Fabio Moliterni
In occasione del centenario della Cgil Angelo Guglielmi viene incaricato dal sindacato di allestire una collana editoriale per raccogliere i campioni più rappresentativi della letteratura industriale del Novecento insieme a scritture inedite sul tema del lavoro. Il potenziale curatore riceve disponibilità e consenso, ma il piano salta per l’opposizione dell’editore Einaudi al quale molti degli autori contattati erano legati per contratto (la collana sarebbe dovuta uscire con Feltrinelli). Le logiche apparentemente infrangibili delle scuderie e delle filiere che dominano la Repubblica delle lettere italiane hanno limitato i margini di sopravvivenza della “bibliodiversità”, riducendo la portata dell’impresa ad un appuntamento mancato. Per usare la formula di André Schiffrin ripresa dal documentario di Andrea Cortellessa e Luca Archibugi, il progetto resta senza scrittori (senza editori).
Non che il tema del lavoro sia stato latitante nella produzione letteraria di questi ultimi anni. Pare invece che la rappresentabilità dell’universo del lavoro post-fordista abbia trovato nella prolifica macchina del romanzesco nazionale una nicchia di mercato favorevole, disposto a scommettere sulle prospettive di impatto “mediatico” di una letteratura tempestivamente definita “post-industriale”, divisa tra forme di fiction più o meno ibride e i modelli vulgati dell’inchiesta o del reportage a tenuta narrativa. Rimuovendo o “medicalizzando” il conflitto sociale (la materialità del reale) con dosi massicce di un’affabulazione sin troppo lineare e elegiaca, si tratta di romanzi o pseudo-romanzi che contribuiscono a dilapidare il patrimonio antagonista, utopistico e libertario lasciato in eredità dalla migliore letteratura industriale (e post-industriale) del secolo passato. Sono esperienze intellettuali che non si sottraggono, ma partecipano all’inerzia nella quale vivacchiano l’inconscio e l’immaginario collettivo, il mainstream che collega le condizioni reali e i riflessi sociali della nuova fase di organizzazione del lavoro ora alle retoriche vittimarie e al volontarismo moraleggiante, ora alle esitazioni elegiache degne di una nuova Arcadia; ora infine a idealtipi o a frame del tutto inespressivi come “precariato”, “emigrazione intellettuale”, “nuovi schiavi”, “morti bianche”.











