di Sergio Garufi
Per lungo tempo ho creduto ciecamente all’interpretazione ufficiale di David Foster Wallace. Wallace è il Musil del terzo millennio!, l’ultimo grande mostro sacro della letteratura mondiale!, la mente migliore della mia generazione!, un classico contemporaneo!, un temporale d’intelligenza! E’ curioso come si possa dar credito per anni a queste panzane, come ci si lasci così facilmente gabbare dalla più enfatica propaganda critico-letteraria; eppure il carattere scopertamente agiografico delle interviste in ginocchio e delle recensioni adoranti avrebbe dovuto svelarne subito l’esagerazione e l’inconsistenza. Forse, ciò che gli nuoce maggiormente è proprio questo culto della personalità, questa canonizzazione in vita (Wallace santo subito!), per colpa della quale di una promettente parabola artistica si è fatto carne da macello accademico, materia per tesi di laurea ed encomi solenni. Ed è naturale che, giunti a questo punto – cioè al punto in cui il suo nome non si può più discutere, perché appartiene al pantheon dei grandi pur avendo poco più di 40 anni, e quindi esige uno spirito acritico, un atteggiamento fideistico di prona devozione -, oggi esprimere delle riserve su Wallace risulti blasfemo, equivalga a sputare nell’acquasantiera, tanto più se si intende intaccare il mito fondante sul quale è basata l’unanime ammirazione dei lettori: la sua prodigiosa intelligenza.