Home Blog Pagina 378

PHILIP LARKIN

2

di Franco Buffoni

Il 1956, per l’Inghilterra, non fu soltanto l’anno della crisi di Suez, che ridimensionò radicalmente lo status della nazione come potenza mondiale, ma anche l’anno della svolta in due fondamentali generi letterari: il teatro (con lo shock provocato dalla prima rappresentazione di Look Back in Anger di John Osborne) e la poesia, con la pubblicazione della antologia New Lines, curata da Robert Conquest, che sancì la nascita del Movement.
L’evento era stato preceduto da un articolo anonimo – apparso due anni prima sullo Spectator (poi riconosciuto come proprio da Anthony Hartley), che riconosceva in un gruppo di giovani poeti “il solo movimento degno di questo nome nella poesia inglese dopo quello dei trentisti” – e da un’altra antologia, Poets of the 1950s, apparsa nel 1955 a Tokyo (e, proprio per questo, passata al momento inosservata) curata dal poeta e critico D. J. Enright. I nomi dei poeti presenti nelle due antologie sono gli stessi, con la sola aggiunta, da parte di Hartley, di Thom Gunn: Kingsley Amis, Donald Davie, John Wain, Elizabeth Jennings, John Holloway. E Philip Larkin: di tutti il più rappresentativo dello spirito del Movement e destinato, dapprima, a consustanziarsi in esso, quindi a informare di sé, griffandolo, l’intero movimento.

In lungo e al largo

10

di
Roberto Bugliani

La Gang suonava Comandante e lui rammentava i murales della Realidad. Lo sguardo profondo e interrogativo dei due volti giganteschi dipinti sul muro della scuola dal tetto di lamiera devastato dalla sciaguarata incursione di Lolita de la Vega, da Angelo prontamente ribattezzata Lolita de la Verga, scrutava un po’ stupito il gruppo di visitatori.
Lolita era discesa sul villaggio a bordo dell’elicottero di Tele Azteca con l’arroganza d’un conquistatore d’altri tempi, e lo spostamento d’aria provocato dalle pale del rotore aveva abbattuto un albero e scoperchiato il tetto della scuola, mentre alcuni pezzi di lamiera erano schizzati via ferendo alla testa un bambino indigeno.

L’orribile anniversario

8

di Antonio Sparzani

[non me la sento di mettere immagini su questo tema, se ne trovano in rete di stupefacenti, bastano le nude parole]

credo molti sappiano che il 6 agosto del 1945, sessantacinque anni fa, presidente regnante Harry S. Truman, un aereo statunitense chiamato Enola Gay sganciò sulla città di Hiroshima, in Giappone, un nuovo tipo di bomba, detta atomica, provocando conseguenze di nuova mostruosa disumanità e che tre giorni dopo, il 9 agosto, un analogo ordigno fu sganciato sul porto di Nagasaki (per una cronaca dettagliata si veda qui) Aggiungo qui qualche informazione, forse non di dominio così pubblico, anche se reperibile qua e là in rete (ad esempio qui).

La notte tra il 9 e il 10 marzo del 1945 (cinque mesi prima di Hiroshima), un’ondata di 300 bombardieri americani colpì Tokyo, uccidendo 100.000 persone. Lanciando circa 1.700 tonnellate di bombe, gli aerei devastarono buona parte della capitale, bruciando completamente oltre 25 chilometri quadrati e distruggendo 250.000 edifici. Un milione di abitanti rimasero senza casa.

Il 23 maggio, undici settimane più tardi, arrivò il più grande raid aereo della guerra sul Pacifico,

carta st[r]ampa[la]ta n.26

4

di Fabrizio Tonello

È tutta una questione di numeri. Sabato 31 luglio, il Giornale spara un titolo a tutta pagina: “Il nuovo gruppo nasce con il pallottoliere” (p.5). I deputati che hanno seguito Fini sono 33, numero che è stato immediatamente dichiarato illegale da Cicchitto, come le intercettazioni della Procura di Palermo. Il Sudoku, che sul Giornale stava a p. 33, d’ora in poi sarà ribattezzato “Sumontekarlo” e la pagina sarà numerata come 32bis.

In effetti, al Giornale si fanno gli straordinari: azzannare i polpacci di Gianfranco Fini, mordere le chiappe di Italo Bocchino e addentare le caviglie di Fabio Granata è fatica. Le carte della casa a Montecarlo di qua, le sorti del governo di là, le interviste a celebri pensatori liberali come Pino Rauti e Francesco Storace, le “dieci domande” al presidente della Camera in stile Repubblica de noantri: per riempire le 36 pagine Feltri ha dovuto mobilitare pure le donne delle pulizie.

Riportando tutto a casa / Locorotondo

1

Riportando tutto a casa

di Nicola Lagioia

Sabato 7 agosto, ore 20
piazza Vittorio Emanuele, Locorotondo

Con l’autore interverrà Leonardo Palmisano

La presentazione è organizzato dal mensile Largo Bellavista

In lungo e al largo

5

di

Alessandro Zannoni

“Qui il fiume si allarga e si confonde col mare, e forse è già mare senza che io possa saperlo, in effetti come si fa a capire dove finisce uno e dove inizia l’altro, non è che ci sia un confine esatto, non esiste un netto mutamento di colore o densità o che ne so, neppure un cartello che ne proclama la precisa demarcazione, però so che da qui le cose cambiano e c’è una netta trasformazione in corso, non la vedo ma esiste e la accetto, e penso a questa cosa liquida in modo diverso, e la chiamo in un altro modo, pure; non più acque limpide, forti correnti, rapide tumultuose, argini selvatici, stagioni di secca o stagioni di piena, ora e per sempre un’unica infinita massa d’acqua.

Oro nero, ultimo nemico dell’Amazzonia

1

Da «il Fatto Quotidiano» –  giovedì 5 agosto 2010 (versione integrale dell’articolo)

di Evelina Santangelo
Regione di Loreto. Perù

Sono stati gli abitanti di Parinari a dare l’allarme a metà giugno, prima ancora del comunicato ufficiale della compagnia Pluspetrol: dalla chiatta Sanam III «assunta» dalla compagnia petrolifera argentina per il trasporto del greggio si sono riversati nel fiume Marañón 400 dei 5000 barili del carico. L’incidente (l’ennesimo, visto che solo nel 2009 ce ne furono 8 a carico della stessa compagnia) sarebbe accaduto in quel tratto di fiume che costeggia una delle più grandi riserve nazionali del Perù: La Reserva Nacional Pacaya-Samiria (20.800 kmq, 40.000 abitanti circa).
Di chiatte così, sui fiumi Ucayali e Marañón (che costeggiano la riserva) ce ne sono in quantità. Grandi pachidermi spesso decrepiti e stracarichi. L’unico mezzo disponibile per il trasporto merci nel bacino amazzonico nord orientale, l’unico mezzo di comunicazione per gli abitanti e i nativi dei villaggi e delle cittadine fluviali della regione di Loreto tra i porti di Pucallpa, Iquitos e Yurimaguas.

Territori d’oltremare

14

di Luca Baldoni

SPUNK CLUB

In questa grotta metropolitana dietro
all’intricata prospettiva di binari in fuga
di King’s Cross la domenica pomeriggio
gli uomini stanno seduti al bar col
cazzo in mano oppure nudi invitanti
sdraiati su un divano –
e io seppur assorto
attendo il turno tra i compagni
accetto il gioco della rete e della fionda
di questa partita che si semina ogni volta.

*** ***

In lungo e al largo

5

Negli archivi dell’Istituto Luce c’è addirittura un filmato NC del 1975 (notizie cinematografiche) di quattro minuti. La didascalia recita: nel villaggio svedese di Baia Domizia (Caserta) una ‘fettina’ di Svezia in Italia. 217 cottages per 1600 posti, un villaggio nato nel 1968 grazie ad una cooperativa, protagonisti i sindacati svedesi. La telecamera inquadra una bellissima ragazza che accompagna lo spettatore attraverso ogni singola stanza di quel piccolo mondo. Si vedono le camere, socialdemocratiche, mobili in stile Ikea, e le spiagge di sabbia scura percorse da capelli biondi al vento.
Palme (Olof) di Baia Domizia
di
Francesco Forlani

Le storie mica si scrivono a tavolino, lo sguardo perso nel nulla, gli occhi a cercare un’ispirazione, no, no, caro lettore di Fresco di Stampa, le storie, ma sarebbe meglio dire, la storia, ti affonda la penna nelle narici e senti un odore di miscela e gomme. Ferro, come quello del ponte del Garigliano – perché l’umanità in quegli anni si divideva in al di qua del fiume e nell’al di là. Da Caserta Noi ci arrivavamo con la 500 guidata da mamma. Noi, perché nelle famiglie numerose l’io non esisteva nemmeno per i primogeniti che manco cominciavano a parlare che già c’era una sorella e un fratello a mettere la N di noi a IO. Da questa parte del Garigliano c’era il mondo, il nostro, preso tra due cumuli di terra e verde, monte d’oro e monte d’argento, da quella il bel mondo, il loro. Baia Domizia. Le classi si dividevano sopra quel ponte, e se prima dell’estate con i grembiuli si era tutti uguali, con la stagione perfino i compagni di banco si separavano per affermare il diritto della proprietà. Ville da una parte e appartamenti da questa, dalla nostra parte. La villeggiatura durava due mesi interi trascorsi a fare tuffi, capricci con gli altri, gli amici, a cercare una vocazione, i primi baci, la nobile visione dei peli sotto le ascelle di Lucy, che poi non ci dormivi la notte. Da quella parte del fiume invece, ci arrivavano poi al rientro di fine settembre, nelle aule  di scuola, racconti fantastici, come di sopravvissuti dal paese dei balocchi, e allora ci sembrava ancora più povero il campo di calcio con le porte senza rete di fronte al lido Italia e senza alcun appeal la discoteca del Lido del Sole con l’ insegna, Poubelle.

In lungo e al largo

6

di
Anna Maria Papi
29 luglio 2010 0re 23

I lungomari. Mi piacciono i lungomari. I viali a mare.”Vada sul lungomare, poi volti a destra. Sul viale a mare forse ce lo trova”. Mi piacciono un casino i lungomari . Sia che guardino su un mare piccolo che su un mare grande. Sia che siano su un mare di destra o su un mare di sinistra. Alcuni sono a ovest. Cioè a ponente. ‘Vada a ponente che trova il lungomare.’ No, questo non lo dice più nessuno. Oppure,guardi a levante c’è un lungomare bellissimo. Neanche questo. Vada ad ovest lo dicono solo gli americani. Nei libri. Che poi chissà perchè, gli americani nei libri vanno sempre o verso ovest o verso sud. Da noi non si dice è andato verso sud sarà mezz’ora. Da noi si dice ha preso a sinistra, a destra. Generalmente da noi si dice così. Oppure da noi non si sa dove è andato. Non ce ne frega nulla dove è andato.

Ancora sull’università, la poesia, il gusto

14

[Mi permetto di presentare le risposte di Alfano, nate da questo thread, in forma di post autonomo. I punti toccati mi sembrano davvero importanti.]

Giancarlo Alfano

Cari commentatori,
non so bene come funzioni l’etichetta del discorso in un blog, non so cioè se ci si aspetta una risposta a ciascun commento o se invece è più educato tirare le somme da un certo numero di osservazioni. Mi sembra però il caso di riprendere alcune vostre osservazioni, soprattutto per alcuni punti ricorrenti. Ci sono in particolare due aspetti che vorrei spiegare meglio. Il primo riguarda l’impegno “divulgativo”. Far conoscere la poesia. Nell’incontro di Fosdinovo mi sono chiesto se noi che lavoriamo all’Università creiamo davvero nuovi lettori. Se cioè l’Università funziona ancora come luogo di promozione della libertà individuale e di conseguenza come luogo di educazione del gusto. L’espressione può sembrare vecchia, ma vi prego di ponderarla: educazione del “gusto” (non “al” gusto).

Di un luogo inabitabile / Scenografie, cattivo gusto, recitazione: brevi riflessioni sul Lubitsch tedesco

5

di Rinaldo Censi

Non è forse un caso che certi regni filmati da cineasti di origine ebraica siano immaginari. I principati o i piccoli ducati dei film di Eric von Stroheim, per esempio, come quello di Montebianco in The Merry Widow (1925), film tratto da Die lustige Witwe, operetta che fa il suo debutto a Vienna nel 1905, su cui anche Lubitsch applicherà il suo mestiere (1934), mantenendo il  territorio indicato dal testo originario: il principato di Marshovia. Nei primi decenni del ‘900 i viaggi certificano ancora l’incontro con l’esotico, con un altrove sconosciuto e immaginario. L’oriente casalingo di Lubitsch, ad esempio: è l’Egitto di Die Augen der Mumie Ma (1918), o Das Weib des Pharao (1922) o ancora l’Oriente di Sumurum (1923), filmati senza muoversi dalla Germania, giusto schizzando fregi dal sapore esotico, immaginando labirinti scenografici, piazzandovi una mummia, o qualche elefante dello zoo. E che dire della fortezza militare di Tossenstein a due passi da Piffkaneiro (Die Bergkatze)?

50 aforismi #2

6

Morte/Umanità/Amore/Suicidio

di Luca Ricci

Aveva faticosamente imparato quello che altri semplicemente sapevano.

Un ribelle a cui viene spiegato per filo e per segno a cosa ribellarsi.

Scommetteva sulla propria incoerenza, e vinceva sempre.

Charles Taylor, “Radici dell’io”: una genealogia della modernità (2)

11

[La prima parte di questo articolo si trova qui; questa seconda parte può costituire anche una riflessione sul brano di Bellow e Botsford postato da Massimo Rizzante qui. La questione non è di poco conto: riguarda la non ovvia convivenza di ideali selettivi legati all’opera d’arte e letteraria con ideali propri di una società democratica.]

di Andrea Inglese

L’espressione di sé tra parodia diffusa e sublime elitario

La valorizzazione della svolta espressivista nella modernità ha un ruolo fondamentale nell’argomentazione filosofica di Taylor. Per lui, l’unica possibilità di dare senso al sistema di valori promosso dal liberalismo occidentale, basato sulla difesa di diritti umani universali e sulla giustizia procedurale, consiste nell’esplicitare le premesse antropologiche su cui quel sistema si basa. Queste premesse implicano il riconoscimento di “fonti morali”, ossia di beni nel senso aristotelico del termine, che vanno perseguiti per se stessi. Il rispetto della vita umana e dei diritti fondamentali delle persone non può basarsi su una generica benevolenza verso i miei simili, ma deve fare leva su una concezione dell’integrità della vita umana e dei beni che rappresentano per essa esperienze quali l’autonomia, il possesso, l’espressione di sé. È da individuare qui il contributo filosofico decisivo di Taylor al dibattito contemporaneo sulle questioni morali. Per uscire da un’etica puramente formale, basata sul rispetto della norma e della procedura, bisogna ricollocare la concezione dei diritti universali entro una prospettiva antropologica, che riscopra l’esistenza di quella pluralità di beni in grado di rendere una vita umana integra, degna e piena di senso. Così facendo, però, si è anche trovato il modo di articolare beni collettivi e beni individuali, le richieste della società nei confronti del singolo e quelle del singolo nei confronti della società. Il perseguimento della mia realizzazione personale non appare più in contraddizione con la difesa della dignità per il più grande numero di persone, in quanto entrambi questi valori si sostengono e si sviluppano in modo correlato.

Alfa Zeta1 per Alfabeta2- B come Bologna

4

Sulla strage di Bologna e l’ora esatta le sentenze no. Con le parole di Jacques Prévert in pioggia su Brest. Nuova serie, Alfa Zeta, dei Photoshoperò per il sito di Alfabeta2 (effeffe)

Corpo stellare

6

di Fabio Pusterla

LAMENTO DEGLI ANIMALI CONDOTTI AL MACELLO

Guarda: ci portano via. Nella canzone
dei giorni ci stramazzano. E cantiamo
per questa ultima ora: noi cantiamo
la nostra bellezza negata. E siamo vivi.

Vagano spore al vento, ali del cuore
che chiama il sangue a sé, che lo fa scorrere
nei fiumi delle vene, ai venti caldi
dei desideri che ci sono tolti. E siamo vivi.

E sono mari i nostri desideri,
percorriamo foreste di memoria
tra poco incenerite, ed ora splendide.

Cenere i tronchi, i mari in secca. Ma noi vivi,
vivi più vivi della mano che martoria. Chi ci nega
la luce ignora questo: siamo vivi

nella gloria del male che ci è dato,
nel silenzio del colpo che ci è inferto.
Muti, dimenticati.

**

intermezzo estivo 2: sempre allegri

5

di Antonio Sparzani

Alfa Zeta1 per Alfabeta2

2

Hommage à Baudelaire (Lo straniero) in una video intervista sull’Arte della scrittura a Gaetano Sgambati (Accademia Belle Arti di Napoli). Nuova serie, Alfa Zeta, dei Photoshoperò per il sito di Alfabeta2 (effeffe)

Pista!

33

di Gianni Biondillo

In questa Milano tropicale bevo una birra ghiacciata con M., amico di sempre che vive ancora a Quarto Oggiaro. Ci vediamo poco, abbiamo vite diverse: io con moglie e figlie la sera resto a casa, lui di notte inizia a vivere. Mi sono preso la sera libera, insomma; giro con lui in macchina per una città che non conosco e che non mi appartiene, incrociando di continuo i luoghi topici della movida, della vida loca, dello sballo. Ma non c’è voyerismo, da parte nostra, né pelosa indignazione. Semplicemente si va per percorsi sempre uguali a se stessi, abitudinari.

La “critica universitaria” e l’esplosione. Un invito a partire dal lavoro sulla poesia

11

di Giancarlo Alfano

 Cari amici di Nazione indiana, riprendo qui in forma di lettera alcune considerazioni che ho proposto un paio di mesi fa nel corso del festoso e proficuo incontro del 29 maggio. Lo faccio adesso anche perché si discute in questi giorni in Parlamento il disegno di legge cosiddetto “Gelmini”, che, a mio avviso, umilia profondamente la funzione pubblica dell’insengamento e della ricerca universitaria (limitando di fatto l’accesso all’università pubblica) e perché il dibattito sul mondo universitario mi pare povero, stanco, ripetitivo. Occorre invece tenere alta la guardia su quel che sta succedendo e su quel che ci sembra fondamentale per la formazione intellettuale in Italia.

Durante il dibattitto promosso da Andrea Inglese “Alla ricerca del vocabolario perduto” a me è toccato ragionare sulla “critica universitaria”, nel tentativo di rispondere alla domanda del promotore, e cioè se fosse «possibile individuare un vocabolario condiviso per la critica». Personalmente non sono persuaso che esista una cosa come la “critica universitaria” distinta da altri esercizi critici. Credo invece che si debba capire che cosa fa chi lavora all’interno delle istituzioni accademiche (sia o non sia ricercatore, borsista, dottorando, docente, etc.).

G. M. HOPKINS

57

di Franco Buffoni

G. M. Hopkins (1844-1889) oggi si staglia ai vertici poetici della letteratura inglese del secondo Ottocento, ma occorsero decenni perché il suo genio venisse riconosciuto. Basti pensare che la prima edizione parziale della sua opera – apparsa in 750 copie solo nel 1918 – impiegò dieci anni ad andare esaurita. (E va dato atto a Benedetto Croce di essere stato tra i primi in Europa a riconoscere il valore di Hopkins sulla rivista “Critica” nel 1937). Incrollabile nella fede cristiana, tolemaico nella visione cosmogonica, Hopkins entra a ventiquattro anni nella Compagnia di Gesù, distruggendo quasi tutte le poesie fino ad allora composte e giurando a se stesso – come Gerard – di non più scriverne. Il secondo nome – Manley – era il nome del padre, e Hopkins spesso fece mostra di esserselo scordato, forse per una questione di omofonia con l’aggettivo manly (virile) che non prediligeva per sé. Studente al Balliol di Oxford, teneva un diario in cui elencava anche i peccati commessi, con abbreviazioni (O.H. – Old Habits, vecchie abitudini: “Ho guardato un corista al Magdalen”).