleva dire questa cosa! [ride] Alla fine la gente ha capito chi era Louis Armstrong. Era tuo nonno che non poteva dire quello che puoi dire tu.
LC: Miles Davis…?
AB: Miles aveva una sua personalità particolare. Quando ero giovane ho provato a fargli un’intervista e non me l’ha concessa. Avevo circa vent’ anni. Quarant’ anni dopo, l’ho intervistato per il New York Times. Lo aspettavo nel ristorante dell’hotel delle Nazioni Unite e bevevo Courvoisier. Finalmente entrò Miles con quegli occhiali da sole da 500 dollari e mi disse: “Ehi… l’uomo del mistero.” E io gli risposi: “Tu… sei l’uomo del mistero.” Ho sempre amato Miles, era il mio eroe culturale anche quando ero bambino. Quando provavo a imparare la tromba imitavo lui. Per molti di noi, della mia generazione, Miles era il simbolo della musica. Abbiamo perduto un po’ di tempo per apprezzare Louis Armstrong ma tutti apprezzavamo Miles.

Walter Benjamin su “L’ospite ingrato”

0

Dal mese scorso è disponibile il nuovo fascicolo dell’Ospite ingrato, la rivista del Centro studi Franco Fortini. Il numero, come al solito monografico, è dedicato a Walter Benjamin, ed è stato ideato e progettato da Michele Ranchetti.
Come vedrete dal sommario: il volume, curato da Gianfranco Bonola, accoglie inediti di Benjamin e di Rosenzweig, insieme a importanti commenti e saggi. È il frutto di un lavoro lungo ed intenso, che ha impegnato noi del Centro, gli autori e l’editore in una impresa a cui teniamo particolarmente, non solo per il valore intrinseco ma per il legame con Michele Ranchetti.

VOLPONI (dallo Zibaldone Norvegico)

8

di Luigi Di Ruscio

Mi proponevo poesie a comunicazione rapidissima e senza sotterfugi, la gente ha fretta e bisognerebbe scrive­re romanzi di un’unica frase, la mia è una affermazione di identità e mi irrita se mi confrontano con un scritto­re molto importante che magari stimo. Antonio Porta quando dirigeva “Alfabeta” voleva pubblicare il primo capitolo del mio romanzo il Palmiro, dovette rinunciar­vi, aveva trovato tutta la redazione contro, nella reda­zione c’era anche Volponi e Leonetti, strano che anni dopo, tanti anni dopo Volpini mi disse che il Palmiro era un capolavoro, erano presenti De Signoribus e Zinato. Leonetti farà la prefazione alla mia ultima raccolta. Alla gente occorre anni ed anni per capirle le cose e non è certo colpa mia, anzi è colpa mia. Lavoro nella solitudi­ne più completa, non so niente della situazione letteraria italiana, leggo giornali e libri norvegesi è chiaro che al lettore occorre tempo per capire. Ero un amico frater­no di Eugenio De Signoribus, le sue poesie neppure le leggevo, mi arrivavano le sue raccolte con dedica, davo una vista e mettevo nella libreria, non è questione di va­lori, siamo diversi, Volponi è un grande scrittore, però la scrittura del sottoscritto e quella di Volponi o De Signo­ribus è tutta diversa, ho l’ambizione di essere solamente me stesso, nessun pugno e neppure denti, la scrittura del sottoscritto è diversa da quella di tanti grandi scrittori marchigiani o milanesi e se trovate qualche somiglianza è perché certi grandi scrittori sono stati influenzati dalla mia scrittura, io non leggo poesie dei contemporanei, abito ad Oslo, gli ultimi libri italiani che ho compera­to sono i libri di Sbarbaro editi da Garzanti, le opere italiane di Giordano Bruno e la biografia di Zangrandi e Feltrinelli della Baldini&Castoldi figuriamoci se vado in Italia a comperare i libri di Cucchi per esempio o del Ricciardino, mica ho soldi da buttare e non ho neppu­re tempo da buttar via a 76 anni. Sono incastrato in due fenomeni opposti, perché diverso vengo rimosso, i critici illustri preferiscono il prevedibile, vengo rimos­so anche perché viene disconosciuta la mia diversità, in fondo adoperiamo tutti lo stesso alfabeto, anche se l’ita­liano del sottoscritto è leggermente insolito. La fedeltà alla stima di Volponi di certi critici che hanno stimato la mia poesia non dovrebbe disconoscere che grande è la diversità della mia ultima raccolta con qualsiasi scrittura di Volponi, la mia prima raccolta edita nel 1953 è: Non possiamo abituarci a morire, poco prima Volponi pubbli­cava la sua prima raccolta, possiamo paragonare queste due prime raccolte? Ci possono essere due raccolte tanto diverse? Una con prefazione Carlo Bo, il ricercatore del viscerale, l’altra raccolta ha la prefazione di un Fortini del primo dopoguerra che se non altro si era accorto del­la terribile tragedia dell’ultima guerra mondiale e sapeva che una certa poesia dopo l’olocausto era diventata im­possibile. Ho amato la Divina commedia, le grandi poe­sie di Leopardi, I sepolcri di Foscolo e i sonetti del Belli, dei contemporanei le prime tre raccolte di Montale, la prima di Ungaretti, poi poesie isolate dei maggiori poeti del novecento. Si tratta di poeti estremamente diversi, un Leopardi e un Belli nonostante fossero contempora­nei è come fossero poeti di pianeti diversi, I sepolcri non è certo le Rimembranze, la prima raccolta di Ungaretti è la cosa più diversa degli Ossi di seppia.

Conosco i professori, mio figlio insegna cibernetica in una università norvegese, qualsiasi cazzata mi dice mi domanda poi ripetutamente se ho capito, poi magari mi racconta delle cagnare con certi ricercatori anche ci­nesi che gli avrebbero fregato non capisco bene quale enigma. Capisco anche che tutto può essere uguaglia­to e tutto può essere distinto, per esempio Iddio e il sottoscritto sono molto dissimili, siamo simili in una cosa, siamo tutti e due essere viventi anche se per po­co, come ripeto ho 76 anni. Il sottoscritto e Volponi che un tempo confondevo con Volpini sono tutti e tre marchigiani, siamo tutti e due nello stesso periodo sto­rico, però caro critico amico, dopo aver eguagliato poi bisogna distinguere. Anche nella marchigianità ci sono differenze, io sono nato a Fermo, Marche sporche, Vol­pini è di Urbino che non risiede nelle Marche sporche, lassù sono puliti. Le distinzioni bisogna farle oppure non si capisce più niente. Tra un assassino e il sotto­scritto ci sono somiglianze, ieri con un colpo di giornale ho ammazzato una mosca e non ho mai ammazzato un uomo e neppure una donna per fortuna, e ancora per fortuna non ho causato neppure per sbaglio la morte di nessun uomo o donna. Le vespe che terrorizzano Mary ho dovuto farle fuori perché non sono riuscito a farle volare fuori della finestra. Volponi che è nato nel 1924, nel 1944 alla caduta del fascismo aveva venti anni, cioè come tutti è stato fascista sino a venti anni, durante il periodo fascista erano tutti fascisti, io ho portato la ca­micia nera per tutti i sabato del periodo scolastico che si chiamavano proprio sabato fascisti, c’era una carriera stabilita, figlio della lupa, balilla, avanguardista e giova­ne fascista, Volponi avendo anni 20 nel 1944 sarà stato giovane fascista, stessa cosa per Pasolini, questa gente ha raccontato tutto mai hanno accennato di aver portato la camicia nera sino all’età adulta, la prima raccolta di Volponi è tutto il contrario del Volponi dell’età adulta. Cioè di un Volponi della sinistra italiana, insomma vor­rei che non si facessero più apologie ma analisi critica, gli autori seri come Volponi sono sempre estremamente travagliati, per esempio il sottoscritto di oggi è diverso dal sottoscritto della mia prima raccolta dove mai mi sarei permesso a scherzare con le vespe. Ho scritto di queste cose a diversi tipi, vediamo cosa succede, proba­bilmente niente, figurati se prendono in considerazione quello che dico io. Io vorrei essere il fratellino minore di questa gente, come ogni fratello minore che si rispetti dovrei spiarli e riportare tutto ai miei genitori, chi sa­rebbero i miei genitori in questo caso? A chi raccontare le malefatte dei nostri fratellini maggiori? Ora cerco di raccontarle a voi. Figurati se i professori in belle lettere prendono in considerazione quello che scrivo io.

[questo testo di Di Ruscio fa parte dello “Zibaldone Norvegico”, in uscita da Luigi Pellegrini Editore, collana “Itaca Itaca” con una prefazione di Angelo Ferracuti e una nota finale di Mauro F. Minervino]

cop_collana1

Oggi apre a Torino la mostra di Biagio Cepollaro : «le tre vie in otto tele»

4

di Antonio Sparzani

Oggi alle 18.30, presso la galleria VOYELLES ET VISIONS, via San Massimo 9/A, Torino, vernissage della mostra di Biagio Cepollaro: Le tre vie in otto tele. La mostra durerà fino al 19 febbraio prossimo.
A cura dell’associazione Indypendentemente e di Francesco Forlani.