Di Andrea Inglese
Giacomo Sartori ha pubblicato su NI una risposta a un articolo di Massimo Rizzante, sottolineando i diversi ostacoli contri i quali urta il romanziere italiano, condannato ad una lingua e ad un paesaggio culturale determinati. Vorrei estendere questo dialogo all’ambito della poesia. Ma anche mostrare un particolare approccio a quella lingua sui generis che è la lingua di “traduzione’.
La traduzione come critica della cultura
In un articolo del 1947 apparso su “L’Unità” (1), Pavese ripercorreva le ragioni della propria e della altrui attività di traduttore, svoltasi nel decennio dal Trenta al Quaranta, durante il fascismo. In poche pagine, egli chiarisce non solo l’esperienza circoscritta dell’intellettuale antifascista in lotta sorda contro il regime, ma fornisce una chiave di lettura più ampia per comprendere l’esigenza di tradurre letteratura in circostanze storiche che si possono ripresentare in luoghi e tempi diversi.

La sveglia è alle cinque e mezzo. L’incontro alle ore sei in corso Belgio novanta. In corso Belgio novanta per Torino 2006. La torcia non si deve spegnere nemmeno sotto pioggia, neve e vento fino a 120 km/h e il fuoco che sprigiona non deve superare i 10 cm d’altezza con un’autonomia di 15 minuti. Alta 765 mm, 108 mm di diametro e 1,850 kg di peso, è prodotta in 12.000 esemplari numerati. Mitico!! Furlen tedoforo!