(Parlato)
Io ho sentito molte ballate
quella di Tom Dooley
quella di Davy Crockett
e sarebbe piaciuto anche a me
scriverne una così
invece… invece niente
ho fatto una ballata
per uno che sta a Milano
al Giambellino
il Cerutti, Cerutti Gino
(Parlato)
Io ho sentito molte ballate
quella di Tom Dooley
quella di Davy Crockett
e sarebbe piaciuto anche a me
scriverne una così
invece… invece niente
ho fatto una ballata
per uno che sta a Milano
al Giambellino
il Cerutti, Cerutti Gino
a Kornel, deportato in Romania
di Marco Revelli
Quasi tutti sanno (o dovrebbero) cosa sia la Shoà. Pochi invece, quasi nessuno, cosa voglia dire Porrajmos. È il termine che in lingua romané significa «distruzione », anzi «qualcosa di più» – come spiega Giorgio Bezzecchi, il rom hervato che ha tradotto per Fabrizio De André le ultime strofe di Khorakhané -: «devastazione», «divoramento », comunque ««annientamento ». Sta a indicare lo sterminio degli zingari, Rom e Sinti, per opera dei nazisti e dei fascisti, nei luoghi – Auschwitz soprattutto – che a stento, e di malavoglia, la nostra memoria contemporanea accetta di ricollegare alla tragedia dei nomadi europei preferendo tenerli segregati in una terra di nessuno della storia, esattamente come ne tiene segregati i discendenti nelle tante terre di nessuno delle nostre periferie urbane.
di Francesco Marotta
DOPO LO TSUNAMI (CANTO PER LA NOTTE DI CAPODANNO)
rovine aperte al nulla del risveglio
aborti di rose nel grembo umido dell’alba
che rampica latrine e
accende lumi su terre di naufragio –
un faro
dove solitario frange
il canto veggente dell’onda
l’eco che dilegua
del suo piumato alfabeto di semi
la schiuma che resta
un attimo e non dura…
di Giorgio Vasta

Il 25 dicembre del 1956, Robert Walser esce dall’istituto per malattie nervose di Herisau, dove vive dal 1929 trascorrendo parte del tempo a piegare sacchetti di carta, dormendo in una camerata da dieci letti. Va a fare una passeggiata. Fa spesso passeggiate, gli piace. Esce alle 12,30, ritorna dopo un’ora. Ritorna sempre puntualissimo. Durante il periodo trascorso in istituto, ventisette anni, Robert Walser non si rivela particolarmente socievole. Ha le sue abitudini, un suo modo preciso di organizzare il tempo e di contarlo. Lo stesso fa con lo spazio fisico, quello intorno a lui. Lo organizza, lo conta, lo studia, se ne assume la responsabilità. Se qualcuno gli si avvicina troppo, Walser, perentorio, esclama: “Gönt Sie wäg!”, Se ne vada!
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Erano alcune settimane che avevo voglia di dire anzi urlare:no. Da più parti mi arrivano segni – sintomi?- addirittura libri, di Restaurazione. Scrittori , peraltro stimati, partecipano all’ambaradan dello scandalo gridato sui giornali e provocato dalla rimessa in libertà dopo trent’anni di galera – e mi chiedo quante settimane, giorni, ore, minuti facciano trent’anni – di ex terroristi. Ho sempre lottato per l’amnistia, e ho partecipato a manifestazioni, incontri, firmato appelli, quello per Cesare Battisti o Paolo Persichetti, per Toni Negri o Scalzone (Oreste).
E non si hanno nemmeno prove concrete del loro pentimento– essi scrivono. La parola pentito mi addolora, quando non è uno stato interiore, un sussurro o un grido, da sè a sè, e diventa invece la prova fondante della buona coscienza, magari da dire in conferenza stampa, davanti a un giudice o a Porta a Porta…
Il pentimento non fa parte dello stato di diritto. Come diceva un filosofo, non Marx, la legge morale dentro di me…
Per questo Natale ho un solo sogno: Amnistia, e un cielo stellato, fuori, di tutti. Vittime e carnefici.
Francesco Forlani
Cattive memorie
di Giorgio Agamben
La classe politica italiana rifiutando l’ipotesi dell’amnistia per i reati degli anni di piombo si condanna al risentimento: ciò che dovrebbe essere oggetto di indagine storica viene trattato come un problema politico di oggi.
L’orizzonte si era appena schiuso quando nelle pianure del sommo cielo spuntarono gli esseri misteriosi che chiamiamo il sacro Amenominakanushi, il sacro Takamimusuhi e il sacro Kamumusuhi, tre, solitari, invisibili. Fra terre informi come grasso sull’acqua e alla deriva come meduse, da creature simili a germi di giunco spuntarono il sacro principe Umashiashikabi e il sacro Amenotokotachi, entrambi altresì solitari e invisibili. Cinque esseri sacri di un mondo separato.
di Sergio Garufi
Tutte le storie d’amore felici si assomigliano, ogni storia d’amore infelice è infelice a modo suo. Se sia il principio di individuazione, l’estrema consapevolezza di sé, a farci sentire estranei agli altri, o, più banalmente, se sia la snobistica arroganza del vittimismo a indurci a credere che il nostro dolore non possa essere condiviso, a impedirci di riconoscere la sostanziale identità del destino di ciascuno, questo Tolstoj non lo spiegò nella sua Anna Karenina. Come la scrittura ebraica, che non possiede vocali perché esse vanno integrate nell’atto della lettura, la grande letteratura è sempre un po’ sibillina, preferisce l’allusione all’espressione ed esige un interlocutore che colmi gli spazi vuoti e partecipi alla costruzione del senso dell’opera.
Era notte fonda quando una donna, di ritorno a Sostila, sentì all’improvviso provenire voci e musica dalle finestre aperte di una vecchia casa abbandonata. Curiosa, entrò e con suo grande stupore si trovò nel bel mezzo di una festa da ballo. Gli uomini vennero subito a invitarla e lei non si fece pregare due volte. Ballò sfrenatamente tutta la notte finché, verso l’alba, una voce le sussurrò all’orecchio di smettere: i morti sarebbero troppo deboli per una donna giovane e forte come lei…
Da ieri ha 90 anni. Non li dimostra per niente. Sì, ha detto che attende la fine, che ha perso il gusto. Forse scherzava; per allontanarla ancora e ancora, la Baldracca.
di Franz Krauspenhaar
(Da un fortunato “format” di Gianni Biondillo)
Sono pieno di rabbia come un cane: pape satan pape satan alane.
Il mondo è immondo: mai mondato di vizio, l’unico sfizio è il mio telecomando.
Per calmare i miei nervi il professore – m’ha dato il cadaverilene malmostato; ne ho preso assai, fino all’ esaurimento: ora, di male in peggio di così si muore.
Vogliono seppellire da ateo Welby: per questo fatto m’incazzo come Humphrey.
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Anna Maria e gli anni della Nunziatella
di
Renata Prunas
Gli anni della Nunziatella iniziano nel 1945.
Tornati a Napoli, dopo gli anni difficili vissuti da sfollati, inseguiti dai bombardamenti e dai rastrellamenti a tappeto dei ‘traditori italiani’, da parte dei tedeschi in ritirata, La Nunziatella apparve a tutta la famiglia come un meraviglioso, inespugnabile e solido ‘Castello’, nascosto in cima ad una strada dal nome più che rassicurante: Monte di Dio!
Tutto evocava finalmente una protezione e forse un po’ di serenità.
Si lasciavano a valle strade devastate, ostruite da interi palazzi in macerie e la città ridotta ad un “paesaggio con rovine”, come la definirà lo scrittore Samy Fayad.
[Severino Colombo, giornalista freelance, in questo periodo di scioperi a singhiozzo dei giornalisti, mi delizia di tanto in tanto via email con questi suoi annunci di lavoro. Gli ho chiesto il permesso di renderli pubblici. Nel caso qualcuno gli trova un impiego poi mi da la percentuale! G.B.]
Giornalista specializzato in lavori irregolari e sottopagati si offre per ogni tipo di articoli, inchieste e interviste. Tutto senza fare mai troppe domande e senza chiedere di essere pagato (mail: Ctrl_C@Ctrl_V.it)
1. ripubblicazione, uh
di un
breve romanzo
del nobel
per la letteratura – nel 1909
selma lagerlof,
storia di intenso impatto
che è una ripresa del
canto di natale di dickens
sul solco
del mito bretone
del carrettiere della morte
ambientato (però)
nel sottoproletariato, e teso
tra forte realismo dell’ambientazione
e la fantastica presenza
del carretto
e del suo cocchiere.
di Gianni Biondillo
Patrick Modiano, Un pedigree, Einaudi, 2006
Avevo già letto un libro di Patrick Modiano, Dora Bruder, edito da Guanda. Un piccolo libro dove l’autore, con in mano solo un nome e l’annuncio di una persona scomparsa cerca inutilmente di ricostruire la vita della protagonista. Un libro sulla sconfitta della scrittura. Un bel libro.
E’ magica Parigi di notte. Di tutte le città in cui Laura ed io abbiamo vissuto – Los Angeles, Roma, Londra, Berlino – Parigi ha un fascino speciale. E’ la città del cuore, la città che lo riscalda, il mio cuore freddo.
Laura è fuori. Talvolta esce da sola, e anch’io lo faccio, certe sere. Un tempo uscivamo sempre insieme, poi abbiamo deciso che non vi è nulla di male in una certa autonomia personale. Per molti anni siamo stati un’entità unica, vincolati da un legame simbiotico. Ma è normale, è sempre così nella fase iniziale.
di Marco Rovelli
Questo scrittore ha una sua voce, si dice. E lo si dice appropriatamente, a mio parere. Nel canto, decisiva è l’intenzione. Ovvero, il come la voce è portata. Il come della voce: un come che fa meraviglia. Un non-so-che che fa la differenza.
In auto, ascoltiamo – velocemente – un cd di quelli comprati a un euro e novanta. Canzoni degli anni quaranta, Nilla Pizzi, Flo Sandons, eccetera. Poi, un cd di Rosa Balistreri. Ed è tutta un’altra cosa. Rosa, meravigliosa cantante della tradizione popolare siciliana, nata nella durezza della miseria, Rosa che porta nel suo canto la pietra e il sole.
tratto da Riccardo in sé
Riccardo Terzo, da Shakespeare e da se stesso
Il testo che segue è un testo in movimento. La versione che qui pubblichiamo è leggermente differente da quella letta al festival della filosofia di Roma all’interno del ciclo di dialoghi, in stabile fluire, curato da Lucio Saviani con Pasquale Panella, Paolo Rosa (studio azzurro), Domenico Zampaglione e Gino Ventriglia. La prima parte è stata pubblicata su Sud n°7 e su NI. Scrive Pasquale Panella a Lucio Saviani: Il testo è mobile, cambia a seconda del luogo, del clima…
Quale inverno?… A presto Pasquale
La tragedia sta tutta nei nomi…
Questi nomi, poi spettri…
E io faccio male? Io faccio i nomi…
Quei nomi portati come un peso
sulle spalle di chi risponde a quei nomi
Questi sono i miei delitti: i loro nomi…
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Piero Sorrentino intervista Domenico Scarpa
Racconti, ritratti, poesie, polemiche recita il sottotitolo di Cinematografo (pagg. 506, euro 14, Sellerio), ultima tra le succose pubblicazioni soldatiane che la benemerita Sellerio sta sfornando da qualche anno a getto continuo. Curata da Domenico Scarpa, l’antologia di scritti cinematografici di Mario Soldati si presenta, per dirla con l’aletta firmata da Salvatore Silvano Nigro, come uno straordinario “romanzo involontario”. Un libro nelle cui maglie resta impigliata la voce, e la scrittura, di uno dei maggiori narratori del Novecento.
Ti sei inventato un libro che, fin dall’apertura di prefazione, dichiara quello che non è: non è “un volume documentario”, “non si propone di ricostruire una filmografia”. Che cos’è Cinematografo allora?
Cinematografo è un libro di letteratura che non è stato materialmente allestito dal suo autore. Un libro apocrifo, come dico alla fine di quello scritto introduttivo. Un libro nel quale Soldati ci lascia leggere la propria vita attraverso il cinema e il suo amore-odio per il cinema. È un libro di passioni, di intemperanze, di elogi, di risentimenti, di soliloqui, di polemiche, di memorie. Ma soprattutto è un libro di racconti, perché Soldati attacca a raccontare non appena mette la penna su un foglio.
di Fabrizio Centofanti
Prima o poi ti fanno la domanda: perché la vocazione? È imbarazzante: dovresti prendere tempo, spiegare, entrare nei dettagli, ripercorrere momenti che marchiarono a fuoco l’esistenza. Invece sintetizzi e circoscrivi, con una sorta di pudore che sottintende una sottile riserva: riuscirò mai a farmi capire?
di
Yvonne Baby
traduzione di Francesca Spinelli
Ho conosciuto Orson Welles quando era triste. Naturalmente era ben attento a indossare tutte le sue maschere, cambiandole a seconda della compagnia, recitando, inesauribile e autoironico, i ruoli dei suoi ruoli. Rideva, sopra le sue mani infantili e le bollicine di Dom Pérignon che offriva a tutti, bevendo acqua, aureolato di una tristezza assoluta e decisiva. Tristezza del cinema che finisce e non finisce – fenice che risorge dalle proprie ceneri -, tristezza della vita che lo tradisce, della malattia che lo espone e gli toglie le forze. Eppure resiste, e vuole girare ancora, resiste ma muore sulle orme di re Lear, muore, come scrive Shakespeare, “sulle ombre del suo dolore” (“the shadow of sorrow”).